Yervant Gianikian e anGela ricci lucchi NON NON NON Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi NON NON NON Quaderno HangarBicocca n. 1 A cura di Andrea Lissoni con la collaborazione di Chiara Bertola Editing Francesca Trovalusci Coordinamento Editoriale Valentina Fossati Fotografia Agostino Osio Grafica Leftloft Traduzioni Studio Bozzola Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi – NON NON NON è il primo Quaderno Critico di HangarBicocca, uno strumento che nasce con il duplice obiettivo di offrire un contributo di approfondimento sugli artisti coinvolti nelle mostre e di colmare eventuali lacune di testi di natura critico-teorica sulla loro ricerca. Basato su contributi di esperti, il Quaderno consente di contestualizzare il percorso degli artisti in un panorama cul- turale e storico-artistico più esteso; il Quaderno contribuisce inoltre a puntualizzare le motivazioni delle scelte degli artisti e la specificità delle opere proposte nell’ambito della visione curatoriale di HangarBicocca. Nel caso di Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi la pubblicazione è motivata dalla necessità di sopperire alla non semplice reperibilità dei testi dedicati alla loro imponente ricerca (testi peraltro disseminati in contesti disparati, poco accessibili e raramente tradotti in lingua italiana). Ma il proposito è anche e soprattutto quello di illuminare per la pri- ma volta l’ampio segmento della loro attività relativo alle installazioni video e ai disegni (e quindi alla relazione con l’arte contemporanea), che rappresenta di fatto il cuore della mostra presso HangarBicocca. In questo senso si è ritenuto importante – in sintonia con l’identità rinnovata di HangarBicocca – rendere i quaderni il più possibile accessibili, pubblicandoli sotto licenza Creative Commons* e rendendoli scaricabili dal sito www. hangarbicocca.org in formato pdf e ebook. Ringraziamo tutti gli autori che hanno generosamente accettato la nostra proposta di prendere parte a questo progetto con un testo inedito o rivisto. *Licenza Creative Commons – Attribuzione – Non Commerciale – Non opere derivate 3.0 (http://creativecommons.org/licenses/by-nc-nd/3.0/deed.it). Le imma- gini sono copyright dei rispettivi proprietari che autorizzano a pubblicarle su questo Quaderno e a diffonderle nell’ambito delle attività legate al progetto. Foto: Variazione, serie da I Cineasti, acquerello su carta, 24.5 x 17.0 cm, 1989 – 1996, di Agostino Osio. Indice Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi NON NON NON Quaderno HangarBicocca n. 1 L’occhio è strumento del pensiero – Chiara Bertola Scruta, interroga, graffia. Gianikian e Ricci Lucchi, esplorare senza arrendersi mai alla storia – Andrea Lissoni Alla ricerca del tempo perduto – Mark Nash Bloody News from Friends, Notizie di sangue dagli amici: il cinema denso di Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi – Ara H. Merjian Oggetti trovati – Rinaldo Censi Cartografia dei gesti – Christa Blümlinger Mano di verità – Raymond Bellour Biografia Bibliografia Filmografia Installazioni L’occhio è strumento del pensiero — Chiara Bertola A casa di Angela e Yervant, a Milano. Nella loro cucina ritrovo oggetti e gesti che pensavo inghiottiti dal tempo. Sembra di respirare qualcosa che si è perduto, la cultura del fare, l’attenzione alla tradizione ereditata, il rispetto per le cose dell’uomo. Insieme ad Andrea Lissoni – che fin dall’inizio della nostra collaborazione all’Hangar ha proposto la loro mostra – riprendiamo il filo dei discorsi, molti, tutti intrecciati l’uno nell’altro e difficili da dipanare, da districare come se ci trovassimo perduti in mezzo ai rovi. Avevo visto Dal Polo all’Equatore, uno dei loro film più conosciuti, a Boston, e La marcia dell’uomo, installato alla 49a Biennale di Harald Szeemann nel 2001. Poco o nulla rispetto alla loro immensa filmografia. Adesso ho la possibilità di vedere i loro film uno a uno e con una proiezione privilegiata, col tempo necessario e l’opportunità di domandare e dialogare con gli autori. Adesso, le immagini dei film insieme ai loro racconti, uno dopo l’altro, si estendono ampi, potenti, emozionali e si allargano, crescono fino a diventare, per la forza etica dei temi, per la potenza delle immagini, per l’urgenza e l’attualità della denuncia, qualcosa d’ingombrante e nello stesso tempo di maestoso e immenso come una cattedrale. Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi sono considerati i capifila del cinema sperimentale italiano. Sono conosciuti in tutto il mondo e vivono e lavorano insieme a Milano. HangarBicocca accoglie la prima retrospettiva assoluta di installazioni della loro opera. I due artisti iniziano a collaborare agli inizi degli anni Settanta raccogliendo, catalogando e collezionando centinaia di oggetti, la maggior parte vecchi giocattoli e immagini che iniziano a filmare, riattivando la memoria inevitabilmen- te incrostata in essi. È così, ad esempio, che nella leggera animazione di Carrousel de Jeux e Ghiro Ghiro Tondo, il passato rievocato e rivivificato restituisce nuovi e vecchissimi racconti, dolorosi e gioiosi al tempo stesso. E come se non fossero sufficienti quei resti per sollecitare un ricordo sommerso, gli autori sostituiscono alla colonna sonora una colonna olfattiva, diffondendo nella sala della proiezione profumi che, come madeleine proustiane, raccordano i fatti della storia alle emozioni personali. Si tratta degli esordi del percorso creativo dei due artisti, incentrato sugli archivi filmici e fotografici che si sono accumulati nel corso degli anni fino al 1977, anno in cui essi scoprono alcuni film su pellicola al nitrato girati dal documentarista Luca Comerio all’inizio del secolo. Salvano le pellicole, che tecnicamente non sono più visibili o il cui materiale si sta lentamente deteriorando, e ri-filmano ogni fotogramma con una speciale macchina inventata e costruita da Yervant: la camera analitica. Come i fili di un telaio su cui s’intreccerà il disegno della tela, allo stesso modo Yervant e Angela tessono i fotogrammi delle vecchie pellicole e le rimontano evidenziando la trama nascosta della storia. Esplorano i temi del passato per mostrare quanto essi siano sottesi al presente, quanto il tempo trascorso nella prima metà del secolo scorso continui a plasmare il nostro presente. «Pensiamo che esista solo il presente e per noi la memoria è presente, non passato. Per questo rifiutiamo la categoria di archeologi, lavoriamo nel presente e per il presente, l’idea del passato non la accettiamo, quello che vediamo nei fotogrammi è quello che vediamo oggi»1. Gli artisti lavorano sui fotogrammi, rifilandoli, colorandoli, tagliandoli, pulendoli, per estrarre l’essenza di una so- stanza temporale che sta per dissolversi, innestando su qualcosa di oscuro un seme di verità… come se la storia fosse terra… come se le immagini fossero zolle rigirate al sole da un aratro. La camera analitica – che Gianikian e Ricci Lucchi costruiscono artigianalmente per riuscire a ri-filmare le vecchie pellicole ritrovate – agisce come quell’attrezzo rurale, riportando alla luce un mondo la cui verità rischia di rimanere sepolta. Questo il senso di quel lavoro immenso e faticoso di Yervant che per cinque anni di seguito ri-filma nel buio dello studio i 360.000 fotogrammi della pellico- la Dal Polo all’Equatore, ritrovato nell’archivio Comerio, e insieme ad Angela li ricolora, li musica, li riordina. Un modo di operare che rievoca le parole di Osip Mandel’štam, quando ricorda che «l’occhio è strumento del pensiero2». In questo caso l’occhio è la camera analitica dei due cineasti, in grado di vedere nelle cose i tratti che ci legano al lontano e al diverso e di mostrarli in nuove e insolite relazioni visive. Un occhio che «come quello di un uccello rapa- ce, possiede la facoltà di adeguamento. Ora si trasforma in un binocolo militare a lunga gittata, ora nella lente d’in- grandimento del gioielliere3». Un occhio che recupera e interroga le immagini della Storia rimettendola in moto. Per ottenere questo scopo gli artisti cercano una prospettiva intenzionalmente “bassa”, attenta a particolari quasi invisibili, e soprattutto volta a costruire quel grande e impercettibile “telaio” concettuale capace di tessere insieme gesti, memo- rie, profumi, immagini, oggetti che si pensavano perduti per sempre. «Ci interessa l’archivio perché tutto il presente è già contenuto nell’archivio… ma è lento e noi dobbiamo rileggerlo e rimetterlo in moto. La memoria ci interessa non come passato ma come scoprimento e lettura del presente4». L’immensa opera dei Gianikian possiamo immaginarla allora come la cronaca di un incubo o di un sogno sulla storia del Novecento. È una realtà governata dalle ambivalenti leggi oniriche, capaci di rovesciare il contenuto letterale della visione nel suo opposto. E nei film dedicati agli anonimi, alle persone e alle cose scomparse, al non senso della guerra, la sola possibilità di rinascita sembra intravedersi in quel tempo ciclico – senza fine né inizio – del linguag- gio poetico delle immagini che è l’emblema del sentire umano. La ciclicità di un tempo in cui le ferite della guerra si assorbono nella bellezza tragica di un volto ferito e si cauterizzano nel sorriso di un mutilato. Perché il linguaggio dell’arte, così come quello della poesia, riesce a far sì che «i marci petali della rosa sfiorita» si riuniscano alla terra «per generare nuove forme di vita5». La storia dell’uomo è anche il cammino dello spettatore Il lavoro di Angela e Yervant è stato sempre presentato, criticato e amato nel circuito del cinema d’avanguardia mentre molto poco lo si è presentato al mondo dell’arte contemporanea, non considerando invece l’importanza che ha in que- sto ambito. Il motivo è da imputare anche a una scelta precisa degli artisti che li spinge, negli anni Settanta, a seguire la via offerta dal cinema: «In quegli anni […] non avevamo più contatti con il mondo dell’arte, eravamo usciti dalle gallerie e il cinema ci sembrava il nostro mondo. Un mezzo più democratico, più aperto e fuori dai mercati6». Così si deve aspettare fino al 2001, quando l’invito di Harald Szeemann alla 49a Biennale di Venezia li induce a ripresentarsi al mondo dell’arte contemporanea internazionale. In effetti, già un anno prima la Fondation Cartier aveva commissio- nato loro un’opera, Visions du désert, un lavoro che sviluppano attraverso la realizzazione di un’installazione. Subito dopo, nel 2004, sono invitati a partecipare a una grande mostra collettiva internazionale, Experiments with Truth, al Museo di Philadelphia, in cui propongono un’installazione multipla dove il tempo di proiezione non si riesce più a controllare e la sincronia tra i quattro schermi si perde poco a poco. Cominciano quindi a usare lo spazio e la possibili- tà di suddividere o moltiplicare la proiezione su schermi multipli, fatto che raddoppia le possibilità emozionali e nello stesso tempo permette di accordare lo spettatore a una sorta di passo di camminata: si offre la possibilità al pubblico di incedere insieme agli artisti lungo la via della loro ricerca. Riprendendo questo modulo espressivo, nella mostra NON NON NON all’Hangar, i loro film sono presentati in forma installativa attraverso diverse grandi proiezioni multiple lungo una delle navate. La marcia dell’uomo rivela, uno dopo l’altro, attraverso tre grandi schermi, tre momenti chiave della storia delle immagini del Novecento. Nello spazio del Cubo, invece, sono presentate cinque installazioni significative del loro percorso artistico: si tratta della serie dei Frammenti elettrici (diffusa su quattro pareti in simulta- nea), Visions du désert, Trittico del Novecento, Terrae Nullius, Topografie. La marcia dell’uomo diventa in questo caso anche quella che deve fare lo spettatore per poter vedere lo sviluppo dell’installazione. Camminando lungo la sequenza dei tre schermi si attraversa la storia dell’uomo in tre tempi “inter- ni” che si attivano successivamente: la fine dell’Ottocento con il primo schermo, gli anni Venti con il secondo e infine gli anni Sessanta, con il terzo. «Camminare è essenziale, ci piacerebbe realizzare delle camminate ancora più lun- ghe… Camminare vuol anche dire camminare fuori dal cinema, più lontano, allontanarsi dall’immagine o avvicinarsi ad un’altra, dove il cinema diventa una cosa quasi scultorea7». Nel lavoro proposto si consolida dunque il rapporto dei due artisti con l’arte contemporanea, un rapporto che per loro, come abbiamo detto, è ed è sempre stato intrecciato con il cinema sperimentale, una vera e propria scuola di espe- rienza percettiva: basti pensare all’attenzione per il dettaglio, accompagnata dai “trattamenti” della pellicola quali le colorazioni (talvolta acide, quasi pop, simili alle serigrafie di Warhol), l’uso di fotogrammi in negativo, la non cancel- lazione – spesso un’evidenziazione – delle tracce del deterioramento del nitrato di cellulosa, l’impiego della musica e di lunghi silenzi, che insieme costituiscono i procedimenti per attuare un processo che va «dall’arte verso il mondo8». Il cinema permette a Angela e Yervant di rallentare la velocità con cui il mondo scompare insieme con i suoi oggetti, le sue ragioni e i suoi torti; consente loro di mostrare il dettaglio, di sovvertire l’ordine, di scompaginare la realtà met- tendola sottosopra grazie agli ingrandimenti e allo scorrimento moderato delle immagini. La materia informe Inevitabilmente quando si parla di spiazzamento e ribaltamento, viene in mente il ready-made di Duchamp e di conseguenza il Dadaismo e il Surrealismo; dimensioni per le quali sia Yervant Gianikian che Angela Ricci Lucchi mi confermano l’iniziale interesse. Non a caso quando chiedo a Yervant e Angela la relazioni con l’arte contemporanea i primi nomi a essere evocati sono Dalí e Buñuel. L’orizzonte surrealista è quello cui guardano quando lavorano ai loro primi film profumati e quando catalogano oggetti, pellicole, e soprattutto vecchi giocattoli rotti o mutilati dal tempo e dalla violenza dell’uomo. Ecco una traccia: l’informe. Quella parola li riconnette all’esperienza delle prime manifesta- zioni surrealiste, ma nel senso indicato da Bataille (L’histoire de l’œil, 1926), che indirizza sotto la parola informe ciò che non trova la possibilità di essere definito: l’ambiguo9. Il Surrealismo cerca di creare un cortocircuito nella logica della forma producendo un’impensabile mutazione al suo interno. Minare questo concetto di forma diventa un pas- saggio fondamentale e fondativo per questo movimento artistico, che indietreggia davanti alle categorizzazioni della realtà imposte dal conformismo sociale di quegli anni. Come propone Rosalind Krauss, l’erosione di cui si sta parlan- do non è un attacco alla materia/forma della scultura ma piuttosto «un’erosione sul piano delle categorie10». Tento, allora, di ritrovare lo sguardo dei Gianikian Ricci Lucchi, in quei primi anni in cui raccolgono pezzi di reale, rotto e abbandonato, e lo ricompongono per restituirgli un’altra possibilità di “parola”, un’altra lingua. La forma di cui parlano, come per i surrealisti, non si riferisce solo alla fattezza fisica, ma anche, appunto, alle rigide categorizzazioni e opposizioni in cui la realtà è confinata: dentro/fuori, vivo/morto, alto/basso. Ed è «la trasgressione di queste distin- zioni […] che produce l’informe11». Seguendo Bataille, non sono solo le categorie logiche delle forme a definire l’a- spetto della realtà, ma è attraverso di esse che si attribuisce poi un significato alla realtà12. In questo senso l’attenzione dei Gianikian Ricci Lucchi ai documentari, così come ai film di scienza, al recupero di pellicole amatoriali così come d’archivio, può essere ricondotta soprattutto all’esigenza di procurarsi della materia da decostruire, per poi ricostruirla e trasformarla in altro. Il che significa soprattutto riplasmare tali elementi dentro altre categorie, portando ad esempio il “basso” a essere percepito come “alto”. «Ingrandire, mostrare i dettagli, estendere […] sono atti che, dopo averli manipolati, trasformano gli archivi iniziali in incontestabili e attuali discorsi ideologici13». Per fare questo, cioè affinché questa materia incominci a esercitare la funzione critica del linguaggio, i due autori hanno bisogno di segmentarla, tagliarla in tante parti distinte che serviranno poi come agenti portanti di un discorso diverso e rinnovato. Quella che essi consegnano al mondo dell’arte è una dichiarazione circa il potere espressivo della semplice materia (i fotogrammi), un potere che stava per scomparire, che era sul punto di scendere al livello dell’inar- ticolato. Si accostano ai fotogrammi, che loro considerano materia “informe”, come due scultori di fronte a una vera “pasta modellabile” da plasmare. Lo fanno mostrando quel materiale d’immagini da un punto marginale della storia, e da quel margine, da quel sottosopra, riescono a far emergere un’esperienza di quella stessa materia che diventa spiaz- zante e, in certi momenti, anche sublime. Gli acquerelli Ho l’occasione di entrare nel doloroso affresco proposto da Angela e Yervant non solo dalla porta principale del lavoro sui fotogrammi, ma anche da una finestra che lascia filtrare un po’ più di luce e di aria, raffreddando, placando e attenuando l’incandescenza delle immagini dei loro film. Uno spazio in cui riusciamo ad accostare gli stessi temi ma con uno sguardo forse leggermente più distaccato e un animo più sollevato... Sto parlando delle centinaia di acquerelli che Angela Ricci Lucchi ha continuato a disegnare, tessendo il paradigma narrativo e tematico entro cui si costrui- scono i loro film. La mostra all’Hangar è infatti resa eccezionale dalla presentazione di questi acquerelli finora mai esposti. Dopo il determinante incontro con Yervant Gianikian, a metà degli anni Settanta, Angela Ricci Lucchi per uscire dai limiti della pittura e dell’arte concettuale, si è spinta verso la sperimentazione performativa e cinematografica; di fatto, però, non ha mai smesso di dipingere, dando vita a un personalissimo universo pittorico costituito dall’insieme dei disegni ad acquerello. Un corpus che si articola su più piani e registri: i più importanti e continuativi sono quello diaristico, con acquerelli di piccole dimensioni (spesso su album), che segue la vita, i viaggi e la quotidianità dei due artisti; poi vi è quello strettamente connesso con le opere cinematografiche, di cui i singoli fotogrammi sono ripresi o reinterpretati in centinaia di pagine singole o su quaderni; e infine un terzo legato e basato sulla tradizione culturale armena delle fiabe. Gli acquerelli accompagnano da sempre il fare creativo e la vita dei due artisti. Prima è Yervant che prende appunti in forma di microstorie disegnate come rebus in cui piccolissimi disegni si alternano alla scrittura «alta e dritta come un viale di pioppi14». Una tipologia di appunti disegnati che in seguito Angela continuerà, dando forma ogni volta a visioni sempre più complesse. «Io non ho fatto scuole d’arte. Non credo che s’impari a diventa- re artisti. M’interessava molto la tecnica dell’acquerello, che continua ad affascinarmi tuttora. In Italia non ha una grande tradizione, mentre al nord sì, così ho avuto l’occasione di incontrare Oskar Kokoschka, che mi ha insegnato oltre all’acquerello una certa apertura mentale. A metà anni Sessanta la cultura nordica, dalla pittura, alla filosofia, alla letteratura, non era particolarmente conosciuta in Italia e l’incontro con Kokoschka è stata un’occasione per me per scoprirla15». Si tratta di una cultura mitteleuropea che include autori molto amati dall’artista, come Kraus, Ador- no, Werfel, Schönberg, ma soprattutto Musil (il cui diario di guerra ritroviamo in Su tutte le vette è pace) e Mahler, al quale Angela e Yervant dedicano addirittura un film. Gli acquerelli di Angela sono la tessitura del lavoro filmico; non propriamente quello che si definisce lo storyboard – perché non corrispondono alla sceneggiatura disegnata che accompagna la presentazione di un film – piuttosto un paradigma tematico e visivo derivato dalla narrazione delle loro pellicole. Gli storyboard di un film nascono come ap- punti veloci di chi, avendo a disposizione un tempo molto limitato per presentare e pubblicizzare un prodotto, studia e previene e visualizza la sequenza delle immagini nel modo il più possibile calcolato e calibrato; al contrario gli ac- querelli di Angela Ricci Lucchi seguono la lunga gestazione dei film che può durare anni e si accordano soprattutto al passo e al tempo della lettura dei libri, delle discussioni e dei racconti della sera. Anche se è difficile isolare i contribu- ti dei due artisti, è la mano di Angela che disegna e che ha sempre assunto nello stretto sodalizio di coppia il “fronte” più letterario e culturale. Yervant esplora e lavora sulle pellicole; Angela esplora e lavora sui libri. Yervant annota ogni cosa che vede nei fotogrammi nel suo taccuino nero; Angela traduce ogni pensiero discusso o letto negli acquerelli. Un giorno mi hanno detto: «I film sono il lavoro sui fotogrammi, gli acquerelli sono il lavoro sui libri». I libri di viaggio, etnografici, coloniali, i film o i documentari a soggetto esotico costituiscono un’inesauribile materia di confronto e nutrimento per le loro ricerche, aiutandoli a smascherare la fisionomia ottusa, violenta e sprezzante di fenomeni come il colonialismo o come il più recente turismo di massa. «I film a soggetto esotico c’interessavano per questa dimensione di rapina, di rapina culturale che poi avremmo trattato in Dal Polo all’Equatore16». Angela legge soprattutto la letteratura di viaggio, quella che assume nel Ventennio un valore spiccatamente propagandistico. È un genere molto specifico, connesso a una scrittura leggera che non nasconde forme di razzismo, esaltazione e propagan- da dell’Italia all’estero, nel segno della politica di “sprovincializzazione” dell’Italia durante il regime fascista. Un altro giorno nella casa/studio di Angela e Yervant a Milano: dobbiamo vedere e scegliere gli acquerelli da mettere in mostra. Sono ammonticchiati sul tavolo, in studio, pile di album suddivisi per temi (Mahler, Marinetti, Guerra, Oh! Uomo, Dal Polo…) ma anche in relazione ai viaggi, molti e intensi, che hanno segnato gli anni Settanta e Ottanta: Vienna, la Turchia, gli Stati Uniti, l’Armenia, Gerusalemme, Parigi, Mosca, Leningrado... Ogni album contiene ordinati singolarmente in ogni facciata i fotogrammi ritradotti in acquerello. I disegni si sus- seguono uno dopo l’altro sui fogli dei quaderni procedendo di pagina in pagina, come di scena in scena. In realtà, pur seguendo la narrazione e il tema del film cui la coppia sta lavorando, la narrazione acquerellata di Angela è “un altro film”, nato dalle immagini più significative e intense viste nelle pellicole. Sono piccole gemme che emergono dall’ombra dei fermo immagine… penso alla serie di acquerelli tratta da Su tutte le vette è pace, ognuno dei quali è una fortissima e commovente rappresentazione che restituisce in un solo dettaglio visivo tutta la fatica dei protago- nisti delle scene filmate: il mulo che affonda nella neve accasciandosi sotto il carico delle armi, i ragazzi soldati che arrancano sulla montagna trascinandosi un inutile cannone... Un piccolo acquerello delineato in pochi tratti riesce a trasmettere il freddo, la stanchezza, il non senso di quell’inutile marcia sull’Adamello durante la Prima Guerra Mon- diale. Passare dall’olio all’acquerello ha comportato per Angela Ricci Lucchi un grande sforzo: è stato – racconta lei stessa – come passare dalla terra all’acqua, un passaggio che non poteva realizzarsi senza la lezione del maestro Kokoschka e la sua esortazione alla leggerezza. Nell’acquerello tutto si gioca nell’immediatezza: «La freschezza o si salva o non si salva». Gli acquerelli di Angela riescono a cogliere nel particolare l’essenziale, quello che si dice «il sentimento dell’insieme, cosicché alla fine tutto sparisce e rimane il tono giusto, come quello finale che lascia sulle corde, per molte ore, una melodia dopo averla sentita17». E, infatti, ogni figura apparsa nell’acqua della pennellata è vitale, sem- bra guizzare e muoversi mentre si imprime per lungo tempo negli occhi dello spettatore. Negli acquerelli che si riferiscono all’operazione chirurgica alla testa di una donna, ad esempio, ripresa nel film Oh! Uomo, la mano dell’artista riesce a seguire la lezione espressionista sulla leggerezza e sulla vitalità, arrivando a far sanguinare sulla carta l’acquerello come se fosse carne. In queste immagini Angela traccia una sorta di diario, in cui però trasforma l’appunto di lavoro o l’annotazione minuziosa nella trascrizione simbolica della creazione artistica. In questo modo l’autrice riesce a far confluire qualcosa dell’infinito scorrere del tempo e della memoria nel finito della forma, entro i limiti di qualcosa di visibile. Gli scarni elementi di cui si compongono le sue figure riescono a trasmettere con immediatezza il movimento di una scena. Si può fare arte con poco o quasi niente. Il disegno, sappiamo, è perlopiù questo niente, dal quale, però, riesce a nascere qualcosa di vitale e di autentico senza dover ricorrere a tecnologie sofisticate. Angela sa bene che utilizzan- do questo mezzo deve arrivare a una semplificazione decisiva, lasciando emergere nel disegno solo una flebile traccia di un ben più lungo e profondo confronto con le cose. Il risultato, straordinario, è che ancora una volta una forma d’arte ci aiuta a ottenere coscienza della realtà. Un altro film A fianco della selezione degli acquerelli, in mostra all’Hangar è allestita un’opera sorprendente: un unico rotolo di carta lungo 15 metri e alto 80 centimetri, interamente segnato e ritmato dall’alto in basso da figurine che costituisco- no le cellule delle storie armene. Angela Ricci Lucchi ha illustrato con il suo linguaggio ad acquerello gli episodi di sedici antiche storie armene che Raphael Gianikian, padre di Yervant, le ha raccontato. Il formato davvero inusuale dell’opera – a metà fra tradizione della scrittura orientale e pittura miniata – restituisce con poesia e capacità evoca- tiva un mondo orale ormai quasi completamente scomparso. Angela comincia il lavoro al “lungo disegno” nel 1989 e lo termina il giorno di Pasqua del 1991. Quelle storie sono animate dal suono della viva voce di Raphael Gianikian che racconta le fiabe traducendole dall’armeno in italiano. Le immagini delle figurine disegnate da Angela si animano dentro il racconto sonoro del padre di Yervant e ritornano a vivere dentro quella tradizione orale che è parte integrante della cultura armena. Non si tratta, dunque, soltanto di note o appunti caotici o disordinati, ma di una complessa e precisa figurazione dise- gnata con tratto veloce e appuntito come se fossero parole. Angela trasporta in immagine quello che legge o sente rac- contare. E questa inusuale “trascrizione” muta i materiali sonori in materiali visivi con gli inevitabili effetti di sintesi, di manipolazione e comunque di trasformazione. Forse è interessante sottolineare come il formarsi delle immagini sul lungo disegno, quel loro procedere a nastro dall’alto al basso come se fossero anch’esse lettere di un alfabeto, quel loro organizzarsi per appunti episodici seguen- do, passo dopo passo, la fonte della narrazione, porti il disegno a mantenere il ritmo e l’improvvisazione insita nell’in- cedere del racconto orale. Il disegno diventa così l’impronta visiva della voce, simile al pentagramma di uno spartito antico su cui si appuntavano con i “neumi” le figurazioni dei ritmi e delle estensioni della voce. Lo scorrere sul lungo foglio dei minuscoli acquerelli tiene conto, ad esempio, di certe caratteristiche formule di apertura e chiusura tipiche della fiaba armena. Pensiamo al «C’era e non c’era» con cui iniziano molto spesso le fiabe armene – una vaghezza che s’incontra anche nel frequente «camminarono molto o poco» – o alla tipica chiosa finale in cui si proclama: «Dal cielo cadono tre mele: una per chi ha narrato questa storia, una per chi ha ascoltato e una per chi l’ha capita»; elementi che ritornano nel lungo disegno, dove a ogni chiusura di fiaba, come una punteggiatura, incontriamo tre piccole mele gialle. In fondo, anche per questo lungo acquerello si tratta di applicare il procedimento artigianale della camera analitica; non c’è molta differenza tra il “modo verticale” e per nuclei con cui Angela annota e quello con cui studia la sequenza dei fotogrammi su cui lavorano. «Osservando i film senza proiettore né moviola, ho perso il movimento che contrad- distingue il cinema […]. Ho analizzato i fotogrammi come lunghe serie ininterrotte di fotografie incollate su di un album, leggendo le didascalie come fossero pagine di un libro illustrato, la scrittura e l’immagine […]18». Le parole richiedono tempo per arrivare a produrre il loro effetto e così anche le immagini. Vedendo, uno dopo l’altro, i film di Yervant e Angela e intrecciandone la visione al lavoro straordinario degli acquerelli, mi è parso chiaro come quei fotogrammi abbiano la forza di tanti quadri, come in effetti siano “pittura”. Mi sembra, infatti, che al pari delle opere pittoriche anch’essi perseguano lo scopo di rendere durature delle immagini. In questo senso sembrano corri- spondere alle parole di Odisseas Elitis: «La pittura è pittura. Corregge piuttosto che rendere la realtà e non in dire- zione del temporaneo ma della durata, non del deperibile ma dell’incomprensibile». Forse il particolarissimo modo di raccontare di Angela e Yervant, ripetitivo, talvolta esasperante potrebbe colmare il deficit di un’immagine veloce, distante e poco veritiera dell’esistenza, per tornare a significare il nostro tempo. Ciò che è sicuro è che di fronte alle tormentate immagini di tutta la loro opera sento quanto sia difficile con le parole esprimere il dolore, e quanto invece sia grande il potere comunicativo delle immagini. Con le loro opere mi sono trovata come davanti alla grande pit- tura, di fronte alla quale si tratta solo di riuscire a vivere l’esperienza della contemplazione, ad “abitare” il silenzio: quest’ultimo è la condizione in cui far germinare le parole e il senso. Non è forse nel buio e nel silenzio della terra che il seme germoglia? Quest’opera è pubblicata sotto licenza Creative Commons – Attribuzione – Non Commerciale – Non opere derivate 3.0 (http://creativecommons.org/licenses/by- nc-nd/3.0/deed.it) ed è scaricabile dal sito www.hangarbicocca.org in formato pdf e ebook. 1. Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi in un’intervista inedita di Hans Ulrich Obrist. 2. O. Mandel’štam, Viaggio in Armenia, Adelphi, Milano, 2010, p. 164. 3. O. Mandel’štam, op. cit., p. 189. 4. Yervant Gianikian durante la presentazione alla Tate Modern di Londra nel novembre 2011. 5. S. Vitale, La seconda nascita, in O. Mandel’štam, op. cit., p. 189. 6. Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi in un’intervista inedita di Hans Ulrich Obrist. 7. Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi in un’intervista inedita di Hans Ulrich Obrist. 8. L’intera riflessione si può ricondurre a L. Vichi, La memoria fluttuante della materia. Questo articolo è parte integrante del seminario/rassegna cinematografica svoltosi all’interno del Corso di Filosofia della Storia del Professor Manlio Iofrida dell’Università degli Studi di Bologna nel 2010. 9. G. Bataille, Informe, in “Documents”, n. 7, 1929, p. 382; cito dalla ristampa anastatica della rivista, Éditions Jean-Michel Place, Paris, 1991, 2 voll. La nozione di informe trova la sua prima formulazione teorica attorno agli anni Trenta, quando Georges Bataille vi dedica una delle voci del Dizionario incluso nella rivista d’arte di cui è direttore, “Documents”. Bataille parte dall’impossibilità di definizione di un genere maschile femminile. In questa impossibilità vede l’ambiguità delle espressioni surrealiste e dei travestimenti, da Duchamp, a Dalí a Chaun. 10. R. Krauss, Celibi, Edizioni Codice, Torino, 2004, p. 8. 11. R. Krauss, op. cit., p. 76. 12. Questo discorso viene introdotto e analizzato da Rosalind Krauss (p. 78 e seguenti) nel suo libro Celibi. 13. D. Hibon, D. Païni, Del documentario fatto a mano, in P. Mereghetti, E. Nosei (a cura di), Cinema Anni Vita Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi, Il Castoro, Milano, 2000, p. 100. 14. O. Mandel’štam, op. cit., p. 63 15. Angela Ricci Lucchi in un’intervista inedita di Hans Ulrich Obrist. 16. Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi in un’intervista inedita di Hans Ulrich Obrist. 17. O. Elitis, La materia leggera, Donzelli, Roma, 2005, p. 140. 18. S. Toffetti (a cura di), Yervant Gianikian Angela Ricci Lucchi, Hopefulmonster, Firenze, 1992, p. 85. Scruta, interroga, graffia. Gianikian e Ricci Lucchi, esplorare senza arrendersi mai alla storia — Andrea Lissoni Preziosità, rigore, classificazione, sguardo analitico, ricerca coltissima e instancabile, storia, memoria, politica. Fra postura personale, atteggiamento, modalità di lavoro e ossessioni personali, questi sono i tratti di Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi. Dai primi anni Settanta sono attivi come artisti visivi, con un percorso prima individuale e poi di coppia. Gianikian e Ricci Lucchi hanno graffiato con potenza la storia fra cinema d’autore e arte degli ultimi quaranta anni. Anche se lavorano sugli stereotipi, ne sono anche inseguiti senza sosta: “Non ci sono materiali sul loro percorso”. Non è vero, sono di enorme qualità, ma dispersi fra le discipline del cinema e della storia (è uscita nel 2011 l’impor- tante monografia Entering the Frame dello storico Robert Lumley, presentata alla Tate Modern insieme ad una antolo- gica di film). “Sono invisibili”. Non è vero, hanno avuto retrospettive al MoMA, al Jeu de Paume, alla Cinémathèque Française, presentato film ai Festival di Cannes, Rotterdam, Venezia, Torino, esposto alla Biennale di Venezia, alla Fondation Cartier, al Witte de With, al Mart, al Moca di Chicago, fra gli altri. “Lavorano sugli archivi”. Non è vero, hanno esordito con performance di proiezioni e diffusione di odori e girano in piccoli formati, come l’8mm, il Super8, l’Hi8, come per Carrousel de Jeux (2005). Soprattutto, non sono cineasti sperimentali, anche se con stati molto vicini a maestri come Jonas Mekas o Kurt Kren. Gianikian e Ricci Lucchi lavorano sulle immagini molto da vicino, spesso a partire da archivi perduti e salvati: le osservano, le sezionano, le tagliano, le organizzano, le ri-filmano, le mani- polano e le moltiplicano in forma di sequenze. Guardano agli esclusi e ai gesti che li riguardano, che siano anonimi, popoli sottomessi (Armeni, Rom, popolazioni indigene colonizzate) o bambini. Ma questo non spiega ancora l’emo- zione devastante davanti ai loro film o alle installazioni. Svegliano la nostra memoria con film costruiti in termini mnemonici, suonando con il tempo e affondandolo nel colore. Scrutano nei dettagli, nei gesti, sapendo che è lì che si annida l’orrore, lo stereotipo, il germe ma anche la cristallizzazione dell’immaginario. L’esplosivo lavoro di Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi impone incessantemente domande nelle proprie sequenze, anche se conosce gran parte delle risposte. È splendente, personale, unico, e, soprattutto, dannatamente politico. Andrea Lissoni: C’è una definizione che vi rappresenta o in cui vi ritrovate? Angela Ricci Lucchi e Yervant Gianikian: Non siamo archeologi, antropologi o entomologi, come spesso veniamo definiti. Per noi non esiste il passato, non esiste la nostalgia, ma esiste il presente. Far dialogare il passato con il pre- sente. Non usiamo l’archivio per se stesso, usiamo il già fatto, con un gesto alla Duchamp, per parlare di noi, di oggi, dell’orrore che ci circonda. L’artista e il proprio lavoro per parlare della violenza che ci sta coinvolgendo ad Oriente come ad Occidente. Fin dall’inizio, il nostro lavoro è contro la violenza, sull’ambiente, sugli animali, sull’uomo con- tro l’uomo. In Dal Polo all’Equatore la prima apparizione dell’uomo nel deserto bianco è con il fucile e il suo primo gesto è uccidere un orso. Insomma, non usiamo l’archivio in modo antiquariale, ma come un oggetto del presente, sempre. Questo in ogni opera, installazioni comprese, fin dalla prima, Visions du désert – per l’omonima collettiva del 2000 alla Fondation Cartier – che mostra il viaggio intrapreso da una donna in Algeria nel 1931. Il ‘31 è l’anno del centenario della colonizzazione francese del Paese. E siamo in grado di datare precisamente l’anno, non c’è opera in cui non cerchiamo dati storici e tutte le fonti possibili per contestualizzare e leggere i materiali su cui lavoriamo. Quella è stata la nostra prima installazione, a loop continuo. AL: Quali sono le origini del vostro percorso e le sue relazioni con l’arte contemporanea? ARL-YG: Abbiamo entrambi iniziato come artisti visivi. Io ho tenuto la mia prima mostra a Palazzo dei Diamanti a Ferrara, poi ho esposto a Bologna. Venivo da una formazione legata al disegno, mi sono, per così dire, perfezionata sull’acquerello in Austria, mentre Yervant lavorava realizzando scatole e aveva esposto alla Galleria del Cavallino a Venezia nel 1972. Quando ci siamo incontrati, cercavamo entrambi qualcosa di diverso, probabilmente delle immagi- ni in movimento. Yervant faceva già dei film. AL: Che tipo di film? ARL-YG: In 8mm. Uno per esempio su Ezra Pound che camminava alle Zattere a Venezia, al tramonto. Era l’epoca in cui non parlava.
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