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Sergio Caruso, «Amartya Sen: la filosofia politica», - Archivio Marini PDF

40 Pages·2013·0.55 MB·Italian
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Preview Sergio Caruso, «Amartya Sen: la filosofia politica», - Archivio Marini

Sergio Caruso AMARTYA SEN : LA FILOSOFIA POLITICA Una versione di poco diversa del presente saggio è stata pubblicata come segue: Sergio Caruso, «Amartya Sen: la speranza di un mondo “migliorabile”», in: Amartya Sen: sviluppo come libertà [N° speciale dedicato al pensiero di Sen, a c. di Pier Luigi Tedeschi: Testimonianze, a. XLV, n° 3 (423), mag.- giu. 2002, pp. 58-86. Sergio Caruso, «Amartya Sen: la filosofia politica», p. 2 SOMMARIO 1. Sen, chi è? p. 3 2. Una certa idea di sviluppo: le fonti filosofiche 4 3. L’influenza del pragmatismo 6 4. L’utilitarismo e Stuart Mill 7 5. Una certa idea del “mercato” 8 6. Una certa idea della natura umana 10 7. La libertà come fine e come mezzo 10 8. Sen nel contesto filosofico-politico odierno 12 9. Il concetto di Well-being, fra utilitarismo e liberalismo 13 10. «Eliminare le principali fonti d’illibertà» 16 11. L’interdefinizione di sviluppo e libertà 17 12. La democrazia non è un lusso 18 13. Tre critiche della democrazia, le risposte di Sen 21 14. Multiculturalismo e rifondazione dei diritti umani 23 15. Sen in Italia 25 16. Appendice bibliografica 26 16.1. Gli scritti principali di Amartya Sen 26 (A) prime edizioni in inglese 26 (B) in italiano 34 16.2. Alcuni scritti su Amartya Sen 35 prima pubblicazione su: Testimonianze, 423 (2002), pp. 58-86 Sergio Caruso, «Amartya Sen: la filosofia politica», p. 3 Sen, chi è? Nella percezione corrente delle persone bene informate, Amartya Sen è un economista. Non fa una grinza: avendo ricevuto il Premio Nobel per l’economia, sarebbe difficile negarlo! Nella descrizione un po’ più sofisticata che ne forniscono le persone colte, e specialmente quelle fra loro che sono socialmente impegnate, Amartya Sen è anche un uomo del Terzo Mondo, nonché schietto democratico, che da anni si batte contro ogni genere di ostacoli frapposti - dall’interno o dall’esterno - al “decollo” dei Paesi poveri e, con eguale vigore ed eguale coerenza, a favore dei diritti umani ovunque essi appaiano violati. Insomma, un uomo “giusto” e, ciò più conta, “imparziale”. Il che neppure farebbe una grinza, se questa fama d’imparzialità (che tanto favorisce la sua autorità morale) non rischiasse di mettere in ombra lo spessore teorico dei suoi contributi e, perfino, di ritorcersi contro di lui. Quasi che il Premio Nobel gli sia stato assegnato solo perché, insomma, prima o poi “toccava all’India”; e perché, dovendo premiare un uomo del Terzo Mondo, meglio premiarne uno così legato al Primo (Sen è Master del Trinity College di Cambridge), e del tutto alieno da pregiudiziali ideologiche contro l’Occidente, piuttosto che un nemico dell’economia di mercato! La verità è che Amartya Sen è veramente un grande; e che - per importanti che siano le sue dottrine di economista e le sue qualità di uomo - la sensibilità di Sen, la sua capacità di pensare vanno ancora al di là di ciò. Sul piano pratico-politico così come su quello teoretico e lato sensu “culturale” (anzi, come vedremo, “interculturale”). Sul piano pratico-politico la sua decantata imparzialità non è mai stata un’ambigua equidistanza di principio. Più volte Sen ha saputo cantare forte e chiaro, sui palcoscenici giusti, canzoni che né le multinazionali, il FMI, i governi dell’Occidente (da un lato), né certi regimi non si sa se più tirannici o più incompetenti del Terzo Mondo (dall’altro) avrebbe voluto ascoltare. Ma non basta. Ho parlato di un livello “teoretico” dell’opera sua: aggettivo impegnativo (non bastava “teorico”?), eppure pienamente giustificato. Perché Sen appartiene alla nobile schiatta di coloro che ricercano un’economia “classica”. Non già nel senso riduttivamente dottrinale del termine; non perché io voglia collocarlo fra i neo-classici, cioè fra coloro che – ripartendo, come Smith e Ricardo, dal problema del “valore” - s’interrogano sulle condizioni di equilibrio del sistema economico in quanto tale. Anzi, interessato com’è al problema dello “sviluppo”, Sen sta certo più vicino - per quest’aspetto - a Keynes, Schumpeter e Galbraith che non, poniamo, ad Alfred Marshall o a Böhm-Bawerk. Non è questione di correnti né di appartenenze dottrinali. “Classico”, piuttosto, nel senso che Sen come i grandissimi, come i padri dell’economia politica, non cessa d’interrogarsi sullo statuto epistemologico e sulla funzione sociale della disciplina da lui professata: autonoma sì, ma non avulsa né interamente separabile dalle discipline contermini. “Economia politica” non è per Sen solo un modo di dire consacrato dalla tradizione accademica. L’economia ha da essere (ed è, nel suo approccio) davvero “politica” nel senso più alto (aristotelico) del termine. Naturalmente vocata al dialogo con la filosofia politica, essa chiede lumi e ne fornisce. Non tanto perché l’una, la filosofia, si occupi solo di fini e l’altra, l’economia, solo di mezzi; piuttosto, perché ambedue si occupano del rapporto tra mezzi e fini nella sfera politica, sia pure con tagli diversi, L’una, la prima pubblicazione su: Testimonianze, 423 (2002), pp. 58-86 Sergio Caruso, «Amartya Sen: la filosofia politica», p. 4 filosofia politica, con un taglio qualitativo, preoccupata della congruenza; l’altra, l’economia, con un taglio quantitativo, preoccupata del rendimento. Ma qualunque discorso politico sui fini (società giusta, vita buona), come pure sugli ordinamenti ad essi più favorevoli, sarebbe monco se fosse solo filosofico o solo economico. Diremo così, parafrasando Kant: che per Sen la filosofia politica senza economia è vuota; l’economia politica senza filosofia, cieca. Lo stesso rapporto di mutua implicazione vale d’altronde per la filosofia sociale e le scienze sociali in genere, economia compresa. Filosofia politica ed economia politica, filosofia sociale e scienze sociali convergono pertanto in quella che potremmo chiamare una “filosofia pubblica”. Di cui Ermanno Vitale indicava un’espressione matura già nel volume di Sen Inequality Reexamined (1992): un’opera che, lungi dal riguardare solo gli economisti, interpellava egualmente filosofi e sociologi, intellettuali e opinione pubblica (per non parlare dei politici di professione).1 L’economia politica cessa così d’essere, nelle mani di Sen, la più triste delle scienze sociali, la “scienza triste” per antonomasia (dismal science),2 tradizionalmente volta allo studio della scarsità e degli equilibri in condizioni di scarsità, per rivolgersi invece, secondo la classica lezione smithiana, allo studio congiunto della ricchezza - la “ricchezza delle nazioni”! - e di tutti gli assetti che la possono promuovere (l’improvement di Smith). Non è solo l’abbandono di un punto di vista statico per un punto di vista dinamico; non è solo il fatto di mettere al centro lo “sviluppo”. Sen non sarebbe in ciò il primo. E’ piuttosto la ritrovata consapevolezza che i sistemi chiusi non esistono; che i fattori esogeni non possono essere ignorati, neppure in prima approssimazione; che la prospettiva dello sviluppo non può essere l’angolazione specialistica di una singola materia detta “economia dello sviluppo”. Al di qua delle specializzazioni tematiche o geografiche, la prospettiva dello sviluppo costituisce per Sen la ragion d’essere e il cuore dell’economia politica, vuoi come scienza, vuoi per la funzione pubblica da cui non può esimersi. Ma tutte queste sarebbero solo belle parole, se Amartya Sen non avesse – come ha – la reale capacità di fare e proporre indagini così concepite. Il suo lavoro ha dimostrato che un’economia davvero “politica” è davvero possibile. Non solo. Che una disciplina così riconcepita può essere non meno, ma più rigorosa di prima, perfino sul terreno strettamente matematico. E che dalla crossed-fertilization tra filosofia politica ed economia politica, filosofia sociale e scienze sociali, tutti hanno da guadagnarci qualcosa. Una certa idea di sviluppo: le fonti filosofiche Nessun idealismo, dunque, sul piano filosofico. Più che alla Entwicklung hegeliana, obbediente a leggi di tipo storico-logico, lo “sviluppo” di Sen rassomiglia al 1 A. SEN, Inequality Reexamined, Clarendon Press, Oxford 1992; trad.it. La diseguaglianza: un riesame critico, Il Mulino, Bologna 1994. Cfr. E. VITALE, «Taylor, Habermas, Sen: multiculturalismo, stato di diritto e diseguaglianza», Teoria politica, XI, 3, 1995, pp. 82. 2 «Above all, Prof. Sen deserves the accolade for giving the “dismal science” of economics the humanist face of a universal moral philosophy». Sono parole di un articolista indiano, per celebrare il conferimento del Nobel all’illustre connazionale: «Sen and Sensibility», Times of India, 15 ottobre 1998. prima pubblicazione su: Testimonianze, 423 (2002), pp. 58-86 Sergio Caruso, «Amartya Sen: la filosofia politica», p. 5 “progresso” degli Illuministi; in particolare, all’idea che del progresso ebbero tre prìncipi dell’Illuminismo europeo: Smith, Condorcet e, per certi aspetti, Kant. Da Smith, Sen ricava l’idea di fondo: che tanto i sentimenti morali quanto gli interessi economici – insomma, ogni genere di propensioni “soggettive” da cui dipenda la nostra felicità – giungono a maturazione e possono trovare realizzazione solo a livello intersoggettivo. Perché l’uomo è un essere naturalmente vocato allo scambio – ogni genere di scambio, non solo economico – ed è solo nello scambio, nel vivo delle situazioni, che le cose assumono valore. Le situazioni, tuttavia, possono essere più o meno favorevoli: gli “assetti” (dice Sen) rendono le cose verso cui propendiamo più o meno raggiungibili, e più o meno soddisfacente l’uso finale. Anch’esse dunque devono essere indagate. Ci sono pertanto tre livelli di analisi: quello soggettivo delle propensioni, quello intersoggettivo degli scambi e quello oggettivo degli assetti. Per Adam Smith, nella seconda metà del Settecento, la political oeconomy faceva parte di un progetto più vasto, detto moral philosophy. Amartya Sen rilancia questo progetto, con gli strumenti d’indagine del XX, anzi del XXI secolo. Di Smith, inoltre, Sen apprezza l’atteggiamento di fondo: quella ch’egli stesso chiama la concezione «dolce» dello sviluppo economico, di contro alle concezioni «feroci» di esso; la fiducia che i processi di sviluppo, benché possano non essere rose e fiori, neppure abbiano da essere necessariamente “lacrime e sangue” (SèL, pp. 40-41).3 Da Condorcet, autore a lui carissimo, Sen mutua una immagine tridimensionale e cumulativa del progresso (sorretto dal circolo virtuoso delle tre dimensioni: economico- politico-morale), ma anche l’idea che queste “dimensioni” vadano propriamente intese come possibilità di misura del progresso; più generalmente parlando, l’idea che la matematica sia applicabile alle scienze sociali: non solo come calcolo dei mezzi, ma anche – entro certi limiti - come calcolo dei fini (almeno in termini di vantaggi comparativi sul piano collettivo).4 Condorcet tentò, fra l’altro, di far discendere l’idea roussoviana di “volontà generale” dai cieli della metafisica sulla terra delle nozioni operative, elaborando a tal fine tecniche elettorali intese ad accrescere il carico d’informazione espresso nel voto e algoritmi intesi a rendere rappresentabili, e decidibili senza contraddizione, le preferenze in campo.5 E bisogna pur dire (Sen per primo lo ammette) che il contributo di Sen alla teoria della decisione razionale e della scelta collettiva (fra le motivazioni del Premio Nobel) non sarebbe forse stato quello che è, se la sua terza moglie, Emma Rothschild, un’appassionata studiosa del pensiero di Condorcet, non gli avesse trasmesso un peculiare interesse per il filosofo francese.6 Della cui visione del futuro – pure questo ricordato – faceva parte integrante la progressiva diminuzione delle differenze economiche non solo fra le classi, ma fra le nazioni (e qui, davvero, progrès e development procedono a braccetto). Da Kant, Sen mutua la concezione del “progresso” come idea regolativa: non fatale né garantita, bensì “possibile” e sì “necessaria”, ma solo nel senso morale di questo 3 A. SEN, Development as Freedom, A. Knopf, New York 1999; trad.it. Lo sviluppo è libertà, Mondadori, Milano 2000 (d’ora in poi cit. come SèL). A questo volume mi rifaccio principalmente nel presente articolo, salvo che non sia diversamente indicato. 4 Cfr. V. COLLINA, «Matematica sociale, politica e utopia in Condorcet», in: S. CARUSO, V. COLLINA, C. DE BONI, Numeri e politica, Facoltà di scienze politiche “C. Alfieri”, Firenze 1988, pp. 65-111. 5 Cfr. C. DE BONI, Condorcet. L’“Esprit Général” nella Rivoluzione francese, Bulzoni, Roma 1989. 6 Ce lo dice lui stesso nell’autobiografia scritta per il website dei premi Nobel, predisposto dall’Accademia di Svezia: http://www.nobel.se/economics/laureates/1998/sen-autobio.html. prima pubblicazione su: Testimonianze, 423 (2002), pp. 58-86 Sergio Caruso, «Amartya Sen: la filosofia politica», p. 6 termine. Nella speranza di un mondo migliorabile, ma non asintoticamente “perfettibile” nel senso di Condorcet; tanto meno raggiungibilmente “perfetto”, nel senso degli utopisti. Queste sono le fonti principali – nell’ordine filosofico, naturalmente – che ispirano la concezione seniana dello sviluppo come progresso multilaterale. Ad esse tuttavia bisogna aggiungerne almeno un’altra, cioè il pragmatismo americano. L’influenza del pragmatismo Per quanto riguarda le influenze del pragmatismo americano, occorre dire che l’idea seniana di Well-being (su cui ritorneremo), appare vicina – sul piano filosofico-sociale – al meliorism di William James e – sul piano epistemologico – allo strumentalismo di John Dewey. Il meliorismo jamesiano, va ricordato, è una filosofia dell’unificazione progressiva dell’umanità, un’etica per il genere umano: in bilico fra realismo e pessimismo da un lato, idealismo e ottimismo dall’altro. Dobbiamo infatti riconoscere l’inguaribile pluralità degli enti e l’irriducibile pluralismo del mondo morale, ma proprio perciò – dice James - perché il mondo non ha una compattezza granitica, siamo in grado, come enti indipendenti, di agire su di esso per modificarlo e siamo liberi, come individui, di correggere le imperfezioni e di superare, almeno parzialmente, le discontinuità tra valori. Di nuovo un’idea regolativa del progresso “possibile”: neo-kantiana, si direbbe, se questa etica per il genere umano non fosse affidata dallo stesso James piuttosto alla «volontà di credere», che non alla ragione, e se non richiedesse – a suo dire – la «fede in un dio finito» (inteso come coscienza sovrumana del mondo, ma non esterno ad esso). Concezione – mi piace sottolinearlo - non troppo dissimile da quella cultura indiana donde Sen proviene e che mai ha rinnegato (anzi, spesso orgogliosamente rivendicato). Nella quale cultura pure, come nel pragmatismo jamesiano, il mondo e gli oggetti non sono, ma divengono, e ogni coscienza li rispecchia in maniera diversa; salvo correggere questo empirismo radicale sul piano metafisico, col credere ogni coscienza umana frammento di una coscienza universale (di cui le molte immagini del divino presenti nel pantheon induista costituiscono gli “aspetti” principali)! Per quanto riguarda poi l’altro grande del pragmatismo americano, John Dewey, è significativo che l’idea stessa di Well-being, centrale nel pensiero di Sen, sia stata da questi rielaborata e messa a punto proprio in occasione delle “Dewey Lectures”, che era stato invitato a tenere in America nel 1985.7 Aristotele analizzava la natura umana in termini di “facoltà”. E’ sulle orme dello strumentalismo di Dewey che Sen parla invece di functionings, e di capabilities che li rendono “operativi”. Ma functionings e capabilities, per fare che? L’utilitarismo insisteva sulla ricerca della felicità intesa come massimizzazione del piacere e minimizzazione del dolore. Da questo punto di vista, psicologico-morale e filosofico- morale, Amartya Sen si colloca ancora, per vari aspetti, sulla linea Bentham-Mill, però al di là di entrambi. Nei paraggi di Dewey, appunto. Infatti: egli condivide la famosa 7 Cfr. A.K. SEN, «Well-being, agency and freedom: The Dewey Lectures 1984», Journal of Philosophy, 82, April 1985. prima pubblicazione su: Testimonianze, 423 (2002), pp. 58-86 Sergio Caruso, «Amartya Sen: la filosofia politica», p. 7 critica di John Stuart Mill all’utilitarismo benthamiano (meglio essere un Socrate insoddisfatto che un maiale soddisfatto), ma solo in parte; e non tanto nel senso stuart- milliano che convenga distinguere fra “piaceri inferiori” e “piaceri superiori”. Comunque sia, il “piacere” (rapporto parziale col singolo oggetto del desiderio nel momento della fruizione) non è – spiegava Dewey - la stessa cosa della “felicità”. Neppure quando si tratti di piaceri qualitativamente elevati. La felicità è piuttosto un sentimento che coinvolge l’interezza del self, nella pluralità dei suoi aspetti. Senza contare che gli stessi desideri da cui siamo mossi sono condizionati dalle istituzioni; onde l’enfasi di John Dewey sull’autonomia dell’individuo e su tutte le circostanze che possono indebolirla o, come l’educazione, rinforzarla.8 Preoccupazione che Sen condivide. Chiunque può vivere una vita abbastanza piacevole, se circondato di generici piaceri; ma solo chi – sorretto dall’educazione – riesce a collegare i vari aspetti di sé in una sorta di progetto, solo chi riconosce - nell’adempimento di certi desideri - valori che lo riguardano da vicino e personalmente, solo quegli può essere ragionevolmente felice. Dobbiamo dunque – ed è questo il compito numero uno di ogni sviluppo – mettere mano ad abolire o minimizzare i dolori evitabili (nell’apprezzamento dei quali tutti gli uomini e tutte le donne del pianeta sono molto simili); ma dobbiamo anche – ed è compito di pari importanza – creare condizioni favorevoli alla self-realization. Sen non dà particolare rilievo a questa espressione (preferisce quella di human development), ma l’idea di fondo è più o meno quella. E’ non solo più giusto, ma più facile ed economico - per Sen - aiutare le persone a essere felici che non garantire a tutti una vita “piacevole”! L’utilitarismo e Stuart Mill Dicevamo: Amartya Sen si colloca ancora per certi aspetti sulla linea Bentham-Mill, però al di là di entrambi. In effetti, egli condivide la famosa critica di John Stuart Mill all’utilitarismo benthamiano (meglio essere un Socrate insoddisfatto che un maiale soddisfatto), ma solo in parte; e non tanto nel senso stuart-milliano che convenga distinguere fra “piaceri inferiori” e “piaceri superiori”. In realtà, Sen vuole recuperare talune ragioni di fondo dell’utilitarismo (l’importanza decisiva delle preferenze soggettive, la misurabilità delle situazioni); e, per certi aspetti, la sua econometria evolve dal felicific calculus di Bentham. A condizione però - lo si è visto - di ridefinire “la maggior felicità del maggior numero”, come pure la soddisfazione del singolo, in termini diversi dal mero “piacere” in actu: piuttosto, in termini di «capacitazioni» collettive. Queste sono legate al crescere delle libertà reali (che ognuno singolarmente deciderà come usare) e riguardano soddisfazioni potenzialmente raggiungibili (fra le quali ognuno singolarmente si orienterà come crede). Non si tratta dunque più di quantificare il piacere soggettivo ossia l’effettiva soddisfazione del singolo individuo (un calcolo che l’utilitarismo benthamiano, nella sua radicalità, coerentemente affida all’individuo stesso), né di rinunciare alla quantità in nome della “qualità” (com’è nell’idealismo romantico del giovane Mill). Si tratta invece d’indagare la sola cosa 8 Su questi temi (con particolare riguardo alle critiche di Dewey a J.S. Mill) cfr. B. CASALINI, «Dewey: “intelligenza” e morale», Il Pensiero Politico, XXX, 3, 1998, pp. 460-483. prima pubblicazione su: Testimonianze, 423 (2002), pp. 58-86 Sergio Caruso, «Amartya Sen: la filosofia politica», p. 8 realmente osservabile secondo parametri empirici: le condizioni oggettive all’interno delle quali le preferenze vengono espresse, gli «assetti» che favoriscono la libertà o le mettono vincoli; e ciò al fine di modificare quelle condizioni, al fine di mettere a disposizione una pluralità di mezzi variamente utilizzabili ed espandere, così facendo, le chances di tutti. L’idea di Well-being, irriducibile al Welfare, e il c.d. «approccio delle capacitazioni» corrispondono a questa esigenza. Utopia? No. E non solo perché Amartya Sen, presidente dell’associazione internazionale degli econometristi, è forse l’uomo che meglio di chiunque altro al mondo sa “fare i conti”; ma anche perché – non si stanca di ripeterlo – (a) i mezzi da mettere a disposizione non sono solo di natura economica e (b), diversamente da quanto ci vogliono far credere, l’espansione delle libertà reali finisce col produrre più ricchezza di quanta ne consumi. Che rimane, in questa concezione, del pensiero stuart-milliano? Direi, due cose. La prima: non può esistere uno stato liberale senza una società liberale. La seconda: conviene promuovere quella forma di egoistico altruismo, dove ognuno riconosce nell’altrui felicità la condizione della propria felicità. In altri termini (ma non sono queste parole di Mill, né di Sen): non c’è liberalismo senza liberalità; la società degli individui vive e prospera solo se gli individui sono generosi e capaci di “simpatia”. Insomma: la società liberale e l’etica della reciprocità non si esauriscono, per Sen, nel mercato e nel gioco degli interessi economici. Il mercato e gli interessi sono ovviamente importanti, ma lo scambio di merci e il valore economico devono essere qui considerati un caso particolare dello scambio di valori in generale: parole, affetti, doni, merci (SèL, p. 31). La linea dove Sen si colloca stavolta non è tanto quella Mandeville-Bentham, quanto quella Smith-Mill.9 John Stuart Mill auspicava col capitalismo della produzione una sorta di socialismo della distribuzione. Amartya Sen non si spinge fino a tanto sul piano politico; ma, in un certo senso, va ancora oltre sul piano teorico. Infatti, la redistribuzione dei beni e, più che mai, delle occasioni per raggiungerli non è per lui solo eticamente doverosa, bensì anche (su ciò non si stanca d’insistere e di produrre analisi comparative) economicamente conveniente nel medio periodo. Per tutti. Di essa la comunità sarà ripagata a oltranza! Una certa idea del “mercato” Tanto più facilmente Sen si può permettere queste posizioni sul piano “ideologico” quanto più fermo rimane nella difesa del mercato: non solo da economista, per ragioni di efficienza, ma da filosofo, per ragioni morali. 9 Nello studio di questi argomenti e di questi autori Sen si è potuto giovare di un interlocutore davvero speciale: Albert Hirschmann, un altro grande personaggio a cavallo tra economia dello sviluppo e filosofia morale. La conoscenza fra i due nasce per ragioni di famiglia, Albert Hirschmann essendo lo zio della terza moglie di Amartya Sen (Eva Colorni, figlia di Eugenio Colorni e Ursula Hirschman); ma viene poi rinforzata dal fervido dialogo intellettuale e perfino da colleganze accademiche (Sen è fra i Trustees dell’Institute for Advanced Study di Princeton, dove Hirschmann lavora). Cfr. la Prefazione di A. SEN all’edizione ventennale di: A. HIRSCHMAN, The Passions and the Interests. Political Arguments for Capitalism before Its Triumph, Princeton University Press, Princeton 1997. prima pubblicazione su: Testimonianze, 423 (2002), pp. 58-86 Sergio Caruso, «Amartya Sen: la filosofia politica», p. 9 Guardiamo prima alla difesa del mercato che Sen propone en économiste. A dire il vero non si tratta - già qui - di ragioni puramente e strettamente economiche. Come quando si dice (approccio statico): “il mercato è un insurrogabile mezzo per la determinazione dei prezzi”; oppure (approccio dinamico): “solo le economie di mercato, in quanto aperte alla concorrenza, offrono uno spazio favorevole all’innovazione”. Queste ragioni sono certamente vere; Sen le condivide e sa bene che l’insuccesso del “socialismo reale” – sul terreni, appunto, della distribuzione e dell’innovazione ancor prima e ancor più che nella produzione - è dipeso principalmente dal rifiuto opposto al mercato. Ma c’è dell’altro. La seniana theory of social choice, che non riguarda solo la sfera stricto sensu economica, raccomanda d’includere - nel calcolo delle scelte – non solo gli «esiti di culminazione», cioè gli esiti finali che una scelta prevedibilmente darà (in ordine agli obiettivi prefissi), ma anche gli «esiti comprensivi», cioè la cascata di effetti collaterali la quale consegue da tutto il processo che viene messo in moto (SèL, p. 34). E da questo punto di vista, inclusivo dell’intero processo, l’opzione per il libero mercato appare più che mai preferibile. Perché il mercato non solo determina i prezzi e favorisce l’innovazione, ma dinamizza e arricchisce la società intera in ogni campo. Le innovazioni del resto, ancorché nate per meglio competere sul mercato, non riguardano solo l’economia, ma finiscono con l’investore la vita intera… Guardiamo adesso alla difesa del mercato che egli propone en philosophe. Dicevo poc’anzi che Sen considera lo scambio di merci un caso particolare dello scambio in generale: sul piano linguistico, affettivo, oblativo e - naturalmente - anche economico. L’uomo appare un essere commutativo, ad ogni livello: un animale impegnato in continue transazioni; e non si capisce perché mai dovremmo far violenza a questa sua tendenza, a questa naturale attitudine: a conversare, simpatizzare, dare e ricevere doni, barattare e – perché no? – comprare e vendere. In questa prospettiva, «essere genericamente contro i mercati sarebbe quasi altrettanto strano che essere genericamente contro le conversazioni personali» (solo perché alcune conversazioni possono essere effettivamente scorrette e recar danno). Evidentemente illogico (l’irrazionalità sta nel fatto d’includere il generale nel particolare); nonché irragionevole (cioè privo di argomenti seri e, nella sostanza, arbitrario), perché onus probandi incumbit ei qui dicit, cioè a coloro che propongono restrizioni, non ei qui negat, cioè a coloro che propongono (almeno in prima battuta e in via di principio) la libertà negativa come non-interferenza. In realtà, questa libertà – naturale? - «non ha bisogno di una difesa che la giustifichi» e «negare possibili transazioni attraverso controlli arbitrari […] significa impedire a qualcuno di fare qualcosa che, in mancanza d’incontrovertibili ragioni contrarie, si può ritenere sia suo diritto fare» (SèL, pp. 12, 31). Si noti che Sen (e con lui, molto opportunamente, il traduttore di Sviluppo è libertà, Gianni Rigamonti) distingue fra “capacità” (abilities) e “capacitazioni” (capabilities). Le prime hanno a che fare con le differenze (naturali o apprese) fra individui, mentre le seconde hanno a che fare con gli assetti sociali, che possono promuovere o frenare. Ora, questa faccenda dello “scambio in generale” non implica differenze rilevanti fra individui o culture, né discende dagli assetti sociali (serve piuttosto a costruirli). Siamo, dunque, di fronte a qualcosa che rassomiglia parecchio a una “libertà naturale” nel senso, che fa parte costitutiva della “natura umana”; qualcosa che – come dicevo – non sarebbe razionale negare in via di principio, senza negare l’umanità stessa, né ragionevole limitare in pratica, in assenza di ottime ragioni da produrre caso per caso. Benché Sen non ami parlare troppo di libertà naturali e di natura umana, e benché prima pubblicazione su: Testimonianze, 423 (2002), pp. 58-86 Sergio Caruso, «Amartya Sen: la filosofia politica», p. 10 manchi al riguardo una filosofia del tutto dispiegata, come negare che si tratti – con ciò - di un complesso di “diritti naturali”? Una certa idea della natura umana Questa filosofia rimane – ripeto – fra le righe oppure, talora, confinata nelle note (almeno nel volume del 1999, su cui prevalentemente mi soffermo in questo articolo). Siamo autorizzati tuttavia a leggerla in questo senso da una serie d’indicazioni che emergono dalla biografia intellettuale di Sen. Primo: le conversazioni di Sen con Isaiah Berlin (cui si deve la più nota e precisa ridefinizione della polarità concettuale libertà negativa/libertà positiva). Il diritto dell’individuo a non subire interferenze nelle proprie transazioni riformula, in Sen, la “libertà negativa” nel senso di Berlin. Secondo: l’ispirazione aristotelica della sottostante visione della natura umana (del che Sen ha parlato e riparlato con Martha Nussbaum, specialista dell’argomento, fino a stabilire con lei una collaborazione intellettuale che rassomiglia a un vero sodalizio filosofico). Terzo: la revisione anti-metafisica delle “facoltà umane” (Aristotele) nel senso funzionale e operativo dello strumentalismo (Dewey). Quarto: l’enfasi sull’intersoggettività come spazio nativo dei valori e - potremmo dire: come luogo dove l’universalità dell’umana predisposizione a transagire gli uni con gli altri assume la concretezza dell’utile e il vigore delle passioni. Una visione, questa, che Sen mutua dalla moral philosophy anglo-scozzese, a lui ben nota (e non solo per averla discussa con lo “zio” Hirschman, ma anche per una lunga frequentazione con le pagine di Adam Smith). Niente a che fare, dunque, col giusnaturalismo razionalistico e con le sue “fallacie” (denunziate da Hume). A meno di rifarsi a Spinoza (che Sen non cita), per cui certi diritti sono naturali in quanto coincidono con la naturale “potenza” del soggetto. Ed effettivamente i diritti di libertà propugnati da Sen, seppure naturali, non sono assoluti (tranne i diritti umani, su cui bisogna fare un discorso a parte). In particolare, non hanno l’assolutezza di quelli “giuridici” sensu strictiori propugnati da Dworkin (il diritto soggettivo perfetto come «asso pigliatutto» all’interno dell’ordinamento); tollerano, infatti, alcune ragionevoli restrizioni, limitate al minimo indispensabile. Ma ciò non toglie che siano diritti e che vadano anch’essi taken seriously. La libertà come fine e come mezzo Sen concepisce lo sviluppo come «un processo di espansione delle libertà reali» (SèL, p. 9). Questo termine così controverso - “libertà reali” – non va inteso tanto nel senso polemico del giovane Marx, né intende minimamente svalutare le libertà “formali” giuridicamente codificate. Va inteso piuttosto nel senso dahrendorfiano delle “chances di vita”: dove le libertà formali sono ricomprese fra le “opzioni”, dal lato degli entitlements. Dahrendorf non è fra gli autori più spesso citati nelle pagine di Sen, ma l’affinità fra i due – sosterrò qui – è profonda ed estesa. Per ambedue, le libertà formali (entitlements) sono “biglietti d’ingresso” senza cui l’oggetto delle opzioni (provisions) prima pubblicazione su: Testimonianze, 423 (2002), pp. 58-86

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così, parafrasando Kant: che per Sen la filosofia politica senza economia è vuota; l'economia . In effetti, egli condivide la famosa critica di John Stuart Mill.
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