Mauro Corona STORIE DEL BOSCO ANTICO Oscar Mondadori © 2005 Arnoldo Mondadori Editore S. p.A, Milano, per il testo e le illustrazioni Prima edizione I Grandi marzo 2005 Prima edizione Oscar bestsellers febbraio 2007 ISBN 978-88-04-56355-6 Questo volume è stampato presso Mondadori Printing S. p.A. Stabilimento NSM - Cles (TN) Stampato in Italia. Printed in Italy Anno 2009 - Ristampa www. librimondadori. it Nella collezione Scrittori Italiani e Stranieri Storia di Neve Cani, camosci, cuculi (e un corvo) I fantasmi di pietra Le voci del bosco nella collezione Omnibus Italiani Nel legno e nella pietra L'ombra del bastone Nella collezione Oscar Bestsellers Nel legno e nella pietra I fantasmi di pietra Aspro e dolce L'ombra del bastone Il volo della martora Nella collezione Piccola Biblioteca Vajont: quelli del dopo Storie del bosco antico Alla cara memoria di Roberto Corona, che voleva bene ai bambini L'aquila Sapete perché l'aquila ha il becco curvo? Non lo sapete? Ascoltate questa storia. Un tempo molto lontano le aquile avevano il becco dritto. Perfettamente dritto, come un fuso. E cacciavano gli scoiattoli. Appena li vedevano sulla terra, sugli alberi o fra le rocce, perché gli scoiattoli a volte scalano anche le rocce,, calavano in picchiata e... ZAC, con il lungo becco infilzavano i poveri animaletti e li divoravano. Spesso li portavano al nido, per nutrire i piccoli. Ma a volte lo facevano come gioco. Trafiggevano gli scoiattoli per divertirsi, e questo non era più una cosa naturale o un bisogno di sopravvivere. Allora uno scoiattolo più furbo degli altri si accordò con il Signore per punire le aquile malvagie. Finse di stare al gioco. Si accoccolò su una roccia e attese l'attacco dell'aquila regina. Accanto a sé; sulla sinistra, il picchio crodaiolo gli aveva scavato un buco di salvezza. Quando l'aquila si buttò a capofitto per infilzarlo, lo scoiattolo sparì nel foro praticato dal picchio. L'aquila sbatté contro la croda con tale violenza che il becco le si piegò e rimase storto per sempre. Punite dal Signore, da quel giorno tutte le aquile hanno il becco adunco e non toccano più gli scoiattoli. Il corvo imperiale Il corvo imperiale ai tempi della creazione era tutto bianco. Bianco come le pernici delle nevi o la lepre alpina. Bianchi anche il becco e le zampette. Dio lo aveva voluto così ed era molto bello. Tanti e tanti secoli dopo, un corvo bianco fu addomesticato da un ometto birbante che di mestiere faceva il ladruncolo. Questi un giorno chiese al corvo di essergli complice in un furto. Voleva rubare le salsicce al prete del villaggio. Salsicce che la gente generosamente gli donava. Il problema era entrare in canonica dove il ministro di Dio teneva il suo tesoro appeso sotto la cappa del focolare. L'omino ci pensò e gli venne un'idea. Chiese al corvo di tirare il capo di una corda sul tetto e legarla attorno al camino. Il corvo eseguì il lavoro alla perfezione con tanto di nodo ben saldo. Il ladruncolo si issò fino in cima e, sempre mediante la corda, si calò lungo il camino seguito dal complice. Rubarono tutti i salami e le salsicce. Poi tornarono sul tetto. L'omino risali lungo la corda. Il corvo volando e sbatacchiando su per il budello scuro si sporcò tutto. Il giorno dopo alla luce del sole il ladruncolo non riconobbe più il suo complice. Era diventato nero di fuliggine come una pezza di velluto. I salami erano destinati ai poveri del villaggio, e il prete non sapeva più come aiutarli. Per punizione il Signore fece si che da quella notte tutti i corvi nascessero neri di caligine come il peccato. Il picchio Un tempo il picchio costruiva il suo nido sui rami degli alberi, come tutti gli uccelli. Edificava una casa così bella e colorata che attirava l'attenzione del bosco intero. Usava pagliuzze di ogni tinta perché aveva il senso del colore. Lui stesso era molto colorato, rosso, verde chiaro, giallino. Ma, proprio per l'eclatanza della sua villa, si era creato un problema non da poco. Non riusciva a farsi una famiglia tutta sua. Il cuculo, infatti, scopriva immediatamente quel nido così appariscente. Mangiava le uova del picchio e, al loro posto, deponeva il suo ovetto. Così il povero picchio era costretto ad allevare il figlio del cuculo. Lo faceva con amore, sia chiaro, perché anche i trovatelli hanno diritto a un po'"d'affetto, ma voleva anche crescere dei figli suoi. Perciò chiese al Signore di aiutarlo. «Fai un buco in un tronco» lo consigliò il Signore «e scava profondo, fin giù, nel cuore dell'albero. Quella sarà la tua nuova casa, dove nessuno verrà più a disturbarti.» «Non sono capace di forare un tronco» rispose il picchio. «Il mio becco è tenero, e a battere mi viene mal di testa.» Il Signore fece un gesto e disse: «Vai, d'ora in avanti potrai bucare quanti alberi vorrai ma ricordati, solo quelli che stanno per morire, che hanno il midollo già morto.» Da quel giorno il cuculo non usò più il nido del picchio. E il picchio poté finalmente avere una sua famiglia. Ma non costruì mai più un nido bello e colorato come prima. Il gallo forcello Ai tempi della creazione, perché è di quell'epoca che qui si narra, il gallo forcello aveva la coda rotonda, come suo cugino il gallo cedrone. Ma l'urogallo, o gallo cedrone, era di gran lunga più grande e bello del cugino. Il quale, pieno di invidia, pensò bene di far perdere le penne al rivale. Un giorno di primavera, con uno stratagemma, si fece ricevere dal Signore e gli disse: «Signore, il cedrone quando vola con la sua coda produce venti che spazzano i boschi, rompono gli alberi, d'inverno provocano valanghe mettendo a repentaglio la vita degli uomini e degli animali.» «Che debbo fare?» chiese il Signore. «Non pensavo di aver creato un pericolo pubblico.» «Gli togli la coda» rispose il forcello «tanto la mia basta e avanza, e poi è piccola e non fa vento che provoca danni.» «Bene, vai pure tranquillo, porrò subito rimedio alla coda, non ti preoccupare.» Il Signore rimase molto male per l'invidia che aveva preso la testa del gallo forcello e decise di punirlo. Non solo lasciò al cedrone il suo trofeo così come lo aveva creato, ma fece si che al forcello si piegassero le penne della coda come una lira arruffata. I cacciatori credono sia un bel trofeo e invece è un obbrobrio. Quando si svegliò il forcello era disperato e chiese scusa al Signore. Ma ormai era fatta e il Signore lo lasciò così per sempre. Da allora il forcello canta solo a primavera e il suo gorgoglio sembra un pianto di tristezza. La talpa La talpa all'inizio del mondo viveva in superficie. Vagava nei prati, all'aria aperta, e faceva lunghe passeggiate alla base degli alberi. Ma era piuttosto cattivella. Aveva occhi acutissimi che le permettevano di vedere bruchi, coleotteri e insetti vari da molto lontano. Velocissima li catturava e, per far loro un dispetto e farli soffrire, scavava una buca nella terra e li seppelliva. Molti, a prezzo di sforzi immani, riuscivano a liberarsi e tornare all'aperto. Alcuni invece, come le farfalle, morivano soffocati. Un giorno la talpa seppellì un povero grillo che per lo spavento diventò matto e non volle più tornare in superficie. Si adattò a vivere sotto la scorza del prato pur di non incontrare quella malvagia della talpa. Ma, prima che lei lo sotterrasse, dopo averla implorata invano di non farlo, le disse: «Prego il Signore che ti faccia fare la stessa fine, così provi cosa significhi essere sepolti vivi.» Il Signore esaudì quel desiderio relegando la talpa sottoterra per l'eternità e togliendole pure l'acutissima vista. Da allora la talpa vive nel cuore della terra, sola e cieca come un pezzo di legno. Ogni tanto talpe e grilli si incontrano nelle profondità del terreno. Si parlano e si stringono la mano perché i grilli non serbano alcun rancore. Il camoscio Nei tempi antichi il camoscio aveva le corna dritte, lunghe e sottili a mò di fusi. Il corpo, invece, era perfettamente uguale a oggi. Spericolato, agile e forte come nessun animale dei monti, scorrazzava lungo le rocce con balzi e scatti che ricordavano bagliori di saetta. Succedeva però che, proprio in virtù del suo estremo coraggio, gli capitassero parecchi incidenti. Molti camosci morivano cadendo dalle crode o scivolando sui ghiacci dei pendii congelati dall'inverno. E anche le femmine erano ugualmente spericolate e coraggiose. Spesso più dei maschi. Capitò che un tiepido maggio una camoscina alla sua prima maternità dette alla luce due bei cuccioletti. Cosa rara due, di solito ne fanno uno solo. La mamma era molto felice dei suoi piccoli e, quando non li allattava o faceva loro il bagno con tenere leccate, saltava qua e là lungo le creste come una farfalla. Un giorno, mentre tornava dai figli sfrecciando lungo una cresta di rocce verticali, scivolò e iniziò a precipitare. L'ultimo pensiero andò ai suoi cuccioli. "Moriranno di fame" pensò. Uno strazio infinito le graffiò il cuore. Non aveva paura di morire, voleva vivere ancora un poco per tirarli grandicelli. Il Signore andò in suo aiuto. Improvvisamente la camoscina si trovò ferma sospesa nel vuoto. Le sue corna si erano piegate all'indietro come uncini d'acciaio che, agganciandosi alla roccia, ne avevano arrestato la caduta. Da quel giorno i camosci nacquero con le corna curve all'indietro e ne morirono molti di meno per capitomboli. Il Picchio crodaiolo Il picchio crodaiolo, un uccellino che sta sempre attaccato alle rocce, era un ragazzino di dieci anni, con capelli rossi e lentiggini. Figlio di pastori, viveva con papà e mamma in una baita, al cospetto di guglie altissime dorate dal sole e pascoli verdi dove l'intenso profumo delle nigritelle dominava su tutti gli altri fiori. Ma a lui le nigritelle non piacevano molto. Le annusava con diletto perché sanno di cioccolato, ma il suo fiore preferito era la stella alpina. Per cercarle e coglierle, aveva imparato a destreggiarsi sulle rocce al pari di un camoscio. Bisogna sapere che in tutte le cose della terra vi è sempre un esemplare che sovrasta i suoi simili per dimensioni e bellezza. Le stelle alpine non fanno eccezione. Esiste infatti quella che viene chiamata, non senza una certa pompa,, la regina. E fu proprio per cogliere una regina che il ragazzino scivolò e andò a sfracellarsi ai piedi delle rocce sul retro della baita, sotto gli occhi atterriti dei genitori. Lo seppellirono lassù, tra due larici, vicino alla sorgente dove di notte andava a specchiarsi la luna. La mamma non riusciva a darsi pace, sfioriva giorno dopo giorno. Voleva lasciarsi morire perché senza il suo piccolo la vita le era diventata un peso. Il marito, guardando in alto, chiese al Signore un aiuto. «Facci vedere nostro figlio qualche volta, mandaci un suo segnale.» Un mattino dell'estate successiva i genitori trovarono una regina sul davanzale della finestra. E un'altra tre giorni dopo, e altre nelle settimane che seguirono. Una sera decisero di attendere dietro al balcone per scoprire chi fosse il misterioso personaggio che depositava stelle alpine sulla finestra. E lo videro. Era un picchio bellissimo, con macchie rosse e lentiggini. La posò e se ne volò via. Lo seguirono con lo sguardo. Andò ad attaccarsi alla roccia dietro casa e non si mosse. Venne buio e sparì. Passarono gli anni. Marito e moglie erano diventati vecchi. Non ci badavano quasi più alla stella alpina regina che ogni tanto nei giorni d'estate trovavano sul davanzale. La pernice delle nevi e la lepre alpina La pernice delle nevi o pernice bianca, e la lepre alpina o lepre bianca all'inizio del mondo erano marron scuro con striature nere. A questo punto viene da chiedersi: "Ma allora il Signore aveva sbagliato parecchie cose durante i giorni della creazione?" No. Ma siccome doveva terminare tutto nel breve giro di una settimana, gli scappò qualche imperfezione che corresse col tempo, a seconda delle necessità. Anche noi, infatti, camminavamo a quattro zampe finché non ci fece mettere in piedi. Con il loro colore marron scuro, le pernici e le lepri di monte quando stavano sulla neve erano un pugno in un occhio. Venivano notate da tutti. I predatori le cacciavano con facilità; erano macchia d'inchiostro su foglio bianco. Le aquile ne facevano incetta. Soprattutto dopo che il Signore le aveva punite e il loro becco era diventato curvo. Con quel rostro pescavano lepri e pernici come trote all'amo. Ma il pericolo numero uno era la martora. Con facilità individuava sul lenzuolo di neve la pernice o la lepre e ZAC, con un tuffo le ghermiva. Il Signore capì che andando avanti così si sarebbero estinte. Allora fece in modo che, nei mesi invernali, il pelo della lepre diventasse candido come la neve e anche il piumaggio della pernice. La martora fu messa in difficoltà perché non riusciva più a individuarle. E così l'aquila. Lepri e pernici ridevano in silenzio quando il martorél (la martora) passava loro accanto a mezzo metro e non le vedeva, e come un perfetto tonto tirava dritto. Il gallo cedrone A differenza del forcello, IL cedrone, ai suoi tempi, aveva un canto stupendo. Stava sui larici, nei mesi di marzo e aprile, al limitare di magiche radure assieme agli spiriti dei boschi. Quando ancora l'alba non aveva cacciato la notte tirandola per i capelli per prendere il suo posto, liberava il suo canto strepitoso. Le cedrone lo sentivano e correvano da lui che, superbo maschilista, ne sceglieva una, la più bella, e cacciava le altre a beccate. L'urogallo prendeva sovente in giro il forcello perché aveva, poveraccio, un canto triste. Gli diventò così per malinconia quando il Signore lo punì piegandogli la coda. Il cedrone non solo prendeva in giro il forcello ma ce l'aveva pure con gli uomini del bosco che disturbavano il suo canto. Infatti al mattino presto, quando faceva ancora buio, i boscaioli spezzavano rami e frasche per accendere i fuochi. Li rompevano con le mani provocando il caratteristico tac, tac, che disturbava il re delle selve. Il quale per vendicarsi rilasciava sulle teste degli ignari uomini i suoi escrementi. Il Signore si stufò e per dargli una lezione cosa fece? Tramutò il suo canto lunare melodioso e magico nel rumore che i laboriosi uomini facevano quando rompevano rami e frasche. Da allora il gallo cedrone canta spaccando legna TAC, TAC, TRA- TAC. così ebbe un po'"di soddisfazione anche il forcello, ma non gli uomini del bosco, che continuarono a ricevere escrementi sulle teste. Il Riccio All'inizio il riccio era liscio e roseo come un porcellino appena nato. Era anche molto piccolo. Da adulto pareva un pugno chiuso. Di animo buono e dolce, non conosceva malizia alcuna e, a volte, come succede agli uomini, quelle sue belle caratteristiche venivano scambiate per stupidità. In pratica era un po'"lo scemo del villaggio, nel nostro caso del bosco. E, come sovente accade nelle scuole, dove bambini timidi e sensibili vengono maltrattati e malmenati dai bulletti di turno, anche il riccio pagava la sua dolcezza. Ogni volta che qualcuno lo incontrava lo spintonava, lo derideva, gli rubava la merenda, gli dava pacche sulla schiena e, non di rado, anche schiaffi in testa. Il riccio sopportava, cercava amicizia, perdonava. Ma dentro di sé era triste e un poco anche spaventato. Non capiva il motivo di tanta cattiveria. Era successo addirittura che un giorno il barbagianni avesse tentato di beccarlo di brutto per puro divertimento. Il riccio si salvò infilandosi sotto un sasso e si graffiò la schiena. A quel punto il Signore intervenne. Ogni volta che qualche maleducato strafottente gli tirava una pacca o peggio uno schiaffo, al riccio spuntavano immediatamente sul corpo migliaia di aculei pungenti. E il violento di turno riceveva la paga. Ma era fastidioso sentir uscire tante volte gli aculei, perché gli scherzi di mano erano parecchi. Allora il Signore decise di lasciarglieli addosso per sempre. Ora, con quella corazza, il riccio sembra un animale spaventoso ma, se lo guardate da vicino, ha occhi buoni e dolci. Il cervo volante Il cervo volante, lo splendido scarabeo nero, dotato di lunghe chele ramificate e curve verso l'interno, nella notte dei tempi era un cervo normale, come quelli che passeggiano nei boschi e bramiscono alla luna di settembre per trovare una compagna. Quello di cui ci occupiamo era un esemplare stupendo, enorme, dotato di corna a venti punte. Voleva vincere tutte le battaglie e ne aveva le capacità. Nelle risse per il possesso del territorio non vi era maschio che potesse tenergli testa. Li stendeva tutti. Ce l'aveva soprattutto con quelli grandi come lui perché erano forti, e temeva lo scalzassero dal trono. Con essi diventava spietato. Li massacrava di botte spaccando loro i palchi, azzoppandoli e spesso accecandoli con l'ultimo uncino delle corna. Gli esemplari più piccoli invece li risparmiava perché non rappresentavano un pericolo. Solo ogni tanto li faceva correre con qualche cornata. «Il più grande sono io» soleva dire liberando un possente bramito. Quando s'accorse che aveva superato ogni limite, il Signore intervenne e lo chiamò a rapporto. ««La devi smettere o dovrò fare qualcosa» lo ammoni. «Non smetto un bel niente» rispose lui con arroganza. ««Voi mi avete fatto così, grande, grosso, e forte. Sono il più grande, il più grosso e il più forte e tale rimango.» A quelle parole il Signore lo trasformò in un insetto lungo poco più di cinque centimetri corna comprese. Dopo una settimana il cervo- insetto tornò dal Signore pesto e sanguinante e gli disse: ««Tutti mi calpestano, sono troppo piccolo, rischio la pelle, non chiedo di tornare come prima, ma se mi aiutate un poco farò il bravo.» Allora il Signore, mosso a pietà, gli fornì un paio di ali in modo che potesse librarsi nell'aria onde evitare di essere travolto da tutti. Da quel giorno quello splendido scarabeo si chiama cervo volante. L'allocco L'allocco era, ed è, l'intellettuale del bosco. Studente modello fin da piccolo, aveva accumulato nel tempo una cultura vastissima. Sapeva di economia, legge, letteratura, chimica, scienze naturali, biologia, medicina, astrologia. Insomma era ferrato in tutto e, non da ultimo, se ne intendeva di lavori manuali, agricoltura e artigianato. Va da sé che a uno così tutti rompessero le scatole. Chi gli chiedeva consigli, chi una consulenza, chi dei favori, un intervento per raccomandare il figlio o se stesso. Siccome non stava male nemmeno nel portafoglio, alcuni giungevano persino a domandargli soldi. Aveva uno sguardo talmente bello, intelligente, profondo e misterioso, che gli animali pensarono potesse anche fare miracoli. Un asino arrivò a chiedergli se poteva trasformarlo in un uomo. «Questo non mi è possibile» rispose l'allocco «eri già uomo, devi chiedere più in alto come mai sei diventato asino.» Tutte le notti lo tartassavano di richieste. Si giunse persino a disturbarlo di giorno, trascinandolo alla luce del sole, quando se ne stava beatamente a leggere nel buio di un albero cavo. Occorre sapere che i rapaci notturni leggono al buio. Alla fine si stancò e chiese un rimedio al Signore. «Ti prego, Signore, fammi diventare rimbambito.» «Guarda la tivù e lo diventerai» rispose il Creatore. «No, con la tivù ci vuole un po'"di tempo, io voglio diventarlo subito.» Allora il Signore gli regalò la faccia più ottusa e rimbambita che esista sulla Terra. Da quel giorno, nessuno disturbò più l'allocco perché lo pensarono rimbecillito di colpo. Ai giorni nostri, uno tonto o sempliciotto si usa chiamarlo allocco ma è sbagliato. Nonostante l'aspetto, l'allocco conserva intatto tutto il suo sapere. La lucertola La lucertola è rimasta tale e quale fin dai tempi remoti. Una bestiolina dolce e timida, amante del sole, molto veloce ed eccezionale rocciatrice. Può scalare qualsiasi superficie verticale e, se prende velocità, anche una lastra di vetro. Ma non uno specchio. Perché? Perché nello specchio vede se stessa e ha paura di essere presa per la coda. È una storia vecchia che merita di essere ricordata, perché la lucertola una piccola modifica l'ha subita subito dopo la creazione del mondo. Fu, come al solito, nostro Signore a darle una sistemata. Nonostante la sua velocità, infatti, parecchi predatori la catturavano per mangiarsela. E questo era logico, naturale. Ma molti, ad esempio i gatti, la prendevano per la coda con il puro scopo di maltrattarla, o giocarci finché era sfinita. O, peggio ancora, per ucciderla come facevano certi bambini terribili che non amavano gli animali. La lucertola cercava di fuggire rintanandosi nei buchi dei muri o nelle pietraie, ma vi era sempre qualcuno più veloce che riusciva ad afferrarla per la coda e tirarla fuori. Ha una coda molto lunga e, prima che fosse scomparsa del tutto, riuscivano a bloccarla. Lei opponeva le zampette, cercava di resistere con tutte le sue forze ma non c'era verso. Tirandole la coda come uno spago la estraevano con facilità. Disperata, la lucertola si rivolse al Creatore. «Ci penso io» disse il Signore. E fece si che la coda della lucertola diventasse fragile come cipria. Non appena qualcuno gliela tirava gli rimaneva in mano lasciandolo con un palmo di naso. In questo modo nessuno poté più tirar fuori dal buco le lucertole. Tiravano fuori solo un pezzetto di coda. E la lucertola fu salva e felice perché il moncone si rimarginava immediatamente e senza alcun dolore. Il ramarro Il ramarro all'inizio era grigio, come la lucertola, ma molto più grande, quasi il doppio. Anch'egli ama il sole, ma preferisce stendersi nei roveti che non sulle pietraie roventi. Un giorno il ramarro, quando era ancora grigio, se ne stava beato e tranquillo sulla radice affiorante di un carpino. Aveva appena smesso di piovere a secchiate. C'era stato un temporale di quelli potenti che annunciano l'estate. Dopo la sfuriata il sole aveva fatto capolino riscaldando l'aria e originando un arcobaleno così bello e
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