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Scuola Dottorale di Ateneo Graduate School Corso di Dottorato Interateneo in Storia delle Arti Ca PDF

231 Pages·2014·1.12 MB·Italian
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Scuola Dottorale di Ateneo Graduate School Corso di Dottorato Interateneo in Storia delle Arti Ca’Foscari - IUAV- Università di Verona Dottorato di ricerca in Storia delle arti Ciclo XXVI Anno di discussione 2014-2015 Titolo La sintesi delle arti negli allestimenti della IX Triennale di Milano: alcuni aspetti del confronto tra artisti, architetti e designer Settore scientifico disciplinare di afferenza: L-ART/03 Tesi di Dottorato di Monica Trigona, matricola 955892 Coordinatore del Dottorato Tutore del Dottorando Prof. Giuseppe Barbieri Prof. Guido Zucconi Co-tutore del Dottorando (solo se designato) Prof. Letizia Tedeschi INDICE INTRODUZIONE i CAPITOLO I – LO SCONFINAMENTO DEI LINGUAGGI ARTISTICI 1. I primi allestimenti “di regia” e il dibattito sulla pittura murale 2. Il Congresso A. Volta di Roma del 1936 3. Arte e architettura del dopoguerra CAPITOLO II – IL CASO EMBLEMATICO DELLA IX TRIENNALE DI MILANO  1. La Triennale devota alla forma 2. Percorsi e allestimenti 2.1 La scoperta dello spazio: gli ambienti di rappresentanza 2.2 Lo spazio contestualizzato: la mostra dell’abitazione 2.3 Il plastico di Zanuso e Cagli 2.4 Lo spazio artistico: la mostra dello sport 2.5 Lo spazio concettuale: Studi sulle proporzioni 2.6 Lo spazio del pubblico: mostra dei concorsi del Duomo 3. La Triennale dell’ “unità delle arti”: ricezione e critica CAPITOLO III – EREDITÀ E SVILUPPI DEL DIBATTITO 1. X Triennale: quale eredità? 2. La mostra e il convegno di Industrial Design 3. Il caso emblematico del Labirinto dei ragazzi alla X Triennale Fonti Bibliografia INTRODUZIONE L’obiettivo di questo studio è quello di analizzare alcuni eventi espositivi in seno alla Triennale milanese del ’51 e, successivamente, per sondare di questa gli effetti e le influenze, a quella del ’54, nell’ottica di coglierne i positivi risultati derivanti dalle contaminazioni e dalle trasgressioni linguistiche, frutto della collaborazione tra artisti e architetti. Per giungere a suddetti episodi la prima parte dello scritto è interamente dedicata ad una ricognizione storico-critica di mostre in ambito italiano di varia natura, ma dal comune carattere temporaneo, che dagli anni Venti del secolo scorso fino al secondo dopoguerra hanno tracciato un percorso particolarissimo nella definizione di figure che, per aspirazione personale, per allargare i propri orizzonti disciplinari o per sopravvenute esigenze “impiegatizie”, sono state filtri e menti di straordinarie scenografie. Sebbene s’intraprenda il “racconto” a partire dalle premesse del periodo succitato, bisogna fare un ulteriore passo indietro per contestualizzare quell’atteggiamento progettuale orientato verso un concetto di unità delle arti che ha i suoi prodromi nella tendenza di riqualificazione artistico-artigianale da una parte e di attenzione per l’aspetto decorativo del fabbricato dall’altra attuata nel periodo della cosiddetta “Art Nouveau”1. Nella seconda metà del XIX secolo, l’inglese William Morris, erudito d’arte e d’architettura, con la sua interessante cerchia di amici, tra cui l’architetto Webb e i pittori Rossetti e Burne Jones, fonda nel 1861 la sua ditta di tessuti, mobili, vetri, piastrelle ecc..., preparando il campo ad un ripensamento dei manufatti in chiave artistico-artigianale. In quanto maggiore teorico delle “Arts and Crafts”, movimento di reazione alla brusca industrializzazione allora in atto, egli aspira alla creazione di uno stile comune per tutte le classi ma il suo desiderio, come è noto, non si realizza e gli arredamenti e i prodotti che escono dal suo laboratorio rimangono appannaggio di pochi privilegiati.                                                              1 “[…] il nuovo stile si manifestò come decisa reazione alle tendenze eclettiche dell’Ottocento, anche se in parte, rispettando la sua natura contraddittoria, ne assimilò alcuni motivi e caratteri, come il richiamo all’integrità etica del gotico o la rielaborazione di quel gusto per l’esotismo, che vide in particolare l’affermazione del japanisme. Rispetto all’impianto naturalistico della cultura figurativa della seconda metà del XIX secolo, non condivise invece l’attenzione alla prosaicità della vita quotidiana, opponendo a un’impostazione realista e documentaria le categorie del bello, dell’elegante e del decoro.” M. FOCHESSATI, L’Art Nouveau: Tra modernismo e nazionalismo romantico, Milano, 24 ore cultura, 2012, p. 10.  i La semplicità dei disegni, “di fiori e foglie”, realizzati dalla Morris and Co., che si avvale dell’originalità creativa del suo fondatore, è atta a conferire giusto valore agli oggetti di uso quotidiano a dispetto del diffondersi di paccottiglia varia e merce scadente. Mutando un’espressione di Pevsner, alla fine del XIX secolo l’entrata in scena della cosiddetta “Art Nouveau” “non segna altro che il trasferimento dello stile dalla dimensione piccola a una maggiore e dall’arte applicata all’architettura”2, affermazione che sottolinea una visione incline alla concezione delle manifestazioni creative come un “unico fatto artistico”, cancellando anche il divario tra le cosiddette arti maggiori e minori. Negli anni Ottanta, ancora in Inghilterra, l’architetto Arthur H. Mackmurdo propone con la sua rivista “Hobby Horse” un rinnovamento dell’arte tipografica con stampa su carta a mano dai caratteri tradizionali e frontespizi dai tipici disegni floreali asimmetrici e stilizzati, che adopera pure nei tessuti, mentre in ambiente francese le arti minori trovano negli artigiani Gallé, Rousseau e nel pittore Gauguin gli esponenti di una ricerca istintiva e indipendente. Centrotavola, vasi, bicchieri, piatti, brocche, mobilio vario, gioielli diventano soggetti d’interesse per gli artisti. I motivi fantastici, organici, acquatici, floreali, talora ingarbugliati, in essi impressi finiscono per “contagiarne” anche le forme. Ma se il vetro e la ceramica, come anche il ferro, si prestano particolarmente alle realizzazioni dell’ “Art Nouveau”, il legno impiegato per il mobilio pone dei limiti oggettivi di malleabilità. Le sole decorazioni possibili vengono allora impresse sulla sua superficie. Certi ambienti realizzati in questo periodo risultano troppo artificiosi e difficilmente abitabili a causa della loro ingombrante presenza (basti pensare agli eccessi di Eugène Vallin). Fortunatamente ciò che in questo campo producono in area tedesca Henry Van de Velde, Otto Eckmann, August Endell, Richard Riemerschmid, per citare dei nomi, coniuga gli accenti più dimessi della nuova poetica con il dato funzionale. L’architettura da parte sua vive in questo periodo della compresenza di individualità e apporti distinti che, ognuna a suo modo, associano l’uso dei nuovi materiali e i caratteri decorativi nella realizzazione di edifici dall’indubbia originalità quanto, spesso, dalla comprovata non funzionalità. La celebre scala al numero 6 di rue Paul Emile Janson di Bruxelles, opera di Victor Horta, che utilizza il ferro come materiale portante quanto ornamentale, è opera architettonica ancor prima che “moda decorativa”. Stessa cosa si può affermare per la sua “Maison du                                                              2 N. PEVSNER, L’architettura moderna e il design, da William Morris alla Bauhaus, Torino, Giulio Einaudi editore, 1969, p. 57.  ii peuple”, dove ferro, vetro, acciaio e mattone scandiscono la facciata curvilinea. In ambito francese Hector Guimard disegna le entrate della metropolitana di Parigi utilizzando soltanto il ferro che curva, plasma in forme organiche, modella variamente rappresentando appieno lo stile del periodo e soddisfacendo lo scopo per cui è stato chiamato. “L’influenza delle Arts and Crafts e della cultura figurativa giapponese sugli sviluppi dell’Art Nouveau non concorse soltanto a innovare forme e modelli decorativi del nuovo stile, ma contribuì anche a impostare una moderna attitudine progettuale, ispirata dal concetto di unità delle arti. Questa idea di progettazione integrale si espresse, nei molteplici percorsi linguistici dell’Art Nouveau, attraverso un’attitudine applicativa di quella nozione di sintesi tra funzione e decorazione che già era stata elaborata nel corso dell’Ottocento da alcune innovative forme di produzione. A questo ambito fa riferimento quel modello di panchina inglese da giardino che, rimasto ancora oggi invariato nella sua struttura originaria, fu inizialmente prodotto, durante l’epoca vittoriana, in occasione della creazione di nuovi parchi pubblici in quelle aree metropolitane sottoposte dagli effetti della rivoluzione industriale a una forte espansione urbanistica.”3 In questo sommario quadro, la figura dell’architetto Antoni Gaudi si colloca per certi versi tra i protagonisti della stagione dell’Art Nouveau4 per altri risulta totalmente devoto ad una propria imprevedibile poetica. Certo è che la casualità, l’apparente incuranza e le strambe collocazioni di alcune strutture presenti ad esempio nel parco Güell lo rendono difficilmente incanalabile in qualsivoglia corrente. L’estro creativo di cui si nutre tutta la sua opera raggiunge vette inaspettate nell’edificazione della Sagrada Familia. Come un muratore frequenta giornalmente il cantiere della chiesa e prende le sue decisioni sul campo in modo estemporaneo, come farebbe un artigiano il cui operato è frutto del suo proprio spirito.                                                              3 M. FOCHESSATI, Op. cit. nota 1, p. 83.  4 Gaudi “non mancò di seguire, attraverso le riviste, il trionfo in Francia dell’Art Nouveau, poiché alcuni dettagli interni di due sue unità d’abitazione (la casa Batllò e la casa Milà) appartengono completamente all’Art Nouveau francese, così come l’uso di alberi in cemento, naturalmente senza foglie, nel parco Güell è un concetto di Hennebique, l’artista francese fanatico del cemento. Tuttavia l’irresistibile originalità di Gaudì, resta un fatto, anche se – per lo meno nelle due case suddette – entrambe opere tarde iniziate nel 1905, si tratta di una originalità nell’ambito dell’Art Nouveau. Che cosa c’è dopo tutto che colpisce nelle facciate di queste case, allorché sul Paseo de Gracia ci si trova impreparati al loro cospetto? Tutta una facciata in una massa fluida, lenta e pesante, alquanto minacciosa: una colata di lava, qualcuno ha detto, oppure una erosione marina, hanno detto altri, o infine l’ingresso di una cava di pietra da tempo abbandonata. C’è movimento ondoso e affinità con la natura <<strutturizzata>>, come la chiamò una voltà Van de Velde. C’è anche, e bisogna dirlo finalmente, quella indifferenza per la funzionalità che fece tanto danno all’Art Nouveau nell’edilizia, nell’arredamento, dovunque.” N. PEVSNER, Op. cit. nota 2, pp.119-120.  iii Nelle opere di cui si è testé detto, ma anche nella casa Casa Batlló e nella casa Milà ad esempio, l’architetto catalano riesce ad armonizzare perfettamente la forma del progetto architettonico e i suoi elementi ornamentali. A quanto detto si può aggiungere un precedente episodio, solo per la linea operativa intrapresa e giammai per lo stile, ovvero la concezione da parte del belga Henry Van de Velde, nel 1895, dell’abitazione, detta “Bloemenwerf”, a Uccle. Quest’ultimo progetta non soltanto l’involucro ma anche il contenuto dell’edificio, gli arredi, nei minimi dettagli e in linea con la semplicità della struttura esterna.5 È interessante leggere quanto nello stesso anno Van de Velde scrive nel suo saggio “Aperçus en vue d'une synthèse d'art”: “Le belle arti: questo nome evoca quadri, statue, monumenti. Esse sono associate ma non costituiscono un’unità. Si presentano come nettamente distinte, con un solo punto in comune: la loro aristocrazia recente. L’indipendenza reciproca, così come l’aristocrazia, sono il sintomo di una condizione di immoralità, poiché mettono in luce aspetti negativi, contrari all’essenza stessa dell’arte. Se c’è soltanto associazione e non unità si può concludere che non c’è un’essenza artistica comune, poiché l’arte non può che essere concepita all’interno di un regime di unità, come una sottomissione volontaria all’ideale del momento. L’arte non può essere concepita che come un insieme di sforzi omogenei, come una tensione armonica che si basa sull’uguaglianza di tutte le parti costituenti; e il raggruppamento delle belle arti che si era posto come un’aristocrazia, aveva consapevolmente distrutto quell’uguaglianza, turbato quell’armonia dichiarandosi di rango superiore e, in seguito, proclamando che le arti del legno, dell’argilla, del metallo, del vetro e dei tessuti erano di rango inferiore. […] Questa distinzione è recente e non risale certo agli antichi né ai primitivi.”6 Mentre in Inghilterra l’aspirazione all’artigianale e al “sincero” di Morris influenza l’architettura della fine del secolo, che si esprime in edifici semplici dai volumi lineari e a misura d’uomo (si pensi all’opera di Charles F. Annesley Voysey), in Scozia Mackintosh progetta originali edifici funzionali ma non scevri delle suggestioni ornamentali del periodo, in Austria Joseph Olbrich reinterpreta con inedito rigore di proporzioni e volumi l’ “Art Nouveau”, nel nostro paese, il “Liberty” in chiave costruttiva non lascia di sé grandi                                                              5 Cfr. H. VAN DE VELDE, La mia vita, a cura di H. CURJEL, Milano, Il Saggiatore, 1962, pp. 108-114.  6 H. VAN DE VELDE, Sgombero d’arte e altri saggi, Introduzione e note di Rossana Bossaglia, Milano, Jaca Book, 1984, pp. 60-61.  iv testimonianze nonostante la presenza di “personalità significative sulle quali si dispone di ricerche monografiche, a carattere regionale e cittadino”.7 “Il liberty, in Italia, di rado espresse le istanze di fondo del modernismo europeo. Se è vero […] che Art Nouveau e Jugenstil, Modern Style e Sezession, nei loro paesi costituiscono una tappa di quel lungo percorso d’avvicinamento e di maturazione a quella che viene indicata come la rivoluzione delle avanguardie storiche, nel nostro paese il liberty ebbe piuttosto il carattere di una permanente evasione dai temi centrali che si venivano elaborando tra la fine dell’Ottocento ed i primi decenni del Novecento in tutta l’Europa. […] Mentre è esistita una poetica divisionistica e una decadentistica e simbolista, una futurista ed una tardo verista, è estremamente difficile rinvenire i tratti di una poetica liberty.”8 Le affascinanti decorazioni, gli aggraziati intrighi floreali, i manifesti seducenti, la ridondanza delle allegorie si prestano a “ricoprire” ogni manufatto, dagli oggetti preziosi a quelli più comuni, dalle case di lusso a quelle operaie passando per le tessere dei partiti. Sembrerebbe che l’“Arte nuova” si stabilizzi su un generico modus operandi che predilige unicamente l’ornamento, l’addobbo, a dispetto di un concomitante interesse per il “costruire” oltre i confini nazionali9. È emblematico in questo senso il padiglione progettato da Raimondo Tommaso D'Aronco, la “Rotonda d’onore”, per l’Esposizione Internazionale d’Arte Decorativa Moderna di Torino nel 1902: la ricchezza ornamentale sulla superficie esterna dell’edificio si scontra con una pianta piuttosto tradizionale e un ambiente interno per nulla originale nella sua forma strutturale ma ricoperto e infarcito di elementi. Siamo decisamente lontani dalla concezione di un progetto come la Maison du peuple di Horta ma anche dal Palazzo della Secessione di Joseph Olbrich, sintesi formali, e funzionali, di un nuovo stile. Facendo un salto avanti, e quindi andando alla fine degli anni venti-inizio anni trenta del secolo scorso, si giunge al momento in cui le mostre temporanee in Italia vedono la scesa in campo di architetti razionalisti in un ambito dove il concetto di unità delle arti acquisisce nuovi accenti.                                                              7 C. DE SETA, La cultura architettonica in Italia tra le due guerre, ried., Napoli, Electa, 1998, p. 44.  8 Ibid., pp. 43-44.   9 “L’esigenza di fondo della Secessione, la sua volontà di ridurre la decorazione a partito compositivo e strutturale si snaturava in Italia a contatto con le ancor non sopite vocazioni monumentali” Ibid., p. 45  v Innanzitutto eventi espositivi di vario genere, dai padiglioni delle fiere agli allestimenti della Triennale milanese, ma anche le mostre di propaganda, diventano terreno privilegiato per le più disparate sperimentazioni. Pagano scrive che “in nessun campo, forse, l’architettura moderna e il senso più attuale dell’arredamento hanno tentato di combattere una battaglia così aspra contro le leggi della statica e del convenzionale per ottenere effetti surreali, per raggiungere nuovi equilibri, per dissociare lo spazio in immagini liriche, a volte piene di esasperato dinamismo, a volte immerse nell’assoluto di una pacata solennità. Per ottenere un ‘effetto’ stimolato a volte da pure necessità didattiche o pubblicitarie, si raggiuse quell’emozione estetica che è dote sicura dell’opera d’arte.”10 L’autore assimila questi interessanti contributi, di cui nel primo capitolo si fa ampia descrizione, all’operato dell’artista, all’opera d’arte per l’appunto. Il luogo della mostra pare quindi diventare esso stesso materia di contemplazione, “espressione pittorica dello spazio” dove si osa quello che altrove, forse, un giorno si farà. Il tema decorativo ritorna dal “senso poetico e fantastico proprio dei pittori e degli architetti-pittori”11 e richiama alla mente quella libertà creativa, non condizionata da vincoli strettamente pratici, che è di Horta come di Mackintosh, di Guimard come dello stesso Gaudì. L’artista Mario Sironi dal canto suo rappresenta il caso, tutto italiano, dell’artista sinceramente devoto agli ideali di virtù civica propugnati dal fascismo, che promuove un ritorno alla pittura murale quale autentico ideale congiungimento tra le arti e l’architettura. La sua battaglia contro il piccolo supporto, rappresentato dall’intimistico quadro di cavalletto, a favore delle grandi superfici costituisce la premessa ideale al sesto congresso A. Volta del 1936 il cui tema è “Rapporti dell’architettura con le arti figurative”. Il dibattito, pur coinvolgendo importanti personalità dell’arte e dell’architettura del momento, non riesce a pervenire ad una tesi compiuta sul destino del rapporto tra le discipline artistiche eppure, se si escludono quelle voci che questo tema strumentalizzano, molti sono suoi sostenitori più o meno consapevoli. Con il secondo dopoguerra, la vita quotidiana è condizionata da ben altre urgenze. Bandite le questioni formali, il dibattito internazionale si sposta su quelle legate alla ricostruzione.                                                              10 G. PAGANO, Parliamo un po’ di esposizioni, in “Casabella Costruzioni”, n. 159-160, Marzo-Aprile 1941, p. 2.   11 Ibid.  vi

Description:
introduce i piani di ricostruzione per gli abitanti danneggiati dalla guerra […] 28” in G. CIUCCI e G. MURATORE, a cura di, Storia dell'architettura italiana. Tomàs Maldonado, sia da signore dell'alta società, ottima fonte di È significativa la spiegazione su cosa sia la S.I.D. riportata n
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