Il cinema non è mai quello che sembra, un po’ come la vita. Da un giorno all’altro ti chiami Rino, abiti in Friuli, hai un figlio di quattordici anni e un amico scemo a cui badare. Nello stesso tempo sei sempre Filo, con la sua fame di provare tutto, con un debito d’amore addosso da mancarti il fiato e l’ossessione di una mamma impazzita per la polka. Sul set del film di Salvatores, chiuso in una camera d’albergo, ogni mattina devi spogliarti della tua faccia e mettertene addosso un’altra. Mentre aspetti il ciak il tempo ti trasforma, i sudori si mischiano, il puzzo di uno fermenta col puzzo degli altri, si viene a creare un microclima di umori, ormoni e pulsioni, si ride per delle cazzate incomprensibili al mondo esterno, come una specie di codice infantile, e ci si accoppia, almeno col pensiero, tutti con tutti, è una legge biologica. Fare un film è ferire consapevolmente una storia. Spezzettarla. Sembra poetico ma non lo è. Dopo il successo di Tuttalpiù muoio e di E lasciamole cadere queste stelle, Filippo Timi torna alla scrittura riproponendo in Peggio che diventare famoso il personaggio Filo e la sua voglia di vivere la vita a ogni costo, anche se brucia.
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