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Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia PDF

241 Pages·1983·1.728 MB·Italian
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Carl Gustav Jung, Kàroly Kérenyi PROLEGOMENI ALLO STUDIO SCIENTIFICO DELLA MITOLOGIA Il libro s’impernia sulla tesi junghiana dell’inconscio collettivo. Difficilmente si troverebbero pagine più vive sulla mitologia di quelle scritte da Kerényi. La creazione mitica non è che la rappresentazione degli archetipi, e come tale rivela una sfera importante della psiche. La povertà mitica è praticamente morte dell’anima. Il testo di Kerényi si riferisce ai fanciulli e alle fanciulle divine, mentre quello di Jung appare come un commento psicologico. Si tratta però di sezioni autonome, che si possono leggere anche in ordine invertito. Per Jung il tema onirico della “fanciullezza” rappresenta la parte “giovane” della psiche collettiva e come tale cela sempre un valore positivo. Titolo originale: “Einführung in das Wesen der Mythologie”. Traduzione di Angelo Brelich. Copyright 1972 Editore Boringhieri, Torino. Edizione nell’Universale scientifica 1972. Quarta edizione 1983. 1940-41. Indice Nota biografica. Prefazione di Mario Trevi. Note. K. Kerényi. Introduzione: Origine e fondazione nella mitologia. Note. K. Kerényi. Il fanciullo divino. 1. Fanciulli divini. 2. Il fanciullo orfano. 3. Un dio dei Voguli. 4. Kullervo. 5. Narayana. 6. Apollo. 7. Hermes. 8. Zeus. 9. Dioniso. Note. C. G. Jung. Psicologia dell’archetipo del Fanciullo. Introduzione. A) La psicologia dell’archetipo «fanciullo». 1. L’archetipo come stato di passato. 2. La funzione dell’archetipo. 3. L’aspetto «avvenire» dell’archetipo. 4. Unità e pluralità del motivo del fanciullo. 5. Dio fanciullo ed eroe fanciullo. B) La fenomenologia specifica dell’archetipo. 1. Lo stato di abbandono del fanciullo. 2. L’invincibilità del fanciullo. 3. L’ermafroditismo del fanciullo. 4. Il fanciullo come inizio e fine. Riassunto. Note. K. Kerényi. Kore. 1. L’Anadyomene. 2. Paradossalità dell’idea mitologica. 3. Fanciulle divine. 4. Hekate. 5. Demeter. 6. Persefone. 7. Figure di Kore indonesiane. 8. La Kore in Eleusi. 9. Il paradosso eleusino. Note. C. G. Jung. Aspetto psicologico della figura di Kore. Note. K. Kerényi. Epilegomeni: Il miracolo di Eleusi. Note. Nota biografica C. G. Jung (1875-1961) si laureò in medicina a Basilea e incominciò la sua carriera a Zurigo come assistente di Bleuler (1900). I suoi studi sulle associazioni verbali lo portarono a interessarsi delle teorie di Freud, e nel 1910 fu il primo presidente dell’Associazione psicoanalitica internazionale. Il suo dissidio da Freud trovò espressione definitiva nel 1912 con la pubblicazione di “Trasformazioni e simboli della libido” (titolo definitivo: “Simboli della trasformazione”, 1952). Negli anni 1916-17 egli elaborò le sue fondamentali dottrine sugli archetipi e l’inconscio collettivo (vedi i volumi “Psicologia dell’inconscio” e “L’io e l’inconscio”, pubblicati in questa collana). La sistemazione definitiva della sua tipologia apparirà nel 1921 (“Tipi psicologici”: vedili in questa collana); nei decenni successivi e fino alla morte, la sua attività scientifica, diretta principalmente a scoprire gli archetipi nelle produzioni spirituali dell’umanità, troverà espressione in vastissime ricerche sul mito, la religione, l’arte, l’alchimia. Karoly Kerényi (1897-1973), studioso di storia delle religioni, fu dapprima professore di filologia classica in Ungheria, sua patria, e poi nel 1943 si stabilì in Svizzera. Tenne lezioni a Zurigo nel “C. G. Jung- Institut” e presso varie università in Scandinavia, Germania, Finlandia, Svizzera e Italia. Lasciò numerosi, originali studi, tra cui ricordiamo quelli apparsi in traduzione italiana: “La religione antica nelle sue linee fondamentali” (Bologna 1940); “Figlie del Sole” (Torino 1949); “Gli dei e gli eroi della Grecia” (Milano 1972); e nella presente collana “Miti e misteri”. Il testo italiano è stato sottoposto all’esame di K. Kerényi. In parte con sua approvazione, in parte dietro suo suggerimento sono state modificate alcune espressioni che, pur diventate così meno fedeli alla lettera del testo tedesco, rendono ugualmente il pensiero dell’Autore e, nello stesso tempo, alleggeriscono il testo italiano già notevolmente tormentato per l’estrema difficoltà dell’adattamento della nostra lingua allo stile sintetico e concentrato del Kerényi. In alcuni casi, in cui nessun termine italiano può rendere esattamente quello tedesco, abbiamo aggiunto a una traduzione approssimativa l’espressione originale messa tra parentesi. Tuttavia chiunque volesse prendere posizione in sede scientifica di fronte all’opera, deve farlo in base al testo originale. Prefazione di Mario Trevi Nati dall’incontro reciprocamente fecondatore di uno storico delle religioni e di uno psicologo, i “Prolegomeni”, pubblicati per la prima volta nel 1941, hanno acquistato, nei trent’anni e più che ci separano da quella data, una loro esatta storicità. Nello stesso momento in cui essi possono essere letti come un libro attualissimo per la densità del contenuto e per la carica ancora altamente stimolatrice derivante dalla loro originalità, i Prolegomeni vanno collocati in una precisa situazione storica, nell’inconfondibile temperie spirituale propria della cultura occidentale all’inizio del quinto decennio del nostro secolo. Fanno infatti da sfondo intellettuale ai “Prolegomeni” da una parte le correnti fenomenologiche che, risalendo a Dilthey, proponevano la lettura dei documenti delle antiche civiltà e delle culture primitive non mediante il solo strumento dell’indagine critica ma anche attraverso una concreta esperienza vissuta (Erlebnis) e una partecipazione commossa (Gemüt) che sole possono restituirci la vita contenuta in quei documenti, dall’altra un processo di svincolamento dell’indagine psicologica dalla matrice naturalistica e biologistica del positivismo e un suo progressivo accostarsi ai criteri e ai metodi della fenomenologia. D’altra parte i “Prolegomeni” vanno anche letti con una particolare attenzione all’evoluzione intellettuale di ciascuno dei due autori del libro, e ciò non solo perché - come vedremo - l’uno di loro, Kerényi, senza minimamente rinnegare il valore dell’incontro e della collaborazione con Jung, ha in seguito «preso le sue distanze» da quel tanto che il libro contiene di generosamente abbozzato ma perciò stesso ancora informe, non solo per le cautele e delimitazioni che lo storico delle religioni ha in seguito introdotto nell’uso dei vocaboli “archetipo” e “archetipico”, ma anche perché i “Prolegomeni” rappresentano, da parte di Jung, una tappa precisa nella lunga e faticosa formulazione definitiva del concetto di” inconscio collettivo” e delle strutture formali che gli competono. Il nome di Kerényi è - nel campo della ricerca sulla religione greca - probabilmente quello del più originale e prestigioso studioso dei nostri tempi. Per quanto particolarissima e indipendente sia la sua posizione di ricercatore, egli si collega ideologicamente a quel gruppo di etnologi e di storici della religione che, per il loro comune radicamento nel pensiero e nell’opera di Leo Frobenius, oggi si conviene chiamare «Scuola di Francoforte», o «Scuola storico- psicologica», o più propriamente «Scuola morfologico-culturale». Si conosce ormai bene, anche da parte del pubblico non specializzato, il valore che, nella dialettica delle idee che sottende la ricerca etnologica del nostro secolo, acquista la posizione di Frobenius e dei suoi continuatori (soprattutto l’etnologo Adolf Jensen, per far solo il nome del maggiore). Da una parte essi, opponendosi ad ogni residuo evoluzionistico ancora presente nel pensiero etnologico dei primi decenni del secolo, continuavano il programma di ricerche autenticamente storiografiche inaugurato dalla scuola «storico- culturale» (della quale peraltro Frobenius era stato uno dei massimi fondatori), dall’altra, contro il tecnicismo sterile dei «cicli culturali» e delle «carte di diffusione» di quella scuola, rivendicavano. nello studio delle culture primitive come in quello delle civiltà superiori, la necessità di una approfondita ricerca della coerenza interiore di tutti gli elementi che compongono ognuna di esse, dell’«idea centrale», della «visione del mondo»per cui tali elementi si strutturano in un organismo inconfrontabile e irripetibile, o, in altre parole, della “forma” che sottende ogni aspetto parziale di una cultura e lo riporta a quella visione centrale al di fuori della quale la stessa cultura sarebbe inafferrabile o inconcepibile. Come immediata conseguenza di una siffatta posizione generale di fronte all’intendimento di una cultura, per la Scuola di Francoforte e per i ricercatori da essa influenzati, il mito, lungi dall’essere una sorta di metafora di fenomeni cosmici o meteorologici, di aspetti positivi o negativi dell’uomo o, infine, di accadimenti storico-sociali realmente vissuti da un popolo, è espressione profonda e insostituibile di quel “Weltbild”, di quella immagine del mondo che regge - quale struttura interiore - una intera cultura e il suo divenire storico. In tal senso il mito è autonomo, come autonoma è la scienza dei miti rispetto alle altre scienze dell’uomo. Autonomo è il mito nel significato più letterale e semplice del vocabolo, ché esso ha in sé la propria legge, né deve derivarla da altro (strutture economico-sociali, vicissitudini politiche, gradi di conoscenza della natura raggiunti da un popolo ecc.), avendo nella coerenza interiore del mondo spirituale che esso esprime al contempo la propria sorgente e il proprio limite. Il mito è la forma originaria con cui lo spirito di una cultura definisce sé stesso, è l’espressione diretta anche se non unica di quella visione del mondo e dell’esistenza che caratterizza unitariamente e inconfondibilmente una cultura. Ciò non pertanto i miti, per la loro stessa natura esprimente visioni del mondo e aspetti fondamentali dell’esistere, possono varcare gli stretti confini di una cultura storicamente definita e ritrovarsi o in aree vastissime caratterizzate dal medesimo rapporto tra l’uomo e il mondo naturale o addirittura nell’intero dominio dell’umano, quali espressioni di situazioni intemporali e universali. Così Frobenius aveva enucleato la struttura fondamentale del ciclo dell’eroe quale la si ritrova identicamente presso le saghe di ogni popolo, così Jensen individuerà nel mito della divinità femminile che, morendo per mano dell’uomo, produce i beni culturali materiali della comunità, l’identica immagine del mondo che sottostà ad ogni cultura agricola primitiva o arcaica, e Kerényi vedrà nel mitologema del «fanciullo divino» e in quello della «Kore» forme universali del dramma stesso dell’esistenza. Si presenta ora legittima la domanda: se per un Kerényi il mito è autonomo, espressione pura e inderivabile di una visione del mondo che informa di sé un popolo e, al di là di confini etnici, culturali e linguistici, l’uomo stesso che nei miti rispecchia il proprio dramma universale, se il mito non ha altra legge che l’interna coerenza con cui si esprime, il ricercare, nell’esegesi mitologica, l’aiuto di uno psicologo non è già travalicare la sfera di quell’autonomia e voler ritrovare le fonti del mito nelle leggi pur sempre naturalistiche della psiche, come altri le avevano ricercate nelle strutture sociali o negli accadimenti storici o nell’inesatta comprensione delle norme del cosmo naturale? Non significa, in altre parole, questo ricorso al contributo di uno psicologo, un voler «psicologizzare» il mito, far decadere la sua «comprensione» (il “Verstehen” del fenomenologo) al livello dell’«interpretazione» (l‘“Erklaren” dello scienziato della natura)? La risposta a questa domanda sta nel pensiero stesso dello psicologo cui Kerényi ricorre per il commento dei mitologemi del «fanciullo divino» e della «Kore». In primo luogo Jung aveva elaborato, fin dal tempo dei “Tipi psicologici” (1921) una originale teoria del simbolo per cui questo, lungi dall’essere mero «segno» di qualcosa che sta al di là di lui, appunto una realtà «significata», è esso stesso una realtà operante: è attività autonoma della psiche intesa a sintetizzare contenuti consci e inconsci al fine di aprire sempre nuove vie alla libido, di progettare inesplorate dimensioni per l’incessante operare dell’energia che costituisce la base dinamica del divenire psichico dell’uomo. L’autonomia della vita simbolica (che non esclude ma si contrappone all’eteronomia della vita «segnica») costituisce forse il più originale contributo di Jung alla ricerca psicologica del nostro tempo e costituisce altresì la garanzia che l’apporto dello psicologo alla comprensione del mito non scadrà a un’«interpretazione» riduttiva dello stesso, essendo il mito niente altro che una forma fondamentale della vita simbolica stessa. In secondo luogo Jung aveva condotto a un elevato grado di chiarimento, nell’arco dei venti anni che precedono la stesura dei Prolegomeni, la sua concezione dell’inconscio collettivo delucidando la natura puramente formale delle sue strutture. Tali strutture, o «archetipi», per la concezione matura di Jung, altro non sono che pure forme o funzioni trascendentali operanti sui contenuti offerti dall’esperienza, dalla memoria e dall’inconscio personale. Come tali - e soltanto a questo titolo - esse strutture sono intemporali, rappresentando le modalità fondamentali dell’esistenza profonda di ogni individuo umano. L’autonomia della vita simbolica e il formalismo delle strutture inconsce collettive costituiscono dunque il giusto terreno d’incontro tra la ricerca di uno storico delle religioni e di uno psicologo. Non si tratta infatti di «spiegare» un mito con un aspetto più o meno patologico della vita psichica (il che comporterebbe la rinuncia all’autonomia del mito); si tratta al contrario di costatare come un tema mitologico, nelle innumerevoli variazioni in cui può ritrovarsi presso i popoli più disparati, altro non sia che l’espressione concreta e sensibile - volta a volta differente e variabile ma sostanzialmente unitaria - di una struttura intemporale dell’inconscio dell’uomo. In altre parole, la collaborazione dello storico delle religioni e dello psicologo non comporta, nel caso dei “Prolegomeni”, che il secondo s’ingegni a «ridurre» il mito (o il rito ad esso connesso) a espressione di uno stato psicopatologico ricorrente nella fenomenologia dell’uomo antico o moderno: questo era stato l’intendimento della scuola psicoanalitica classica che aveva cercato nella natura complessuale dell’inconscio la «spiegazione» di numerosi temi mitologici rivelatici dalla ricerca etnologica e storiografica. Si tratterà al contrario di mostrare come nella natura puramente formale dell’inconscio si possano reperire le matrici universali dei temi mitologici che per la vastità e l’intensità del loro ricorrere debbono a ragione essere chiamati universali. Complesso e archetipo si contrappongono in tal

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