"Piccolo Cesare" è il formidabile ritratto di un "boss", Rico Bandello, nell’arco della sua avventura: eccezionalmente capace, inesorabilmente freddo, professionalmente estraneo a ogni valutazione etica, straordinariamente fortunato. Esattamente come un qualunque self made man destinato ai massimi vertici del suo mondo sociale: «Rico Bandello, assassino e capobanda, non era affatto un mostro, ma soltanto un piccolo Napoleone, un piccolo Cesare». L’intenzione dichiarata dell’autore era di descrivere «l’immagine del mondo vista con gli occhi di un gangster» raccontando la storia «in modo che l’azione stessa parlasse». Ma c’è anche qualcosa di più. Tacito ed evidente come una scultura, c’è un tipo umano in tutto il suo spessore psicologico; e in tutta la sua tragedia: essere comunque sconfitto, dover sempre ricominciare. E sembra il mito triste di una più universale condizione, guardata da una provincia estrema dell’esistenza, com’è quella del gangster. Da qui nasce il fascino segreto, melanconico, filosofico, del romanzo criminale.