Giovanni Paoletti Si Andersen fusse perugino 9 novelle di Hans C. Andersen tradotte in lingua perugina e in italiano moderno Illustrazioni di Cristiano Schiavolini Voce narrante del CD Mariella Chiarini Copertina: illustrazione di Cristiano Schiavolini Tecnico audio: Alberto Isidori isbn/ean: 978-88-6074-580-4 © 2013 copyright by Morlacchi Editore, Perugia. Tutti i diritti riservati. È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, non autorizzata. [email protected] | www.morlacchilibri.com Stampato nel mese di settembre 2013 presso Digital Print-Service, Segrate, Milano. Indice Prefazione 7 Perché Andersen e perché in lingua perugina? 13 Note editoriali 17 SI ANDERSEN FUSSE PERUGINO L soldatìn de stagno senza paura 19 L’intrepido soldatino di stagno 25 L vestito nóvo de lo Mperatore 31 Il vestito nuovo dell’Imperatore 37 La machìna brutta del Tévre 43 Il brutto anatroccolo del Tevere 57 Quil ch(e) fa l babo è sempr(e) fatt’al verzo 71 Quel che fa il babbo è sempre ben fatto 78 La Cinina dî zzolfìne 85 La piccina dei fiammiferi 89 La Principessa sopre l pisello 93 La principessa sul pisello 95 Vero, me pijasse n colpo si nn è vero! 97 Vero verissimo! 101 N cinino ditto “Tèto” 105 Il piccolo Tèto 112 Cinque ntón bacéllo 119 Cinque in un baccello 124 Prefazione Di solito si traduce per far conoscere un autore e le sue opere a lettori di una lingua diversa da quella in cui si è scritto; il più delle volte da una lingua ad un’altra, talora da un dialetto ad una lingua: in questi casi si è spinti quasi sempre dal voler raggiungere un pubblico più vasto, andando oltre le angustie comunicative del codice locale. Più raramente assistiamo ad operazioni inverse, ovvero al tra- durre da una lingua ad un dialetto: e qui le motivazioni possono essere varie. C’è chi lo fa per diletto e magari si cimenta con i libri “immor- tali”: penso alle traduzioni della Bibbia e dei Vangeli, alle favole di Esopo e di Fedro, alla Divina Commedia nei vari dialetti italiani ed altro ancora. Per stare nel nostro ambito linguistico territoriale, cito i lavori di Ennio Cricco in magionese-perugino, almeno l’Inferno dantesco, alcune novelle del Boccaccio ed i Fioretti di san Francesco. Altri, sulla strada dello sperimentalismo, della ricerca e della sfi- da, si misurano con certe pratiche letterarie per saggiare le poten- zialità espressive -a volte residue- di codici con bagagli lessicali ri- stretti (spesso connotati da una penuria di aggettivazione e di nomi astratti, che almeno in poesia sono essenziali) e testarne gli esiti a fini artistico-espressivi. In taluni casi, più che di traduzioni letterali, si tratta di traduzioni libere, adattamenti, rifacimenti più o meno fedeli ai testi. Questo anche nei casi, non infrequenti, di traduzioni da traduzioni, quando, per passare dalla lingua originale al dialet- to, si passa per la versione italiana del testo. È ciò che fa Giovanni Paoletti, che ha voluto misurarsi con An- dersen ed alcune delle sue novelle più famose. Confesso di aver stentato a capire il senso profondo di un’opera- 7 Giovanni Paoletti zione di cui mi sfuggivano tutti i contorni. Perché l’autore danese in dialetto perugino? Nei lunghi colloqui telefonici e diretti con l’A. ho anche cercato intenzionalmente di recitare la parte dell’avvocato del diavolo, per la paura che si trattasse di un’operazione estemporanea ed alla fin fine inutile, se non dannosa, come purtroppo molte altre, per la credibilità (a fini letterari, beninteso) del nostro dialetto. Finalmente ogni cosa mi si è chiarita, con grande sollievo debbo dire, essendoci in palio proprio queste righe ed un rapporto ami- cale consolidato. Infatti Giovanni nella sua nota introduttiva ci spiega persuasiva- mente le sue scelte. Dice che l’uso del dialetto è quello di “una forma espressiva ca- pace di farsi di nuovo motore di creatività e al tempo stesso ponte con la nostra identità storica e culturale”, sottolineando gli aspetti più dinamici e creativi di un mezzo linguistico a tutt’oggi ad alto potenziale espressivo che merita di essere conosciuto (quanto al suo uso reale è compito di linguisti e dialettologi delinearne il campo, i suoi impieghi e le sue variazioni). Destinatarie naturalmente prime di un lavoro simile sono le nuo- ve generazioni, perché si riapproprino di un’identità storico-cul- turale spesso ignorata quando non colpevolmente delegittimata (e qui penso al lungo ostracismo scolastico nei confronti dei dialetti, oggi in via di superamento in un’ottica sociolinguisticamente più matura e consapevole). L’A. lo scrive in maniera convinta nella stessa presentazione, e non si può che essere d’accordo con lui. Coloro che intende avvicinare al dialetto perugino, in una ma- niera piacevole, ma sicuramente diversa da quelle facilistiche e ri- danciane che non danno alle lingue locali dignità e spessore, sono in primo luogo i giovani, perché conoscano questo bene culturale immateriale nella sua complessa dinamicità. Ma il motivo profondo che ha spinto Giovanni ad un lavoro simile va a mio parere ricercato nel suo legame con la madre ed il 8 Si Andersen fusse perugino ricco patrimonio di oralità di cui era depositaria. Un patrimonio di espressività popolare (profàcole, conte, ninne nanne, indovinelli, proverbi, modi di dire, detti, ecc.) che ha come solido retroterra lin- guistico il dialetto, un dialetto perugino nella variante meridionale del Pian del Tevere come era parlato fino ai primi anni del secondo dopoguerra da una comunità agricolo-artigiana oggi scomparsa. Ed è a quel dialetto che il figlio ricorre, per pagare una sorta di riconoscente tributo affettivo a chi glielo ha trasmesso, con la consapevolezza di appartenere forse all’ ultima generazione che di quel dialetto ha una competenza per così dire “totale”, attiva e passiva. Più che dei meriti artistico espressivi -che la consuetudine con l’A. mi potrebbe far vedere in maniera distorta- vorrei soffermarmi su quelli linguistici del lavoro. Innanzitutto con la traduzione di queste novelle siamo di fronte ad un corpus in dialetto perugino di una certa entità. Se i sentieri della poesia che usa il medesimo codice sono oggi molto (fin troppo!) frequentati, non succede la stessa cosa per la prosa, che richiede una migliore competenza del mezzo linguisti- co usato, soprattutto sul piano morfosintattico, oltre che su quello lessicale. Si tratta di un’operazione possibile solo a chi ha avuto il dialetto come lingua materna esclusiva: è appunto il caso di Giovanni, che con questo lavoro ci consegna uno spaccato di prosa narrativa le- gata indissolubilmente all’oralità che ha pochi riscontri dalle nostre parti (linguistiche). Siamo di fronte a tutt’oggi ad una delle ultime testimonianze compiute e non frammentarie di una lingua che non c’è più, perché si è naturalmente evoluta italianizzandosi. In occasione della presentazione del volume di poesie di Gian Paolo Migliarini e Giovanni Paoletti Nati nzieme ma ognuno ncol su verzo (Morlacchi editore, Perugia 2009), ho definito Giovanni “po- eta in corso”, ovvero una persona con delle potenzialità ancora da mettere in campo, passando attraverso un tirocinio lungo e rigoro- so. In questa sede sarei tentato di definirlo tout court “scrittore in 9 Giovanni Paoletti corso”, invitandolo provocatoriamente, perché è nelle sue corde, ad un lavoro di ricerca sulle favole e sull’oralità nella sua area lin- guistica d’origine. Nel momento in cui scrivo queste note sono venuto a conoscen- za dell’imminente pubblicazione di altri lavori su questo argomen- to; non credo peraltro che ci possano essere sovrapposizioni in que- ste operazioni di scavo e di recupero di segmenti di memoria legati all’oralità che, nel corso degli anni, soprattutto a scuola nel mio lavoro di insegnante, anch’io ho affrontato. Allora sotto la spinta di un concorso sulla fiaba umbra ideato e voluto dal compianto professor Giovanni Moretti, titolare della cattedra di Dialettologia all’Università di Perugia. Credo che profàcole come Ciuflino/Ciuflancanestro, Penciomatto, La Maria de legno, Petrosinella/Prezzemolina e molte altre ancora, con le loro numerose varianti e che appartengono alla nostra infanzia me- ritino di essere conosciute e diffuse. Ed allora: buon lavoro Giovanni, se ti intriga metterti in cam- mino su queste stimolanti piste di ricerca e di scrittura dialettale! Walter Pilini Perugia 21/08/2012 10 Si Andersen fusse perugino Perché Andersen e perché in lingua perugina? Questa idea nasce molti anni fa, quando non potevo nemmeno lontanamente immaginare che una pubblicazione come que- sta si sarebbe potuta realizzare. L’idea di tradurre le novelle di Andersen non è una recente tro- vata legata alla vorticosa serie di iniziative legate al dialetto che stanno attraversando Perugia, grazie soprattutto all’apparizione dell’Accademia del Donca. Infatti il mio primo esperimento di traduzione di Andersen è avvenuto circa venti anni fa quando mia madre Rina Gatti, presa dalla passione per la scrittura, mi faceva leggere i suoi manoscrit- ti, suscitandomi il desiderio di riscoprire il nostro dialetto, la mia seconda lingua madre, che fin lì avevo accuratamente allontanato. Durante i miei tentativi di scrittura in dialetto mi imbattei in una delle prime traduzioni in italiano delle novelle di Andersen, probabilmente la più fedele al testo originale, e rimasi colpito dalla fantasia, dalla profondità, dall’intelligenza e dall’apparente inge- nua semplicità di quei racconti che è arduo definire per bambini. Inoltre le ambientazioni erano per lo più in campagna e le situa- zioni, le pene, le descrizioni di vita assomigliavano in modo straor- dinario ai ricordi che Rina stava cominciando a mettere su carta, rievocando l’infanzia di una piccola contadina umbra dei primi del novecento, preparando il materiale per quello straordinario libro che, dieci anni dopo, sarà pubblicato col titolo: “Stanze Vuote” (Aguaplano Edizioni - 2013). Niente di più naturale quindi del parallelo che il mio pensiero fece tra la campagna umbra e la campagna danese, in fondo poi Andersen era morto solo 48 anni prima che Rina nascesse e in una società immutabile come quella contadina 48 anni sono una breve 11 Giovanni Paoletti stagione. Considerando poi la casualità con la quale si distribuiscono geo- graficamente i talenti, e mia madre Rina ne è una prova, perché non pensare che solo il caso aveva fatto nascere Andersen a Odense? Lo stesso caso avrebbe potuto invece farlo nascere a Pontenuo- vo, come Rina, e in quel caso Giovanni Cristiano Andersen avrebbe parlato il dialetto della piana del Tevere invece che quello dell’isola di Fionia. Se così fosse stato, il brutto anatroccolo avrebbe nuotato nell’ac- qua del Tevere e avrebbe vissuto le sue avventure tra le folte macchie di pioppi, acacie, olmi, salici e sambuchi che coprono le sponde dove il Chiascio ed il Tevere si incontrano alle spalle di Torgiano. Devo poi riconoscere che le novelle di Andersen reperibili nelle varie versioni, abbondantemente e spesso eccessivamente illustrate, sono molto rimaneggiate e alleggerite. Le trame e la struttura sono ridotte all’essenziale se non decisamente “scarnificate” e i passaggi di commento e di riflessione, che sono tipici della letteratura ottocen- tesca e che Andersen intercalava alla narrazione, sono spesso quasi completamente cancellati. Queste versioni alleggerite non si sarebbero offerte per la tradu- zione in lingua perugina con la stessa aderenza, immediatezza, sem- plicità e resa che invece mi è parso di ottenere grazie al recupero dei testi di fine ottocento così fedeli agli originali. La bellezza di queste novelle, e quelle che conosciamo sono dav- vero poche perché Andersen ne ha scritte 156, sta proprio nel fatto che, contrariamente a quello che si può pensare, non sono fiabe per bambini: sono veri e propri racconti adatti a tutte le età. La dimensione fantastica, l’apporto della magia sono scelte del tutto funzionali al racconto, mai fine a se stesse, e perfettamente compatibili con il grado di comprensione del mondo e dei fenomeni che poteva esserci nelle povere campagne di Danimarca così come in quelle dell’Italia centrale. Anche Rina racconta delle streghe che frequentavano di notte le case contadine e quei racconti, quelle vi- site di spiriti avvenivano ben un secolo dopo quelle che racconta lo 12
Description: