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Storie del mio zoo PDF

1982·3.61 MB·italian
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Gerald Durrell Storie del mio zoo Disegni di Ralph Thompson     Traduzione di Carla Esposito Fuà Adelphi eBook TITOLO ORIGINALE: Menagerie Manor     Quest’opera è protetta dalla legge sul diritto d’autore È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata     Prima edizione digitale 2022     © 1964 GERALD DURRELL © 1982 ADELPHI EDIZIONI S.P.A. MILANO www.adelphi.it ISBN 978-88-459-8392-4 STORIE DEL MIO ZOO A Hope e Jimmy, in ricordo di conti scoperti, pillole tranquillanti e file di creditori PREMESSA Egregio Signore, ci premuriamo di segnalarLe che il Suo conto corrente è scoperto...   Alla tenera età di sei anni o giù di lì quasi tutti i bambini hanno per la testa i più improbabili progetti su quello che faranno da grandi: il poliziotto, il pompiere o il macchinista. Ma io, a quell’età, non avevo certo ambizioni così banali: io avrei avuto uno zoo mio. Allora non mi sembrava (né mi sembra ora) un’idea così insensata o scandalosa. Gli amici e i parenti – che da un pezzo mi ritenevano un po’ tocco per il fatto che non manifestavo alcun interesse per tutto ciò che non fosse provvisto di pelo, penne, squame o guscio – la prendevano come un’ulteriore dimostrazione del mio precario stato mentale. Erano convinti che, se loro continuavano a fare orecchie da mercante alle mie insistenti allusioni allo zoo, con gli anni non ci avrei pensato più. Invece, con grande sgomento di tutti, la mia determinazione ad avere uno zoo andò via via crescendo, e alla fine, dopo un certo numero di spedizioni per procurare animali agli zoo altrui, decisi che era arrivato il momento di metterne su uno mio. Dal mio ultimo viaggio nell’Africa Occidentale ero tornato con una ragguardevole collezione di animali, e li avevo sistemati nel giardino di mia sorella, alla periferia di Bournemouth. Le avevo assicurato che ci sarebbero rimasti soltanto per poco, convinto com’ero che qualsiasi Comune intelligente, al trovarsi sull’uscio di casa uno zoo bell’e pronto, si sarebbe fatto in quattro per trovargli una sede. Dopo diciotto mesi di battaglie non avevo più tanta fiducia nell’appoggio degli enti locali, e mia sorella era ormai convinta che il suo giardino sarebbe somigliato in eterno allo scenario di uno dei più spettacolari film di Tarzan. Alla fine, ostacolato dalle ottusità burocratiche e spaventato dall’infinito numero di leggi e norme che incombono su ogni uomo libero della Gran Bretagna, decisi di sondare la possibilità di scegliere per il mio zoo una delle isole della Manica. Ebbi una presentazione per un certo Maggiore Fraser, il quale, mi assicurarono, era una persona affabile e di larghe vedute, e mi avrebbe fatto visitare l’isola di Jersey indicandomi i posti più adatti. Mia moglie Jacquie e io prendemmo l’aereo per Jersey, dove Hugh Fraser ci attendeva. Ci portò nella sua villa di famiglia, probabilmente una delle più belle tenute dell’isola: c’era un immenso parco cintato che sognava sotto gli esili raggi del sole; un grosso muro di granito con fitte cascate di rupicole; arcate del Quattrocento, tappeti erbosi ben curati e aiuole traboccanti di colori. Tutti i muri e le costruzioni adiacenti erano di quel bel granito di Jersey in cui si mescolano tutte le sfumature delicate di un mucchio di foglie autunnali; risplendevano al sole ed erano così seducenti da spingermi a fare quella che fu probabilmente l’osservazione più sciocca del secolo. Rivolto a Jacquie dissi: «Che posto stupendo per uno zoo!». Se Hugh Fraser, come padrone di casa, fosse svenuto all’istante, non avrei potuto dargli torto; l’idea di installare uno zoo in un posto così bello, uno zoo come se lo immagina l’uomo della strada (un ammasso di cemento e di sbarre d’acciaio) suonava come un’eresia. Con mia grande sorpresa Hugh Fraser non svenne, ma si limitò ad alzare un sopracciglio con aria inquisitrice e a chiedermi se dicevo sul serio. Un po’ imbarazzato risposi di sì, ma aggiunsi in gran fretta che mi rendevo conto che era una cosa impossibile. Hugh replicò che non lo riteneva poi tanto impossibile, e ci spiegò che la casa e il terreno erano troppo grandi perché lui potesse mantenerli da privato cittadino, e perciò pensava di trasferirsi in una tenuta più piccola in Inghilterra. Ero disposto a prendere in considerazione l’idea di affittare la proprietà per il mio zoo? Io non avrei potuto immaginare una sistemazione più attraente, e alla fine del pranzo l’affare era concluso, e diventai così il nuovo ‘Signore’ della tenuta di Les Augres, nel Comune di Trinity. È facile immaginare il nervosismo e lo scoramento di quanti mi conoscevano quando diedi loro la notizia. L’unica ad accoglierla con sollievo fu mia sorella; benché a suo parere quello fosse un progetto da mentecatto, come ebbe a dire, le avrebbe se non altro liberato il giardino da qualcosa come duecento figli della giungla, che stavano ormai mettendo a dura prova i suoi rapporti con il vicinato. A rendere le cose ancora più complicate, io non volevo uno zoo puro e semplice, col solito tipo di animali: l’idea che sottendeva il mio progetto era di contribuire a preservare la vita animale. In tutto il mondo numerose specie vengono sterminate o decimate dal diffondersi della civiltà. Molte delle specie più grosse hanno valore turistico o commerciale e sono quindi oggetto di grande attenzione; eppure, qua e là per il mondo, ci sono miriadi di piccoli e affascinanti mammiferi, uccelli e rettili per la cui preservazione si fa ben poco, perché non si possono né mangiare né indossare, e interessano poco ai turisti che vogliono vedere leoni e rinoceronti. Molti di essi appartengono a faune insulari, e il loro habitat è quindi molto piccolo: basta la minima interferenza per farli sparire per sempre; la casuale introduzione di ratti, per esempio, o di maiali, potrebbe distruggere una di queste specie insulari nel giro di un anno. Per rendersene conto basta ricordare la triste sorte del dodo. La soluzione logica del problema sarebbe di provvedere a un’adeguata protezione di queste creature allo stato libero, in modo che non scompaiano, ma questo, spesso, è più facile a dirsi che a farsi. Comunque, mentre si fanno sforzi per ottenerlo, si potrebbe prendere un’altra precauzione: e cioè quella di incrementare il numero degli animali in condizioni controllate, allevandoli nei parchi e nei giardini zoologici, di modo che, se dovesse succedere il peggio e la specie allo stato libero si estinguesse, per lo meno non l’avremmo perduta per sempre. In questo modo, per di più, si avrebbe in futuro un ceppo dal quale prelevare gli animali in sovrannumero per rimetterli nel loro ambiente d’origine. Questa, ne sono sempre stato convinto, dovrebbe essere la funzione principale di uno zoo, ma è solo da poco che la maggioranza di essi ha fatto proprio questo problema e cerca di occuparsene. Io volevo che la funzione principale del mio zoo fosse questa, ma come tutte le idee altruistiche sarebbe stata costosa; era perciò necessario che all’inizio, prima di diventare finanziariamente autonomo, lo zoo venisse avviato su basi strettamente commerciali. Solo allora si sarebbe potuto dare inizio al vero lavoro dello zoo: allevare ceppi di animali rari. Ecco dunque la storia delle nostre tribolazioni nel fare il primo passo verso una meta che considero estremamente importante. I UN MANIERO PER SERRAGLIO Caro Signor Durrell, ho diciotto anni, sono sano di mente e di corpo e ho letto i suoi libri: non potrei lavorare nel suo zoo?   Un conto è andare allo zoo come un normale visitatore, un altro è esserne il proprietario e viverci dentro; questa, alle volte, può essere una fortuna a doppio taglio; ti dà senz’altro la possibilità di accorrere a qualunque ora del giorno e della notte per controllare i tuoi protetti, ma significa anche che sei di servizio ventiquattr’ore su ventiquattro, e può capitare che una piacevole cenetta se ne vada in fumo perché uno degli animali si è rotto una zampa, o perché nella casa dei rettili si è bloccato il riscaldamento, o per una qualsiasi di altre cento ragioni. L’inverno, naturalmente, è un periodo di ristagno e possono passare giorni e giorni senza che compaia un solo visitatore, tanto che cominci a sentire che lo zoo è davvero tutto tuo. Il piacere di questa sensazione è però guastato non poco dall’allarme con cui vedi aumentare i debiti e diminuire le entrate della biglietteria. Ma nell’alta stagione le giornate sono così piene e i visitatori così numerosi che ti accorgi a malapena dello scorrere del tempo, e ti dimentichi il conto scoperto. La giornata normale di uno zoo inizia subito prima dell’alba; il cielo comincia appena a tingersi di giallo che ti svegli al canto degli uccelli. Lì per lì, ancora mezzo addormentato, ti chiedi se sei a Jersey o di nuovo ai tropici, perché senti un pettirosso che canta verso il sole, accompagnato dal pieno grido pastoso e un po’ roco dei

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