Tesi di Dottorato UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TRENTO SCUOLA DI DOTTORATO IN STUDI STORICI (ciclo XXIV) DEPOSITI DELLA STORIA: I MUSEI CIVICI NELL’ITALIA DELL’OTTOCENTO Andrea Cardone Tutor: Prof. R. Mazzolini Commissione di Dottorato Università degli Studi di Trento Prof. L. Blanco, Università di Trento Prof. L. Ciancio, Università diVerona Prof. G. Olmi, Università di Bologna INDICE INTRODUZIONE 4 - 6 CAPITOLO 1: I musei civici in Italia nel secolo XIX: istituzioni e legislazione 1.1 Musei e legislazione nel primo Ottocento. 7 - 14 1.2 Il ruolo dei musei nelle proposte di legge per la tutela del patrimonio storico-artistico (1860 -1902). 14 - 25 1.3 Organi centrali per la tutela del patrimonio storico-artistico e musei civici (1860 – 1881). 25 - 30 1.4 Commissioni periferiche per la tutela del patrimonio storico-artistico ed archeologico: enti locali e musei (1860 – 1890). 31 - 40 CAPITOLO 2: Genesi di un modello museale 2.1 Il periodo napoleonico (1805 – 1815). 41 - 48 2.2 La circolare del 1837: dai gabinetti scientifici ai musei civici. 49 - 59 2.3 L’istituzionalizzazione dei musei civici nel quinto decennio del secolo XIX. 59 - 69 2.4 I primi musei civici tra patriottismo, civiltà e progresso. 69 - 77 2.5 Identità e conservazione della memoria. 77 - 81 CAPITOLO 3: Forme e funzioni del museo civico dopo l’unità 3.1 Il riscatto territoriale: gerarchie urbane e musei civici. 82 - 91 3.2 I musei civici e il sistema periferico di tutela nazionale. 91 - 102 3.3 Funzioni e identità tra dimensione locale e nazionale. 102 - 113 3.4 Una nuova funzione didattica: educare i giovani e le masse. 113 - 120 2 3.5 Organizzazione e funzionamento dei musei civici. 120 - 131 3.6 I criteri di immissione: le donazioni. 132 - 136 CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE 137 - 144 APPENDICE Introduzione 146 - 149 Tavole: La geografia dei Musei Civici 150 - 164 Schede storiche di Musei Italiani 165 - 196 Documenti 197 - 212 Bibliografia 213 - 230 3 INTRODUZIONE Il lavoro che presento si propone di indagare le scelte metodologiche ed ideologiche sottese all’istituzione, incremento e diffusione del Museo Civico italiano nel secolo XIX verificandone le funzioni, le modalità di costituzione, i rapporti tra storiografia, didattica, tutela e promozione. La storiografia individua in due momenti principali la nascita del museo civico italiano. Le soppressioni ecclesiastiche napoleoniche e postunitarie rappresentano, infatti, due tappe fondamentali di un processo di democratizzazione e laicizzazione del patrimonio storico-artistico italiano che hanno dato impulso ad una nuova forma di fruizione pubblica. La funzione didattica di matrice illuministica legata agli ambienti accademici e scolastici acquisterà nuovo vigore durante l’epoca del positivismo per trasformarsi, attraverso l’apertura dei musei civici, soprattutto nei decenni successivi all’unità d’Italia, in una prima moderna forma di consumo culturale. Il museo civico ottocentesco fu espressione dell’orgoglio municipalistico, strumento del territorio e per il territorio in cui, oltre ad esercitare l’azione di tutela e il culto delle patrie memorie, le collezioni seppero congiuntamente rappresentare la promozione ed i risultati della ricerca storica e scientifica. Gli studi sulla storia del museo civico italiano ottocentesco si concentrano oggi sulle singole realtà locali. Tuttavia poco sondate sono le connessioni tra tutte queste istituzioni coeve che potrebbero invece offrire nessi per una lettura più ampia della museografia ottocentesca in Italia i cui metodi espositivi furono, comprensibilmente, l’esito di più ampie scelte storiografiche ed educative. La ricostruzione storica qui presentata tenta di individuare nuove linee di ricerca di ampio respiro che possano inquadrare le intenzioni civiche, culturali, storiografiche e allestitive tipiche della cultura campanilistica in una prospettiva e contestualizzazione storica e territoriale più ampia. Si è pertanto posta particolare attenzione alle molteplici ragioni politiche e di politica culturale che portarono all’istituzione dei musei civici in Italia stabilendone i rapporti con la storia locale, le indagini sul territorio e i nessi con il sistema museale e la politica di tutela nella seconda metà dell’Ottocento. L’analisi dei musei presi in esame, in particolare le collezioni patrie di Bergamo, Brescia, Capua, Vicenza, pone alcune riflessioni sul ruolo svolto dai corpi scientifici quali gli Atenei, le Accademie, le Deputazioni di Storia Patria, le Società archeologiche per lo sviluppo economico e culturale delle 4 città e il ruolo da loro assunto nella formazione prima e gestione poi del patrimonio materiale italiano. Per una maggiore chiarezza del tema qui affrontato è necessaria una precisazione terminologica. Il termine che identifica e caratterizza il museo italiano ottocentesco è “locale” in cui l’ambito territoriale e geografico coincide con quello amministrativo. Nello specifico lo studio ha focalizzato l’attenzione sui musei civici ed i musei provinciali. Il termine locale viene spesso utilizzato per distinguere i musei nati per volontà delle amministrazioni locali che si distinguono dai precedenti musei dinastici e dai musei nazionali istituiti e gestiti dallo Stato. Al termine di museo locale si associa quello di museo patrio con un chiaro intento di rafforzare non solo il legame con la patria, ma di identificarne lo scopo storiografico del museo, ossia un luogo in cui attraverso gli oggetti è possibile ricostruire le vicende di storia patria della città e del territorio. Il termine viene spesso scelto dalle accademie e istituti come gli Atenei, le Deputazioni di Storia Patria e le Società Storiche per rafforzare il significato delle loro collezioni utilizzate per gli studi di storia patria. Anche in questo caso il termine patria indicherà di volta in volta una precisa circoscrizione amministrativa e territoriale assumendo significati e caratteristiche diverse a secondo del periodo storico. Il termine patrio verrà poi trasformato in quello di civico, un museo che sarà espressione di una comunità prevalentemente urbana ma che fa riferimento anche a territori più vasti come le province. Il museo locale italiano rappresenta uno spazio che raccoglie materiali e testimonianze non solo provenienti dal contesto urbano ma anche dal territorio circostante. Il territorio rappresenterà il punto di riferimento per l’ampia scelta di materiali da immettere nel museo andando a costruire una tipologia museale che è stata sintetizzata in tre definizioni chiave: a- tipologico, a-gerarchico, a-selettivo. Lo studio ha posto l’attenzione sul rapporto tra corpi scientifici, collezioni patrie pubbliche e private, istituzioni governative e la legislazione riguardante la tutela del patrimonio storico-artistico e archeologico. Ho preso in esame il periodo che va dal decennio napoleonico 1805 – 1815 ai primi decenni post-unitari. Il museo italiano, nato come “museo di riuso” e “di ricovero”, funzione che ne caratterizzerà in parte la fondazione sia prima che dopo l’unità d’Italia, diventerà il luogo della ricerca storica e scientifica. Si è pertanto analizzato il rapporto tra storiografia, indagini scientifiche, collezioni. Il collezionismo nato per volontà dei corpi scientifici pose una nuova attenzione alle fonti documentarie, al loro studio e alla loro conservazione. Il museo come luogo di conservazione della storia nasce in stretto rapporto con altri luoghi del “fare storia”. Lo studio del rapporto tra musei locali, storiografia e ricerca scientifica suggerisce interessanti riflessioni sul significato di questi spazi che si identificano come luoghi della memoria. Ci si 5 interroga in che modo la ricerca storica e le indagini scientifiche abbiano contribuito alla creazione di una sola memoria o di più memorie rinnovate nel tempo. Ho tentato di comprendere in che modo le collezioni patrie sono assurte a simboli con significati diversi nel corso dell’Ottocento. La costruzione della memoria storica pubblica è la conseguenza di una convergenza d’intenti tra classe politica e intellettuale che insieme decidono di imprimere nel tessuto urbano dei segni tangibili della storia patria e quindi della propria memoria. Il mio studio è partito da un’approfondita rilettura di quanto finora scritto sulla politica di tutela, il collezionismo e la ricerca storica pre e post unitaria e sul ruolo che le collezioni patrie rivestirono per gl’enti promotori. Gli studi di Andrea Emiliani, “antichi” ma determinanti per la comprensione del museo “territoriale” italiano, i recenti contributi di Bencivenni, Dalla Negra, Grifoni e gli studi di Antonella Gioli particolarmente attenti al rapporto tra musei e soppressioni degli enti ecclesiastici sono stati i punti di riferimento principali. In merito alla seconda parte del progetto di ricerca dedicata al post unitario ed in particolare al Museo Provinciale Campano di Capua sono stati studiati i contributi di Nadia Barrella, punto di partenza per una riflessione sul ruolo dei musei nati dalle Commissioni Conservatrici Provinciali ed il ruolo esercitato nel sistema di tutela nazionale. Per la storia del museo provinciale campano sono stati esaminati gli Atti della Commissione Conservatrice dei monumenti ed oggetti di antichità e belle arti della provincia di Terra di Lavoro. Per il presente lavoro è stata svolta una ricerca d’archivio presso l’archivio comunale della Biblioteca Angelo Mai di Bergamo, l’Archivio della Direzione generale delle antichità e belle arti di Stato di Roma, l’archivio dell’Ateneo di Scienze, Lettere e Arti di Brescia, l’archivio della Provincia di Caserta. Sono stati inoltre consultati gl’Atti parlamentari conservati presso la Biblioteca della Camera dei Deputati di Roma. 6 Capitolo 1 I MUSEI CIVICI IN ITALIA NEL SECOLO XIX: ISTITUZIONI E LEGISLAZIONE 1.1 Musei e legislazione nel primo Ottocento. Il museo è spesso considerato il fondamento per la tutela non solo materiale dell’oggetto d’arte e d’antichità ma anche dei significati e delle simbologie che la comunità decide di affidare al reperto nel momento in cui stabilisce la sua conservazione ed esposizione recuperandone la cultura, la storia e le tradizioni del popolo che lo ha prodotto. La fondazione di un museo da parte dello Stato dimostra l’attenzione per la tutela del suo patrimonio che parte inevitabilmente dall’accertamento e riconoscimento del valore storico ed artistico dell’oggetto. La legislazione e l’organizzazione di organi preposti a tale compito sono strumenti basilari per trasmettere l’immagine di una nazione e la sua storia. Per tale ragione, con la legge del 28 giugno 1871, il recente Stato italiano, riconfermò la validità giuridica delle leggi emanate dai governi precedenti per la tutela del patrimonio storico- artistico ed archeologico mantenendo in parte operative le precedenti strutture tecnico- amministrative. Una raccolta ampia e variegata di norme redatte tra la fine del Settecento e la prima metà dell’Ottocento che avrebbe dovuto essere sostituita in breve tempo dalla nuova legislazione che fu promulgata dal nuovo parlamento italiano solo dopo quarant’anni. Nella legislazione pre-unitaria la tutela dell’oggetto si esprime in tre tematiche principali dibattute ampiamente in parlamento dopo l’unità d’Italia: l’esportazione che vide la concessione di una licenza obbligatoria per i proprietari pubblici e privati al fine di impedire la dispersione del patrimonio1; il censimento delle opere d’arte, catalogare per conoscere ed intervenire stabilendo sia la quantità che la qualità degli oggetti da tutelare per permettere di organizzare uffici coadiuvati spesso dai musei laddove vi fossero particolari esigenze conservative dovute all’alta concentrazione di reperti2; gli scavi e le scoperte archeologiche con provvedimenti interessanti promulgati nello 1 Il divieto permise a Milano di controllare le vendite effettuate all’estero e di esercitare il diritto di prelazione. A Roma il rilascio della licenza aveva lo scopo di scoraggiare l’esportazione facendo pagare un forte dazio e di assicurare vantaggi per l’erario. A Napoli si configurava come un regime vincolistico. A. Emiliani, Leggi, Bandi e provvedimenti per la tutela dei Beni Artistici e Culturali negli antichi Stati Italiani 1571 – 1860, Bologna, Edizioni Alfa Bologna, 1978. 2 Tra le catalogazioni più importanti si ricorda quella del 1773 con la redazione di un catalogo dei dipinti di proprietà ecclesiastica di Venezia e isole vicine (Venezia, 31 luglio 1773). A. Emiliani, ibidem, p. 75. 7 Stato Pontificio tra i quali ricordiamo l’editto Pacca (1820) che aprì al nuovo interesse pubblico delle collezioni, stabilì una serie di divieti, permessi e obblighi (le modalità di rilascio delle licenze, l’obbligo di denuncia dello scavo e del ritrovamento, la vigilanza) e permise di esercitare il diritto di prelazione da parte dello Stato sui beni ritrovati3 che, come vedremo successivamente, verrà applicato “limitatamente” dal nuovo Stato italiano dopo il 1861 favorendo l’incameramento dei reperti presso i musei locali. L’attività di tutela del patrimonio prima dell’unità - in particolare in Toscana, a Parma, in Piemonte e a Napoli - venne affidata al Ministero degli Interni4, lo stesso che, sia per una continuità di competenze rispetto ai governi precedenti che per l’affidamento già durante i primi anni del nuovo regno di funzioni e compiti di tutela a sindaci e prefetti, manterrà lo stesso compito di gestione del patrimonio nazionale dopo il 1861. Solo nel 1864 le competenze di tutela sul patrimonio storico – artistico furono assegnate al Ministero della Pubblica Istruzione riproponendo una decisione già precedentemente attuata nel Regno di Sardegna e nel Granducato di Toscana. Gli Stati pre – unitari, per il lavoro di gestione degli affari d’arte e d’antichità da parte dei ministeri, si erano dotati anche di commissioni con competenze specifiche ma che spesso avevano solo funzioni consultive non essendo i ministeri dotati al loro interno di uffici organicamente e sistematicamente preposti al governo delle cose d’arte e d’antichità. L’organico di queste commissioni era costituito inizialmente da impiegati dell’amministrazione civile o della pubblica sicurezza appartenenti al Ministero5 affiancati spesso da specialisti del settore. Ad esempio nel Regno di Sardegna, il 23 novembre 1832 Carlo Alberto istituì una Giunta di antichità e di belle arti con compiti di promozione, ricerca e conservazione6 che dipendeva direttamente dalla Segreteria di Stato per gli Affari degli Interni. La Giunta era costituita da membri provenienti dal mondo accademico, in particolare dall’Accademia Reale delle Scienze dell’Università di Torino, l’Accademia Albertina di Belle Arti e dal Museo d’Antichità. Tra i membri figurano Cesare Saluzzo, Giuseppe Manno, Domenico e Carlo Promis anche se quest’ultimi non furono mai nominati membri effettivi. Con Regio Brevetto 11 dicembre 1832 fu affidata la presidenza della 3 L’editto prevedeva anche di redigere un inventario settimanale dei ritrovamenti, la concessione di vendita degli oggetti ritrovati, la denuncia di rinvenimento di antichi fabbricati, divieto di distruzione di strutture decorative, obbligo di denuncia di decadimento dei monumenti antichi, norme per gli interventi conservativi dello Stato, norme per il ritrovamento di oggetti di antichità. L’editto è pubblicato in A. Emiliani, ibidem, pp. 130 – 145. 4 A Napoli, infatti, per gli affari legati alle antichità e belle arti il Ministero dell’Interno era affiancato dalla Real Casa mentre in Toscana diverse decisioni in materia di tutela venivano sottoscritte dal Ministero dell’Istruzione e della Giustizia. A Roma la gestione del patrimonio era affidata alla Reverenda Camera Apostolica, l'organo finanziario del sistema amministrativo pontificio, ed in particolare al Camerlengo mentre successivamente venne affidato al Ministero dei lavori pubblici. A. Emiliani, ibidem, p. 34 5 M. Musacchio, L’archivio della Direzione generale delle antichità e belle arti (1860-1890), Ministero per i beni culturali e ambientali Ufficio Centrale per i Beni Archivistici, Roma, 1994, p. 13 6 M. Bencivenni, R. Dalla Negra, P. Grifoni, Monumenti e istituzioni, La nascita del servizio di tutela dei monumenti in Italia 1860 - 1880, pp. 7, 8. 8 Giunta ai Presidenti delle Reali Accademie delle Scienze e di Belle Arti.7 Tuttavia i suoi compiti furono esclusivamente consultivi, informando la Segreteria di Stato circa le emergenze e proponendo soluzioni adatte ad accogliere e conservare capolavori delle arti e di reperti archeologici utili allo studio della patria e per la formazione degli artisti. La Giunta utilizzò il Museo dell’Accademia di Belle Arti come spazio con il quale assicurare la tutela, conoscere e promuovere la storia del Regno ed affinare il gusto e le abilità artistiche.8 Se a Torino è il Museo dell’Accademia di Belle Arti a ricoprire il ruolo di spazio di tutela, l’attività della Commissione Conservatrice di Genova ruoterà intorno al nuovo Museo civico archeologico istituito per raccogliere, conservare ed esporre i reperti a rischio di dispersione. La Commissione fu istituita con Dispaccio del Ministero dell’Interno del 21 settembre 1858 n.° 8654. Pur dipendendo dal Ministero dell’Interno, essa era presieduta dal sindaco della città e la sue competenze in materia di tutela erano prettamente civiche ossia circoscritte alla salvaguardia e sorveglianza di monumenti antichi esistenti nella città di Genova ed i relativi sobborghi e dal 16 febbraio 1859 anche quelli della provincia. L’organico univa esponenti dell’amministrazione civile, il sindaco ed un consigliere municipale, con specialisti del settore in particolare tre professori (pittura, scultura e architettura) e due cittadini conoscitori di antichità, di storia patria e di belle arti. Dalla lettura del regolamento emerge il carattere prevalentemente operativo della Commissione dove al comune venne affidato un potere esecutivo in materia di tutela del proprio patrimonio locale in quasi tutti i settori, dal restauro, all’esportazione, dagli scavi ai traslochi. Il titolo V del regolamento è interamente dedicato al Museo civico, pensato come un museo di antichità da destinare al municipio per contenere i reperti già in suo possesso, gli oggetti che sarebbero stati donati dai privati cittadini, i monumenti riscattati e acquistati dal governo, dal municipio e dalla commissione, gli oggetti acquistati con i fondi della Cassa di sussidio ed i monumenti che temporaneamente vi sarebbero stati depositati. La gestione ed i compiti del museo sarebbero stati definiti con un apposito regolamento redatto dalla Commissione.9 Nello Stato Pontificio, un primo assetto amministrativo della tutela si ebbe con il Chirografo di Pio VII del 1802 che dispose un’inedita ed estesa struttura di vigilanza su tutto il territorio a capo della quale pose il camerlengo coadiuvato dall’ispettore generale di belle arti e dal commissario delle antichità. Le norme qui stabilite furono riprese e meglio esposte nel regolamento dell’Editto emanato dal camerlengo Bartolomeo Pacca (1820) il cui principio della tutela era basato sull’interesse pubblico dell’oggetto storico-artistico meritevole di essere conservato. L’editto 7 A.C.S., I versamento, B. 364, F. 1, 45,3). 9 Regolamento per la conservazione dei monumenti antichità della città di Genova in M. Bencivenni, R. Dalla Negra, P. Grifoni, ibidem., pp. 50 – 54. 9 prevedeva una prima organizzata forma di vigilanza costituita da un organo centrale ed organismi periferici dislocati su tutto il territorio che riferivano del loro operato all’amministrazione centrale. La Commissione di Belle Arti fu affiancata dalle Commissioni Ausiliarie di Belle Arti col compito di ispezionare e controllare gli scavi. Nelle Legazioni di Bologna e nella Delegazione di Perugia, l’organico delle Commissioni Ausiliarie era costituito da membri provenienti dalle rispettive Accademie di Belle Arti. Nel 1821 la promulgazione di un regolamento perfezionò e definì compiti e rapporti tra potere centrale e potere locale impartendo alle Commissioni Ausiliari direttive uniformi circa le operazioni da svolgere sul territorio pontificio.10 L’Editto Pacca ha rappresentato un modello molto forte per le legislazioni circa la tutela del patrimonio archeologico e storico- artistico sia per altri stati pre-unitari italiani che per il nuovo Regno ed in particolare per tre principi caratterizzanti: il principio di catalogazione, il divieto di esportazione, il principio della proprietà pubblica del sottosuolo archeologico. Ma ancora più importante è il precedente Chirografo di Pio VII al quale possiamo far risalire l’origine del museo italiano. In una pagina del Chirografo, Pio VII scriveva di propria mano che il museo era un luogo utile sia al progresso della professionalità artigiana, oltre che artistica, sia al turismo che già allora esplorava tanto minuziosamente questo paese e quella città che lo rappresentava mentre l’editto Pacca sottolineava ed affermava gli interessi culturali pubblici sull’utile privato dei beni artistici ed archeologici: “Questi preziosi avanzi della culta Antichità forniscono alla Città di Roma un ornamento, chela distingue tra tutte le altre più insigni Città dell’Europa; somministrano i Soggetti li più importanti alle meditazioni degli Eruditi, ed i modelli, e gli esemplari i più pregiati agli Artisti, per sollevare li loro ingegni alle idee del bello, e del sublime; chiamano a questa Città il concorso dei Forastieri, attratti dal piacere di osservare queste singolari Rarità; alimentano una grande quantità d’Individui impiegati nell’esercizio delle Belle Arti; e finalmente nelle nuove produzioni, che sortono dalle loro mani, animano un ramo di commercio, e d’industria più d’ogni altro utile al Pubblico, ed allo Stato, perché interamente attivo, e di semplice produzioni, come quello che tutto è dovuto alla mano, ed all’ingegno dell’uomo”.11 Alla luce delle nuove norme va compresa la promozione da parte dello scultore Antonio Canova, dopo il suo viaggio al Louvre di Parigi, di istituire una pubblica galleria ad uso e formazione degli artisti con l’espressa condizione che i quadri restituiti servissero a pubblica e generale utilità e la 10 Sulla tutela del patrimonio nello Stato Pontificio tra fine Settecento ed inizio ottocento consultare: V. Curzi, Bene culturale e pubblica utilità: Politiche di tutela e Roma tra Ancien Régime e Restaurazione, Minerva Edizioni, Roma, 2004. 11 A. Emiliani, op. cit., p. 111. 10
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