"ma coem IE ο. οἱλοςιοι ο. τ. Ε.Τ. CLASSICI GRECI COLLEZIONE DIRETTA DA ITALO LANA CLASSICI UTET free RES INE σὺ 8 VITE di Plutarco Volume secondo Pericle e Fabio Massimo Nicia e Crasso Alcibiade e Gato Marcio Demostene e Cicerone A CURA DI DOMENICO MAGNINO ω σ σ νὃ ς ο λ Ό A L L E R A A Z L E UNIONE TIPOGRAFICO-EDITRICE TORINESE R V Ὀ) T ERES A GERE(4 Ω Ἡ © 1992 Unione Tipografico-Editrice Torinese corso Raffaello, 28 - 10125 Torino Fotocomposizione: PGS - Torino Stampa: Tipografia Torinese, S.p.A. - Torino ISBN 88-02-04602-6 ΠΕΡΙΚΛΗΣ PERICLE Figlio di Santippo, lo stratego che nel 479 aveva guidato le truppe ateniesi alla vittoria di Micale, e di Agariste, nipote di Clistene, della famiglia degli Alcmeonidi, membro quindi della migliore aristocrazia attica, Pericle contrassegnò della sua personalità l'epoca più gloriosa della storia di Atene, che definiamo classica per eccellenza e che appunto da lui si denomina «età di Pericle». Nato verso il 495, entrò nella vita politica poco più che trentenne, schierandosi dalla parte democratica, e cooperando attivamente con il capo di quel partito, Efialte, la cui lotta vittoriosa contro l’Areopago, espressione del potere aristocratico, aprì larghi spazi all’azione del demos; divenuto capo dei democratici dopo la scomparsa di Efialte, dal 460 circa fino alla morte rimase l’uomo più influente di Atene, riuscendo eletto per una trentina d’anni quasi consecutivi alla carica di stratego, e quasi sempre nella posizione di Presidente del consesso degli strateghi; in tutto quel periodo praticamente egli esplicò le funzioni di capo del governo della repubblica ateniese. I mutamenti istituzionali promossi da Efialte e volti a trasferire i poteri politici e giudiziari dal Consiglio dell’Areopago, baluardo del conservatorismo, al Consiglio popolare dei Cinquecento e all’assem- blea del popolo, furono realizzati da Pericle anche con la introdu- zione della paga di due oboli ai membri del tribunale della Eliea, che consentì ai non abbienti di esercitare di fatto la funzione di giudici, e con la concessione di una indennità diaria a quanti esercitavano una funzione magistratuale: arconti, buleuti, pritani. Così il potere non rimaneva più nelle mani delle sole classi ricche e aristocratiche, ma si apriva a fasce più larghe di cittadini, e si realizzava quella forma di conduzione politica veramente democratica che pur avendo in sé i germi della dissoluzione, come fu chiaro di lì a poco, è rimasta comunque come esempio unico, e forse irripetibile, nella storia dei sistemi politici. IO PERICLE L'azione di Pericle non rimase limitata al solo ambito di politica interna: profonde furono le innovazioni che egli introdusse anche nella politica estera, ove la sua visione comportava vistosi elementi di novità se rapportata alla precedente. Pur continuando, come è ovvio, a perseguire l'egemonia ateniese in Grecia, contemporaneamente Pericle mise in atto una politica espansionistica nell'area mediterranea dalla quale si riprometteva, oltre all'incremento di potere politico, l'accrescimento della potenza economica e commerciale della città. Chiara era l'impostazione imperialista, ed evidenti i rischi del combattere su due fronti: ai primi successi di prestigio seguì una serie di rovesci, sino a quando, nel 454, il fallimento della spedizione inviata in soccorso agli Egizi, che si erano ribellati al Gran Re, praticamente segnò la fine di questa politica di espansione territoriale. L’insuccesso comportò di neces- sità un mutamento di rotta anche nei rapporti con i Persiani, con i quali persisteva uno stato di reciproca diffidenza, oltre a una serie di questioni rimaste aperte dopo le battaglie di Platea e Micale. Pericle aprì trattative che portarono a quella che fu detta la pace di Callia (449) con la quale si archiviarono i risultati delle guerre persiane e in pari tempo si dichiarò improponibile ogni espansione greca in Oriente. Più di cent'anni dopo Alessandro Magno riproporrà questo disegno in una situazione obiettivamente diversa e con ben altri risultati. Neppure la politica volta al conseguimento dell’egemonia in Grecia portò ai successi sperati; non che estendere la sua influenza nel Peloponneso, saldamente tenuto da Sparta, Atene, dopo la sconfitta patita a Coronea nel 447, nel corso della cosiddetta seconda guerra sacra, dovette, con la susseguente pace, rinunciare a qualsiasi possedimento o alleanza che la vincolasse al Peloponneso. In una situazione che in così breve volgere d'anni si era radicalmente trasformata, Pericle diede prova di quel buon senso politico che è innanzi tutto adattamento alla realtà, e operò con ogni sforzo per ricavare il maggior vantaggio possibile per la città. Le azioni più significative, condotte senza far ricorso alle armi, ma che garantirono ad Atene l'acquisizione di prestigio e potere quale mai la città aveva avuto (si parla di «imperialismo pacifico»), sono la deduzione di colonie in paesi alleati (e questo tra l’altro concorse alla INTRODUZIONE II soluzione di problemi sociali interni) e l'abbellimento della città con una splendida serie di monumenti che fecero di Atene la più bella città dell'Occidente. Per questa dispendiosissima operazione, pur tra le insistenti critiche avanzate da Tucidide di Melesia, capo dell’oppo- sizione (Pericle riuscì poi ad allontanarlo dalla città ricorrendo alla procedura dell'ostracismo), egli utilizzò i contributi che gli alleati versavano in un fondo comune amministrato da Atene, sostenendo la piena legittimità di questo uso, in quanto, a contropartita, Atene garantiva loro indipendenza e sicurezza. Dall'ostracismo di Tucidide sino alla morte (429) Pericle fu incontrastato signore di Atene e resse la città con tale equilibrio in campo politico e tale avvedutezza in campo finanziario che mai, nella sua storia, essa godette di pari prosperità. Sul piano personale le varie vicissitudini che gli toccò di affrontare, le contrapposizioni che naturalmente suscitò, anche se lo amareggiarono profondamente, non furono però tali da togliergli il potere, anche perché, in definitiva, gli Ateniesi riconoscevano in lui l'uomo di qualità superiore, insostituibile nel governo della città. Dello scontro con Sparta e dell'inevitabile guerra del Peloponneso che alla fine risultò fatale per Atene, non è possibile attribuire la responsabilità al solo Pericle, anche se ci furono indubbiamente delle sue responsabilità; certo è che tutta la strategia con la quale fu condotta la guerra fu da lui escogitata, e che egli ne rimase arbitro sino alla morte che lo colse probabilmente nella primavera del 429, sei mesi dopo aver contratto la peste. Ci sono alcuni punti, nel bios di Pericle, che lasciano al lettore il sospetto che l'opera non sia stata scritta secondo uno schema rigidamente prefissato, ma che si sia lasciato deliberatamente spazio all’estemporaneità; si sarebbe indotti a dire che Plutarco scriva, o voglia dare l'impressione di scrivere «currenti calamo». Esaminia- moli da vicino. — Alla fine del cap. 6, l’autore apre una digressione su fatti che sembrano non rientrare nell'ordine naturale e che non sono spiegati in modo univoco dai cultori di scienze naturali; ma subito si interrompe affermando che discutere problemi di quel genere meglio si addice a opere di carattere diverso (6,5). — Alla fine del cap. 13 (13,15-16) Plutarco ricorda alcune accuse 12 PERICLE mosse a Pericle dagli scrittori di commedie, rilevandone la fatuità c inconsistenza, oltre che, in certi casi, l'assurdità e la bassezza. E aggiunge una riflessione sconsolata, la cui validità non è purtroppo limitata al campo ristretto della sua biografia, ma riguarda ogni opera storica: egli nota con rammarico quanto è difficile, per chi vive in un tempo molto posteriore a quello nel quale si collocano i fatti che racconta, arrivare a certezze, quando anche coloro che furono spettatori dei fatti detorcono la verità degli accadimenti ora cedendo all'adulazione, ora assecondando l'invidia, ora compiacendo la propria cattiva disposizione d’animo. — Alla fine del cap. 24 (24,12), allorché il procedere della narrazione lo porta a parlare di Aspasia, Plutarco inserisce una serie di notizie generiche che gli vengono a mente in quell’occasione, e che non ritiene di dover omettere anche se piuttosto tenue è il filo che le lega con il tema centrale della narrazione. Questi passi lasciano intendere che il modo del comporre di Plutarco non è vincolato a rigide selezioni di materiale, scelto il quale neppure l'autore può più intervenire; siamo ben lontani dal comportamento di un biografo moderno che predispone tutto il materiale e poi non cede alle tentazioni di estemporaneità o al suggerimento casuale che la memoria può dargli; Plutarco procede con ampia libertà, e perciò coglie gli spunti che gli vengono suggeriti dal momento e, soprattutto, dalla memoria. In sostanza egli è un narratore che vuol dare anche l'impressione di improvvisare. Se questo è vero, ne discende che neppure si può pensare che il nostro autore abbia controllato con cura, per la stesura delle sue biografie, e in particolare per la biografia periclea, tutte le fonti che cita, che sono, come vedremo, numerosissime, e di vario genere. Del resto la presenza di Pericle nella società ateniese era stata di tale rilevanza che inevitabilmente i letterati contemporanei ne avevano sottolineato la centralità, e non soltanto gli storici, che di solito, almeno verbalmente, si propongono di determinare con obiettività l'apporto dell’uomo politico alla vita della città, ma anche coloro le cui opere non si propongono fini altrettanto ambiziosi, come sono gli scrittori di commedie, i quali neppur lontanamente intendono esprimere un giudizio «definitivo» sull'uomo, ma cercano soltanto di colpire i lati più criticabili del personaggio, per il gusto di una