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Una realtà separata PDF

127 Pages·2016·1.44 MB·Italian
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UNA REALTÀ SEPARATA , Nuove conversazioni con Don Juan, Carlos Castaneda INDICE Introduzione. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2 PRIMA PARTE I PRELIMINARI DI "VEDERE" Capitolo I. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 8 Capitolo II. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 9 Capitolo III. . . . .. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .. . . . . . . . . . . . 17 Capitolo IV. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .. . . . . . . . . . 22 Capitolo V. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .. . . . . . . . . .. . . . . . . . . . . . . 29 Capitolo Vidi. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .. . . . . . . . . . 34 SECONDA PARTE IL COMPITO DI "VEDERE" Capitolo VII. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 40 Capitolo VIII. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 46 Capitolo IX. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .. . . . . . .. . . . . . 48 Capitolo X. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 52 Capitolo XI. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .. . . . . . . . . . . . . . 56 Capitolo XII. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 62 Capitolo XIII. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .. . . . . . . . . . . . . 66 Capitolo XIV. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .. . . . . . . . . . . . . 73 Capitolo XV. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 80 Capitolo XVI. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .. . . . . . . . . . . . . 83 Capitolo XVII. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .. . . . . . . . . . . . . . 89 Epilogo. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 98 INTRODUZIONE Dieci anni fa ebbi la fortuna di conoscere Don Juan Matus, un indio yaqui del nordovest del Messico. Intavolai amicizia con lui sotto circostanze in estremo fortuite. Io ero seduto con Bill, un mio amico, nella terminale di autobus di un paese confinante in Arizona. Stavamo in silenzio. Imbruniva ed il caldo dell'estate era insopportabile. All'improvviso, Bill si inclinò e mi toccò la spalla. - Lì sta l'individuo del quale ti parlai- disse a voce bassa. Inclinò casualmente la testa segnalando verso l'entrata. Un anziano era appena arrivato. - Che cosa mi dicesti di lui?- domandai. - È l'indio che sa del peyote, ti ricordi? Ricordai che una volta Bill ed io avevamo camminato in automobile tutto il giorno, cercando la casa di un indio messicano molto "eccentrico" che viveva nella zona. Non la troviamo, ed io ebbi il sospetto che gli indi a chi chiediamo direzioni c'avevano disorientati a proposito. Bill mi disse che l'uomo era un "yerbero" e che sapeva molte cose sul cactus allucinogeno peyote. Disse anche che mi sarebbe utile conoscerlo. Bill era la mia guida nel sudovest degli Stati Uniti, dove io continuavo riunendo informazioni ed esperienze di piante medicinali usate per gli indi della zona. Bill si alzò ed andò a salutare l'uomo. L'indio era di statura media. Il suo capello bianco e taglio lo copriva un po' le orecchie, accentuando la rotondità del cranio. Era molto bruno: le profonde rughe nel suo viso gli davano apparenza da vecchia, ma il suo corpo sembrava forte ed agile. L'osservai un momento. Si muoveva con una facilità che io avrei creduto impossibile per un anziano. Bill mi fece segno di avvicinarmi. - È un buon tipo -mi disse -. Ma non lo capisco. Il suo spagnolo è raro; deve essere pieno di colloquialismi rurali. L'anziano guardò a Bill e sorrise. E Bill che appena parla alcune parole di spagnole, armò una frase assurda in quella lingua. Mi guardò come domandando se si faceva capire, ma io ignoravo quello che aveva in mente; sorrise con timidezza e si allontanò. L'anziano mi guardò ed incominciò a ridere. Gli spiegai che il mio amico dimenticava a volte che non sapeva spagnolo. - Credo che dimenticasse anche presentarci- aggiunsi, e gli dissi il mio nome. - Ed io sono Juan Matus, per servirlo -rispose. Ci demmo la mano e rimaniamo un momento da parlare. Ruppiil silenzio e gli parlai della mia impresa. Gli dissi che cercava qualunque tipo di informazione su piante, specialmente sul peyote. Parlai compulsivamente per un buon tempo, e benché la mia ignoranza del tema fosse quasi totale, gli feci capire che sapeva molto circa il peyote. Pensai che se si dava arie dalla mia conoscenza l'anziano si interesserebbe a conversare con me. Ma non disse niente. Ascoltò con pazienza. Quindi assentì lentamente e mi scrutinò. I suoi occhi sembravano brillare con luce propria. Schivai il suo sguardo. Mi sentii addolorato. Ebbi in quello momento la certezza che egli sapeva che io stavo dicendo sciocchezze. - Lei venga un giorno a casa mia -disse finalmente, allontanando gli occhi da me -. Forse lì possiamo conversare più a gusto. Non seppi che più dire. Mi sentivo scomodo. Dietro un momento, Bill girò ad entrare nel recinto. Notò il mio prurito e non pronunciò una sola parola. Fummo un momento seduti in profondo silenzio. Quindi l'anziano si alzò. Il suo autobus era arrivato. Disse addio. - Non ti fu molto bene, verità?- domandò Bill. - No. - Gli domandasti delle piante? - Sé. Ma credo che mettessi la zampa. - Ti dissi, è molto eccentrico. Gli indi di qui lo conoscono, ma non lo menzionano mai. E quello è per qualcosa. - Ma disse che io potevo andare a casa sua. - Stava prendendoti i capelli. Sicuro, puoi andare a casa sua, ma quello che cosa. Non ti dirà mai niente. Se arrivi a domandargli qualcosa, ti tratterà come se fossi un idiota dicendo sciocchezze. Bill disse convincentemente che aveva conosciuto già così gente, persone che davano l'impressione di sapere molto. Nella sua opinione tali persone non valevano la pena, perché presto o tardi poteva ottenersi la stessa informazione di qualcuno che non si facesse il difficile. Disse che egli non aveva pazienza né tempo che spendere con vecchi comici, e che l'anziano dimostrava possibilmente solo essere conoscitore di erbe, mentre in realtà sapeva tanto poco come chiunque. Bill continuò a parlare, ma io non ascoltavo. La mia mente continuava fissa nell'indio. Egli sapeva che io stavo ostentando. Ricordai i suoi occhi. Avevano brillato, letteralmente. Ritornai a vederlo più tardi alcuni mesi, non tanto quanto studente di antropologia interessato in piante medicinali, bensì come posesodi una curiosità inspiegabile. La forma in cui mi ero guardato fu un evento senza precedenti nella mia vita. Io volevo sapere che cosa implicava quello sguardo. Mi fu girato quasi un'ossessione, e quanto più pensava a lei più insolita sembrava. Don Juan ed io ci facemmo amici, e durante un anno gli feci innumerabili visite. Il suo atteggiamento mi davo molta fiducia ed il suo senso dell'umorismo mi somigliavo eccellente; ma soprattutto sentiva nei suoi atti una consistenza silenziosa, completamente sconcertante per me. Sperimentava nella sua presenza un raro diletto, e contemporaneamente un prurito strano. La sua sola compagnia mi costringevo ad effettuare una tremenda rivalutazione dei miei modelli di condotta. Mi avevano educato, chissà come a tutto il mondo, per avere la disposizione di accettare l'uomo come una creatura essenzialmente debole e fallibile. Quello che mi impressionavo di Don Juan era il fatto che non sottolineava l'essere debole ed indifeso, e l'assolo stare vicino a lui assicurava un paragone sfavorevole tra la sua forma di comportarsi e la mia. Per caso una delle asseverazioni più impressionanti che lo sentii in quell'epoca si riferiva alla nostra differenza inerente. In precedenza ad una delle mie visite, stava sentendomi molto sfortunato a causa del corso totale della mia vita e di un certo numero di conflitti personali urgenti. Arrivando a casa sua mi sentivo malinconico e nervoso. Parlavamo del mio interesse nella sua conoscenza, ma, come di abitudine, andavamo per sentieri distinti. Io mi riferivo alla conoscenza accademica che trascende l'esperienza, mentre egli parlava della conoscenza diretta del mondo. - A poco credi che conosca il mondo che si circonda?-domandò. - Conosco di tutto-dissi. - Voglio dire, senti il mondo che si circonda? - Sento il mondo che mi circonda tanto quanto posso. - Quello non basta. Devi sentirlo tutto; altrimenti il mondo perde il suo senso. Formulai il classico argomento che non era necessario provare la zuppa per conoscere la ricetta, né ricevere un scontro elettrico per sapere dell'elettricità. - Trasformasti già tutto in una stupidità -disse -. Vedo già che vuoi afferrarti delle tue ragioni malgrado non ti dìano niente; vuoi continuare ad essere ancora lo stesso a costo del tuo benessere. - Non so di che cosa lei parli. - Parlo del fatto che non sei completo. Non hai pace. L'asserzione mi disturbò. Mi sentii offeso. Pensai che Don Juan non era qualificato in modo alcuno per giudicare i miei atti né la mia personalità. - Sei pieno di problemi- disse -. Perché? - Sono solo un uomo, Don Juan-riposi di malumore. Feci l'affermazione nella stessa vena in che mio padre normalmente la faceva. Ogni volta che diceva essere solo un uomo, implicava che era debole ed indifeso e la sua frase, come quella mia, traboccava un essenziale senso di disperazione. Don Juan mi scrutinò come il giorno in cui ci conoscemmo. - Pensi troppo a te stesso -disse sorridendo-. E quello si dà una fatica strana che ti fa chiuderti al mondo che si circonda ed afferrarti delle tue ragioni. Per quel motivo hai solamente problemi. Anche io sono solo un uomo, ma non lo dico come tu lo dici. - Come lo dice lei? - Io sono uscito da tutti i miei problemi. Che pena che la mia vita sia tanto breve e non permettere di afferrarmi di tutte le cose che volesse. Ma quello non è problema, né punto di discussione; è solo una pena. Mi piacque il tono delle sue frasi. Non c'era in lui disperazione né compassione per sé stesso. In 1961, un anno dopo nostro primo incontro, Don Juan mi rivelò che possedeva una conoscenza segreta delle piante medicinali. Mi disse che era stregone. Da quello punto, cambiò la relazione tra noi; mi trasformai nel suo apprendista e durante i quattro anni seguenti lottò per insegnarmi i misteri della stregoneria. Ho scritto su quell'apprendistato in Gli insegnamenti di Don Juan: una forma yaqui di conoscenza. Le nostre conversazioni furono tutte in spagnolo, e grazie al magnifico dominio che Don Juan possedeva della lingua ottenni spiegazioni dettagliate dei complessi significati del suo sistema di credenze. Ho chiamato stregoneria quell'intricata e sistematica struttura di conoscenza, e stregone a Don Juan, perché egli stesso usava tali categorie nella conversazione informale. Tuttavia, nel contesto di elucidaciones più seri, usava la termini "conoscenza" per categorizzare la stregoneria e "uomo di conoscenza" o "quello che sa" per categorizzare lo stregone. Col fine di insegnare e corroborare la sua conoscenza, Don Juan usava tre conosciute piante psicotro0pe: peyote, Lophophora williamsii; toloache, Datura inoxia, ed un fungo appartenente al genere Psylocibe. Attraverso l'ingestione a parte di ognuno di questi allucinogeni produsse in me, il suo apprendista, alcuni stati peculiari di percezione distorta, o coscienza distorta, che ho chiamato "stati di realtà non ordinaria." Ho usato la parola "realtà" perché una premessa principale nel sistema di credenze di Don Juan era che gli stati di coscienza prodotti per l'ingestione di chiunque delle tre piante non erano allucinazioni, bensì aspetti concreti, benché non comuni, della realtà della vita quotidiana. Don Juan non si comportava verso tali stati di realtà non ordinaria "come" se fossero reali; li prendeva "come" reali. Classificare come allucinogeni le piante citate, e come realtà non ordinaria gli stati che producevano, è, naturalmente, un mia risorsa. Don Juan capiva e spiegava le piante come veicoli che conducevano o guidavano un uomo a certe forze o "poteri" impersonali; e gli stati che producevano, come i "incontri" che un stregone doveva avere con quelli "poteri" per guadagnare controllo su essi. Richiamava al peyote "Mescalito" e lo descriveva come maestro benevolente e protettivo degli uomini. Mescalito insegnava la "forma" corretta di vivere. Il peyote normalmente si ingeriva in riunioni di stregoni chiamato "mitotes", dove i partecipanti si univano specificamente per cercare una lezione sulla forma corretta di vivere. Don Juan considerava il toloache, ed ai funghi, poteri di distinta tipo. Li chiamava "alleati" e diceva che erano suscettibili alla manipolazione; in realtà, un stregone otteneva la sua forza manipolando un alleato. Dei due, Don Juan preferiva il fungo. Affermava che il potere contenuto nel fungo era suo alleato personale, e lo chiamava "fumo" o "fumo." Il procedimento di Don Juan per utilizzare i funghi era lasciarloro asciugare dentro un piccolo guaje, dove si polverizzavano. Manteneva chiuso il guaje per un anno, e dopo mescolava la fine polvere con altre cinque piante secche e produceva un miscuglio per fumare in da sballo. Per trasformarsi in uomo di conoscenza bisognava "trovarsi" con l'alleato tante volte come fosse possibile; bisognava familiarizzare con lui. Questa premessa implicava, naturalmente, che uno doveva fumare abbastanza spesso il miscuglio allucinogeno. Questo processo di "fumare" consisteva in ingerire la tenue polvere di funghi che non si cremava, ed in inalare il fumo delle altre cinque piante che componevano il miscuglio. Don Juan spiegava i profondi effetti del fumo sulle capacità di percezione dicendo che "l'alleato si portava il corpo di uno." Il metodo didattico di Don Juan richiedeva un sforzo straordinario da parte dell'apprendista. In realtà, il grado di partecipazione e compromesso necessario era tanto estenuante che alla fine di 1965dovetti abbandonare l'apprendistato. Posso dire ora, con la prospettiva dei cinque anni trascorsi che in quello tempo gli insegnamenti di Don Juan avevano incominciato a rappresentare una seria minaccia per la mia "idea" del mondo. Io incominciavo a perdere la certezza, comune a tutti noi, che la realtà della vita quotidiana è qualcosa che possiamo dare per seduto. Nell'epoca della mia ritirata, mi trovavo convinto che la mia decisione era terminante; non voleva tornare a vedere Don Juan. Tuttavia, in aprile di 1968 mi facilitarono uno dei primi esemplari del mio libro e mi sentii costretto ad abituarsilo. Andai a visitarlo. La nostra lega di maestro- apprendista si ristabilì misteriosamente, e posso dire che in quell'occasione iniziai un secondo ciclo di apprendistato, molto distinto del primo. La mia paura non fu tanto acuto come l'era stato nel passato. L'ambiente totale degli insegnamenti di Don Juan fu più rilassato. Rideva e mi facevo anche ridere molto. Sembrava avere, per la sua parte, un tentativo deliberato di minimizzare la serietà in generale. Payaseó durante i momenti davvero cruciali di questo secondo ciclo, e così mi aiutò a superare esperienze che facilmente avrebbero potuto diventare ossessive. La sua premessa era la necessità di una disposizione leggera e trattabile per sopportare l'impatto e la stranezza della conoscenza che si stava abituando. - La ragione per la quale ti spaventasti ed uscisti volato è perché ti senti più importante di quello che credi-disse, spiegando la mia ritirata previa -. Sentirsi importante lo fa ad uno pesante, rude e vanitoso. Per essere uomo di conoscenza si deve essere leggero e fluido. L'interesse particolare di Don Juan nel secondo ciclo di apprendistato fu insegnarmi a "vedere." Apparentemente, c'era nel suo sistema di conoscenza la possibilità di segnare una differenza semantica tra "vedere" e "guardare" come due modi distinti di percepire. "Guardare" si riferiva alla maniera ordinaria in cui siamo abituati a percepire il mondo, mentre "vedere" includeva un processo molto complesso per virtù del quale un uomo di conoscenza percepisce suppostamente la "essenza" delle cose del mondo. Col fine di presentare in forma leggibile le complicazioni del processo di apprendistato ho condensato lunghi passaggi di domande e risposte, riducendo così le mie note di campo originali. Credo, tuttavia, che in questo punto la mia presentazione non può, in assoluto, svisare il significato degli insegnamenti di Don Juan. La riduzione ebbe il proposito di fare fluire le mie note, come fluisce la conversazione, affinché avessero l'impatto desiderato; cioè, io volevo comunicare al lettore, per mezzo di un reportage, il dramma e l'immediatezza della situazione di campo. Ogni sezione che ho messo come capitolo fu una sessione con Don Juan. Per regola generale, egli finiva sempre ognuna delle nostre sessioni in una nota ripida; così, il tono drammatico del fine di ogni capitolo non è una risorsa letteraria del mio raccolto: era una risorsa propria della tradizione orale di Don Juan. Sembrava essere una risorsa mnemonica che mi aiutavo a mantenere la qualità drammatica e l'importanza delle lezioni. Ciononostante, sono necessarie certe spiegazioni per dare coerenza al mio reportage, perché la sua lucidità dipende dalla delucidazione di certi concetti chiave o unità chiave che desidero emergere. Questa elezione di enfasi è congruente col mio interesse nella scienza sociale. È perfettamente possibile che un'altra persona, con un insieme differente di mete ed anticipazioni, risaltasse concetti interamente distinti dei quali io ho scelto. Durante il secondo ciclo di apprendistato, Don Juan insistè nel assicurarmi che l'uso del miscuglio di fumare era il requisito indispensabile da "vedere." Pertanto, io dovevo usarla con tutta la frequenza possibile. - Solo il fumo può darsi la velocità necessaria per scorgere quello mondo fugace -disse. Con l'aiuto della miscuglio psicotropo, produsse in me una serie di stati di realtà non ordinaria. La caratteristica saliente di tali stati, in relazione a quello che Don Juan sembrava stare facendo, era una condizione di "inapplicabilità." Quello che io percepivo in quelli stati di coscienza distorta era incomprensibile ed impossibile da interpretare per mezzo della nostra forma quotidiana di capire il mondo. In altre parole, la condizione di inapplicabilità trasportava la cessazione della pertinenza della mia visione del mondo. Don Juan usò questa condizione inapplicabilità degli stati di realtà non ordinaria per introdurre una serie di nuove "unità di significato" prestabilite. Le unità di significato erano tutti gli elementi individuali pertinenti alla conoscenza che Don Juan si impegnava ad insegnarmi. Li ho chiamate unità di significato perché erano il conglomerato basilare di dati sensoriali, e le sue interpretazioni, sul quale si erigeva un significato più complesso. Una di tali unità era, per esempio, la forma di cui si intendeva l'effetto fisiologico della miscuglio psicotropo. Questa produceva un intorpidimento ed una perdita di controllo motrice che nel sistema di Don Juan si interpretavano come un'azione realizzata per il fumo che era l'alleato in questo caso, col fine di "portarsi il corpo dell'apprendista." Le unità di significato si raggruppavano in forma specifica, ed ogni blocchi così creato integrava quello che chiamo una "interpretazione sensibile." Ovviamente, deve c'essere un numero infinito di possibili interpretazioni sensibili che sono pertinenti alla stregoneria e che un stregone deve imparare a realizzare. Nella nostra vita quotidiana, affrontiamo un numero infinito di interpretazioni sensibili pertinenti a lei. Un esempio semplice potrebbe essere l'interpretazione, oramai non deliberata che facciamo ventesimo di volte ogni giorno, della struttura che chiamiamo "stanza." È ovvio che abbiamo imparato ad interpretare in termini di stanza la struttura che chiamiamo stanza; così, stanza è un'interpretazione sensibile perché richiede che nel momento di farla abbiamo conoscenza, in un o un'altra forma, di tutti gli elementi che entrano nella sua composizione. Un sistema di interpretazione sensibile è, in altre parole, il processo per virtù del quale un apprendista ha conoscenza di tutte le unità di significato necessarie per realizzare assunzioni, deduzioni, predizioni, etc., su tutte le situazioni pertinenti alla sua attività. Dicendo "apprendista" mi riferisco ad un partecipante che possiede una conoscenza adeguata di tutte, o quasi tutte, le unità di significato implicate nel suo sistema particolare di interpretazione sensibile. Don Juan era un apprendista; questo è, era un stregone che conosceva tutti i passi della sua stregoneria. Come apprendista, cercava di aprirmi accesso al suo sistema di interpretazione sensibile. Tale accessibilità, in questo caso, equivaleva ad un processo di risocializzazione nel quale imparavano nuove maniere di interpretare dati perceptuali. Io ero il "estraneo", quello che non aveva la capacità di realizzare interpretazioni intelligenti e congruenti delle unità di significato proprie della stregoneria. Il compito di Don Juan, come apprendista occupato in diventare accessibile il suo sistema, consisteva in scomporre una certezza particolare che io condivido con tutto il mondo: la certezza che la prospettiva "di buonsenso" che abbiamo del mondo è definitiva. Attraverso l'uso dipiante psicotrope, e di contatti ben diretti tra il suo sistema strano e la mia persona, riuscì a mostrarmi che la mia prospettiva del mondo non può essere definitiva perché è solo un'interpretazione. Per l'indio americano, per caso durante migliaia di anni, lo sfaccendato magnifico che chiamiamo stregoneria è stato una pratica, seria ed autentica, paragonabile a quella della nostra scienza. La nostra difficoltà per comprenderla sorge, senza dubbio, delle unità di significato rimpiangi con le quali tratta. Don Juan mi disse una volta che un uomo di conoscenza ha predilezioni. Gli chiesi spiegare questo enunciato. - La mia predilezione è vedere -disse. - Che cosa vuole lei dire con quello? - Mi piace vedere -disse -perché solo vedendo può un uomo di conoscenza sapere. - Che tipo di cose lei veda. - Tutto. - Ma anche io vedo tutto e non sono un uomo di conoscenza. - No. Tu non vedi. - Ovviamente che sì, - Ti dico che no. - Perché dice lei quello, Don Juan? - Solamente tu guardi la superficie delle cose. - Vuole lei dire che ogni uomo di conoscenza vede attraverso quello che guarda? - No. Quello non è quello che voglio dire. Dissi che un uomo di conoscenza ha le sue proprie predilezioni; la mia è semplicemente vedere e sapere; altri fanno altre cose. - Che cosa altre cose, per esempio? - Lì hai a Sacateca: è un uomo di conoscenza e la sua predilezione è ballare. Cosicché egli balla e sa. - È la predilezione di un uomo di conoscenza qualcosa che egli fa per sapere? - Sì, perché. - Ma come marcirebbe il ballo aiutare a Sacateca a sapere? - Potremmo dire che Sacateca balla con tutto quello che ha. - Balla come io ballo? Dico, come si balla? - Diciamo che balla come io vedo e non mangio tu balli. - Vedi anche come lei vede? - Sì, ma balla anche. - Come balla Sacateca? - È difficile spiegare quello. È un ballo molto speciale che usa quando vuole sapere. Ma la cosa unica che posso dirti è che, a meno che capisca i modi dei quali sa, è impossibile parlare di ballare o di vedere. - L'ha visto lei ballare? - Sé. Ma nonchiunque guarda il suo ballo può vedere che quella è la sua forma speciale di sapere. Io conoscevo a Sacateca, o almeno sapeva chi era. C'avevano presentato ed una volta l'invitai una birra. Si comportò con molta cortesia e mi disse che fosse a casa sua con intera libertà in qualunque momento che volesse. Pensai lungo tempo di visitarlo, ma non lo dissi a Don Juan. Il pomeriggio del 14 di maggio di 1962, andai a casa di Sacateca; mi ero dato istruzioni per arrivare e non ebbi difficoltà in trovarla. Stava in un angolo ed aveva un recinto intorno. L'inferriata era chiusa. Feci il giro per vedere se poteva osservare l'interno della casa. Sembrava deserta. - Don Elías - chiamai a voce alta. Le galline spaventate, si divertirono per il patio chiocciando con furia. Un cagnolino si arrivò al recinto. Sperai che mi abbaiasse; invece di ciò, si sedette a guardarmi. Gridai di nuovo e le galline esplosero un'altra volta in coccodé. Una vecchia uscì della casa. Gli chiesi chiamare Don Elías. - Non sta -disse. - Dove posso trovarlo? - Sta nel campo. - In che cosa parte dal campo? - Non so. Vedono più tardi. Egli ritorna come alle cinque. - È lei la donna di Don Elías? - Sì, sono sua moglie -disse e sorrise. Tentai di fargli domandi su Sacateca, ma si scusò e disse che non parlava bene lo spagnolo. Salii nella mia automobile e mi allontanai. Ritornai alla casa verso le sei. Mi stazionai davanti all'inferriata e gridai il nome di Sacateca. Questa volta egli uscì della casa. Infiammai il mio animo che sembrava una camera appesa della mia spalla nel suo astuccio di cuoio caffè. Sacateca sembrò riconoscermi. - Ah, ere tu-disse sorridendo-. Come sta Juan? - Molto bene. Ma come stia lei, Don Elías? Non rispose. Sembrava nervoso. A dispetto della sua gran riparazione esterna, sentii che si trovava disgustato. - Ti comandò Juan con qualche messaggio? - No. Io venni suolo. - E per che motivo? La sua domanda sembrò tradire la sua sorpresa genuina. - Nient'altro voleva parlare con lei- disse, tentando di sembrare la cosa più spensierata possibile -. Don Juan mi ha contato cose meravigliose di lei e mi entrò la curiosità e voleva fargli alcune domande. Sacateca stava in piedi di fronte a mio. Il suo corpo era magro e forte. Portava camicia e pantaloni cachi. Aveva gli occhi socchiusi; sembrava insonnolito o chissà ubriaco. La sua bocca era socchiusa ed il labbro inferiore appendeva. Notai la sua respirazione profonda; quasi sembrava russare. Mi fu successo che Sacateca si trovava senza dubbio ubriaco senza misura. Ma quell'idea risultava incongruente, perché affliggi prima alcuni minuti, uscendo della sua casa, era stato molto all'erta e molto cosciente della mia presenza. - Di che cosa vuoi parlare?- erigo finalmente. La voce suonava stanca; era come se le parole strisciassero una dietro un'altra. Mi sentii molto scomodo. Era come se la sua fatica fosse contagiosa e mi tirasse. - Di niente in questione - risposi-, Nient'altro venni a che conversassimo come amici. Lei mi invitò una volta a venire a casa sua. - Perché sì, ma questo non è la stessa cosa. - Perché non è la stessa cosa? - Che cosa non parli con Juan? - Si. - Allora per che motivo vuoi parlare con me? - Pensai che chissà potrebbe fargli alcune domande. . . - Domanda a Juan, Che cosa si non sta abituando? - Sì, ma ad ogni modo mi piacerebbe domandargli circa quello che Don Juan mi insegna, ed avere la sua opinione. Così potrò sapere a che cosa attenermi. - Per che motivo cammini con quelle cose? Non ti fidi di Juan? - Si. - Allora perché non gli domandi tutto quello che vuoisapere? - Sé gli domando. E mi dice tutto. Ma se anche lei potesse parlarmi di quello che Don Juan mi insegna, forse io capirei meglio. - Juan può dirti tutto. Egli è l'unico che può. Non capisci quello? - Sì, ma è che mi piace parlare con gente come lei, Don Elías. Non tutti i giorni trova uno ad un uomo di conoscenza. - Juan è un uomo di conoscenza. - Lo so. - Allora perché stai parlandomi? - Gli dissi già che venni a che parlassimo come amici. - No, non è certo. Tu ti porti un'altra cosa. Volli spiegarmi e non potei bensì masticare incoerenze. Sacateca non disse niente. Sembrava ascoltare con attenzione. Aveva di nuovo gli occhi socchiusi, ma sentii che mi scrutinava. Assentì quasi impercettibilmente. Le sue palpebre si aprirono all'improvviso, e vidi isuoi occhi. Sembrava guardare oltre mio. Battè spensieratamente il suolo con la punta del suo piede destro, giostro dietro del suo tallone sinistro. Aveva le gambe lievemente inarcate, le braccia inerti contro i fianchi. Quindi alzò il braccio destro; la mano era aperta con la palma perpendicolare al suolo; le dita estese segnalavano nella mia direzione. Lasciò oscillare la mano un paio di volte prima di metterla al livello del mio viso. La mantenne in quella posizione per un istante e mi disse alcune parole. La sua voce era molto chiara, ma le parole strisciavano. Dietro un momento lasciò cadere la mano al suo fianco e rimase immobile, adottando una posizione strana. Era fermo nelle dita del suo piede sinistro. Con la punta del piede destro, crociato dietro il tallone del sinistro, batteva il suolo soave e ritmicamente. Sperimentai un'apprensione senza motivo, una specie di inquietudine. Le mie idee sembravano dissociate. Io pensavo a cose senza connessione né senso che niente avevano a che vedere con quello che succedeva. Notai la mia scomodità e tentai di incanalare nuovamente i miei pensieri verso la situazione immediata, ma non potei nonostante una gran lotta. Era come se alcuno forza mi evitasse concentrarmi o pensare cose che venissero al caso. Sacateca non aveva pronunciato parola ed io non sapeva che più dire o fare. In forma completamente automatica, diedi la calza rovesciata ed andai via. Più tardi mi sentii sospinto a narrare a Don Juan il mio incontro con Sacateca. Don Juan rise a crepapelle. - Che cosa è quello che realmente passò?-domandai. - Sacateca ballò!- disse Don Juan-. Ti vide, e dopo ballò. - Che cosa mi fece? Mi sentii molto freddo e nauseato. - Sembra che non gli stessi simpatico, e ti fermò tirandoti una parola. - Come potè fare quello?- esclamai, incredulo. - Molto semplice; ti fermò con la sua volontà. - Come disse lei? - Ti fermò con la sua volontà! La spiegazione non bastava. Le sue affermazioni mi suonavano a gergo. Tentai di tirarlo fuori più, ma non potè spiegare l'evento inmaniera soddisfacente per mio. Ovviamente, detto evento, o qualunque evento che succedesse dentro questo altrui sistema di buonsenso, poteva essere solo spiegato o compreso in termini delle unità di significato proprie di tale sistema. Questa opera è, pertanto, un reportage, e deve leggersi come reportage. Il sistema in apprendistato mi era incomprensibile; cosicché la pretesa di fare qualcosa più che reprimere su lui sarebbe ingannevole ed impertinente. In questo aspetto, ho adottato il metodo fenomenológico e lottato per affrontare esclusivamente la stregoneria come fenomeni che mi furono presentati. Io, come percettore, registrai quello che percepii, e nel momento di registrarlo mi proporsi sospendere ogni giudizio. PRIMA PARTE I PRELIMINARI DI "VEDERE" I 2 aprile, 1968 Don Juan mi guardò un momento e non sembrò in assoluto sorpreso di vedermi, benché avessero passato più di due anni dalla mia ultima visita. Mi mise la mano nella spalla e sorridendo disse delicatamente che mi vedevo distinto che stava diventando grasso e brandisco. Io gli avevo portato un esemplare del mio libro. Senza nessun preambolo, lo tirai fuori dal mio portadocumenti e glielo diedi. - È un libro su lei, Don Juan-dissi. Egli lo prese e lo sfogliò rapidamente come se fosse un maglio di lettere. Gli piacquero il colore verde della fodera ed il volume del libro. Sentì la coperta con la palma delle mani, gli diede rovesciata un paio di volte e dopo me lo restituì. Sentii un'ondata di orgoglio. - Voglio che lei lo conservi- dissi. Don Juan mosse la testa con una risata silenziosa. - Meglio di no -disse, e dopo aggiunse con largo sorriso -: Sai già quello che facciamo con la carta in Messico. Risi. Il suo tocco di ironia mi sembrò bello. Eravamo seduti in una panca nel parco diun paese nell'area montagnosa del Messico centrale. Io non avevo avuto assolutamente nessuna maniera di informarlo sulla mia intenzione di visitarlo, ma mi ero sentito sicuro che lo troverebbe, e così fu. Aspettai solo un breve tempo in quello paese prima che Don Juan scendesse dalle montagne; lo trovai nel mercato, nel posto di una delle sue amicizie. Don Juan mi disse, come se niente fosse, che io ero arrivato giusto in tempo per portarlo di ritorno a Sonoro, e ci basiamo sul parco ad aspettare un suo amico, un indio mazateco con chi viveva. Aspettiamo alcune tre ore. Parliamo di diverse cose senza importanza, e verso il fine del giorno, esattamente prima che arrivasse il suo amico, gli raccontai alcuni eventi a che io avevo presenziato prima pochi giorni. Mentre viaggiava a vederlo, il mio carro si scomporsi nella periferia di una città e dovetti rimanere in lei tre giorni, mentre lo riparavano. C'era di fronte un motel dell'autofficina, ma la periferia delle popolazioni mi deprime sempre, cosicché mi alloggiai in un moderno hotel di otto piani nel centro della città. I fattorini mi disse che il hotel aveva ristorante, e quando scesi a mangiare scoprii che c'erano tavoli nel marciapiede. Era una sistemazione abbastanza bella, nell'angolo della strada, all'ombra di alcuni archi bassi di mattone, di linee moderne. Faceva fresco fuori e c'erano tavoli disoccupati, ma preferii sedermi nell'interno male ventilato. Aveva notato, entrando, un gruppo di bambini lustrascarpe seduti nel marciapiede di fronte al ristorante, ed era sicuro che mi molesterebbero se prendeva uno dei tavoli esterni. Da dove mi trovavo seduto, poteva vedere al gruppo di ragazzi attraverso la credenza. Un paio di giovani presero un tavolo ed i bambini si riunirono attorno ad essi, offrendo lustrarli le scarpe. I giovani ricusarono e rimasi attonito vedendo che i ragazzi non insistevano e ritornavano a sedersi nel marciapiede. Dopo un momento, tre uomini in abito di strada si alzarono ed andarono via, ed i ragazzi corsero al suo tavolo ed incominciarono a mangiare gli avanzi: in questione di secondi i piatti si trovarono puliti. La stessa cosa successe con gli avanzi di tutti gli altri tavoli. Notai che i bambini erano molto ordinati; se rovesciavano acqua la pulivano coi suoi propri stracci di lustrare. Notai anche la cosa minuziosa dei suoi procedimenti divoratori. Si mangiavano perfino i cubi di ghiaccio restanti nei bicchieri di acqua e le fette di limone per il tè, con tutto e guscio. Non sprecavano assolutamente niente.

Description:
In questo suo secondo libro, l'autore racconta di come alcuni anni dopo la sua opera di esordio, "A scuola dallo stregone", nel 1968, ritornò da Don Juan per riprendere il processo iniziatico che aveva interrotto. Lasciando cadere ogni difesa e abbandonandosi completamente a questa affascinante esp
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