L’Unione africana e il ruolo dei paesi leader di fronte alle crisi regionali n. 89-bis – dicembre 2013 A cura dell’ISPI (Istituto Studi Politica Internazionale) L’Unione africana e il ruolo dei paesi leader di fronte alle crisi regionali di Gian Paolo Calchi Novati e Marta Montanini* a cura dell’ISPI (Istituto Studi di Politica Internazionale) dicembre 2013 * Gian Paolo Calchi Novati è Associate Senior Research Fellow per l’Osservatorio Africa dell’ISPI; Marta Montanini è ISPI Research Assistant per l’Osservatorio Africa dell’ISPI. INDICE Abstract Pag. 3 Introduzione » 4 1. Dall’OUA all’UA: come cambia il mandato » 4 2. Dispositivi e strumenti dell’Unione africana » 5 2.1 Il Peace and Security Council » 6 2.2 Il Panel of the Wise » 8 2.3 Il Continental Early Warning System » 9 2.4 Il Military Staff Committee » 9 2.5 L’African Standby Force » 10 2.6 L’African Peer Review Mechanism » 10 3. L’Architettura per la Pace e la Sicurezza Africana (Apsa) » 11 alla prova dei fatti 3.1. Operatività » 11 3.2. Finanziamento e sostenibilità » 13 3.3. Rapporti con le organizzazioni regionali e » 14 l’Organizzazione delle Nazioni Unite 4. Rivalità e leadership » 15 Conclusioni » 18 Appendice Tabella 1: Missioni di pace e principali interventi di mediazione » 21 effettuati dall’UA Tabella 2: Organizzazioni regionali africane e » 21 principali interventi effettuati 1 Abstract Questo approfondimento intende esplorare gli strumenti e le modalità a disposizione dell’Unione africana per l’intervento e la risoluzione delle crisi regionali, esaminan- do parallelamente il ruolo di alcuni paesi leader e l’importanza della loro influenza nelle scelte strategiche dell’organizzazione. Analizzando l’interpretazione e l’esecuzione del mandato dell’Unione nella prassi, le diverse funzioni espletate dai dispositivi previsti dall’Architettura per la pace e la si- curezza africana (APSA), e le caratteristiche delle relazioni con gli attori internazionali e regionali, vengono messe in evidenza le criticità di un’organizzazione che fatica a co- niugare autonomia, sostenibilità, coerenza e coesione. L’UA appare come un’organizzazione costantemente in divenire e non completa- mente realizzata, le cui lacune vengono, almeno in parte, colmate da potenze regionali come Sudafrica e Nigeria che, traendo vantaggio da indecisione e immobilità, impongo- no il loro peso politico fino a sostituirsi agli organi collettivi, o quanto meno a preceder- li e se del caso influenzarli. In questo senso, il rafforzamento della cooperazione bilaterale con l’UA da parte degli attori esterni e della stessa Italia, in termini di formazione, disponibilità di fondi e colla- borazione su temi comuni, potrebbe concorrere a riequilibrare e potenziare l’UA, ren- dendo il consesso panafricano realmente efficace. 3 Introduzione La creazione dell’Unione africana esprime la volontà degli Stati membri di dotarsi di dispositivi più adatti ad affrontare le crisi nel mondo globale, nonché la determinazione ad aumentare coesione, capacità e operatività dell’organizzazione panafricana, al fine di consolidare un’azione in cui sia data reale precedenza a soluzioni africane dei problemi africani. Introducendo la possibilità che organi collettivi interafricani intervengano quando l’autonomia dei singoli governi mette a rischio gli equilibri regionali e continentali ed enfatizzando la componente della promozione dei diritti umani e delle libertà democra- tiche, l’UA ha rinunciato al divieto d’interferenza per un più attuale divieto d’indifferenza. Gli interventi degli organismi dell’UA nelle recenti crisi hanno però messo in evidenza l’inadeguatezza di un’organizzazione che, in assenza di prassi defini- te e indebolita da vuoti normativi, fatica a chiarire e consolidare il suo mandato, e quin- di anche a coordinarsi in modo efficace con le organizzazioni regionali africane e a con- ferire reale sostenibilità alle proprie decisioni. Data l’eccessiva lentezza nella risposta alle crisi, la difficoltà di giungere a posizioni condivise e la scarsa autonomia eco- nomica, le potenze regionali, e in particolare il Sudafrica e la Nigeria, influenzano le decisioni dell’UA, spesso precedendo l’intervento dell’organizzazione e di fatto so- stituendosi agli organi collettivi. In questo senso, il rafforzamento della cooperazione multilaterale con l’UA, in termini di formazione e messa a disposizione di fondi, potrebbe essere un primo passo per migliorare le sorti di un’organizzazione in cerca di autonomia, credibilità e direzioni realmente percorribili. D’altro canto, riferirsi all’UA come interlocutore pri- vilegiato, salvo poi riservarsi uno spazio d’intervento unilaterale una volta constatata la debolezza dell’organizzazione nella risoluzione delle crisi africane, potrebbe essere una politica controproducente. 1. Dall’OUA all’UA: come cambia il mandato L’Organizzazione per l’Unità africana (OUA), fondata ad Addis Abeba nel mag- gio 1963, in piena decolonizzazione, si reggeva sui princìpi della sovranità degli Stati membri, della loro uguaglianza e della non interferenza negli affari interni di cia- scuno di essi. I governi africani erano gelosi dell’indipendenza appena conseguita, an- che se la Carta fondativa indicava comunque fra gli obiettivi dell’organizzazione la promozione dell’unità e solidarietà fra gli stati africani membri. L’obiettivo generale era dare una dimensione africana a politiche che dipendevano ancora in prima istanza dai rapporti con le ex-potenze coloniali e dall’appartenenza a comunità o blocchi che facevano capo alle maggiori potenze in materie delicate come la difesa o la moneta. Il tema comune su cui più facilmente si trovava l’intesa era l’eliminazione delle ultime posizioni coloniali e dei bastioni del razzismo bianco (in Sudafrica vigeva ancora l’apartheid e, in generale, l’Africa australe delle grandi risorse 4 minerarie e teatro degli insediamenti di bianchi più ingenti era rimasta esclusa dalla de- colonizzazione). Nel 1986 la ratifica da parte degli Stati africani della Carta dei diritti africani di Banjul, in Gambia, marca una sorta di passaggio intermedio fra la Carta dell’OUA e quella successiva dell’UA. Il clima in cui la Carta di Banjul viene elabora- ta è quello della seconda decolonizzazione, col crollo del colonialismo portoghese. Se la novità di questa Carta è rappresentata dall’affermazione dei diritti dei popoli, è altrettan- to vero che i diritti sovrani prevalgono sui diritti umani, che in ultima istanza sono limi- tati dalle leggi interne. L’accento è ancora posto sulla sicurezza nazionale e la preserva- zione dell’unità e dell’indipendenza degli stati. La svolta verso l’aggiornamento dell’OUA avviene quando alcuni leader africa- ni, spronati da Muammar Gheddafi, comprendono che i condizionamenti di cui si è dotata l’OUA impediscono che funzioni efficacemente. Allo stesso tempo, le pressioni internazionali per una decisa affermazione dei diritti umani si moltiplicano e diventano il cuore delle condizionalità degli aiuti internazionali e degli investimenti esteri. Nel 2002 a Durban, in Sudafrica, paese simbolo dell’affermazione dei diritti umani nell’Africa liberata, l’Unione africana vede la luce. Alla Carta aderiscono 53 paesi, tutti gli stati africani meno il Marocco, che si tiene in disparte a causa della pre- senza fra i firmatari della Repubblica araba sahrawi democratica (RASD), l’ex-Sahara Occidentale che il Marocco considera parte del suo territorio e ha in larga parte annesso. Con la Carta di Durban, che segna la costituzionalizzazione dei rapporti intera- fricani, la sovranità negativa, affermata e difesa nella Carta di Addis Abeba, viene rovesciata. Gli stati africani, meno concentrati sulla difesa dell’ormai acquisita indi- pendenza, operano per la costruzione di organi neutrali e istituzioni condivise a garanzia delle libertà civili e allo scopo di aumentare il rispetto da parte degli attori esterni. Nella Carta fondativa dell’UA vengono affermate la ricusazione dei rovesciamenti non costi- tuzionali di governo e la condanna del terrorismo (art.4), mentre viene sottolineata la promozione degli istituti democratici, della partecipazione popolare, della good gover- nance e dello sviluppo sostenibile (art.2). La Carta di Durban introduce la possibilità che organi collettivi interafricani inter- vengano quando l’autonomia dei singoli governi mette a rischio gli equilibri regionali e continentali (art.2), anche attraverso sanzioni, avvicinandosi al concetto della responsi- bility to protect delle Nazioni Unite. È istituita anche una Corte di giustizia (art.18). In sostanza avviene un passaggio dal divieto d’interferenza al divieto d’indifferenza. 2. Dispositivi e strumenti dell’Unione africana La struttura dell’UA è concepita secondo un approccio olistico alla sicurezza, che mette in relazione la pace, la sicurezza e lo sviluppo. Gli strumenti di cui si dota l’Unione africana sono contenuti nell’APSA (African Peace and Security Architecture), l’Architettura africana per la pace e la sicurezza. 5 L’APSA è prevista dall’art. 2 del protocollo PSC (protocollo relativo al Consiglio di sicurezza e pace) come un accordo di sicurezza collettiva e di allerta preventiva per faci- litare il tempestivo ed efficace intervento in caso di conflitti o situazioni di crisi. In so- stanza questo insieme di dispositivi risponde alla volontà dell’UA di predisporre stru- menti permanenti, invece d’intervenire nelle crisi con strutture create ad hoc come av- veniva per l’OUA. L’APSA è di fatto un processo istituzionale che potenzia l’UA in un senso nettamente più interventista. L’APSA è composta da diversi organismi la cui attivazione è condizionata all’approvazione del Consiglio per la pace e la sicurezza: il Consiglio dei saggi (Pa- nel of the Wise - PoW), che è una sorta di organo consultivo composto da esperti ester- ni; un sistema continentale di allerta preventiva (Continental Early Warning System - Cews), che opera come un centro per l’analisi e la raccolta dati; due strutture militari: l’African Standby Force (cioè una forza armata semipermanente - Asf) e il Military Staff Committee (un organo consultivo dedicato alle questioni prettamente militari - MSC); un fondo speciale per il finanziamento delle operazioni (Special Fund - Sf). Dal 2010 esiste anche un programma di Rapid Deployment Capability (RDC) che dovrebbe garantire la possibilità di effettuare un dispiegamento militare rapido, a fronte dei 30-90 giorni normalmente impiegati dall’UA. Nell’agosto del 2013 l’UA ha annunciato l’inizio della costituzione dell’ African Ca- pacity for Immediate Response to Crisis (AIRC), un dispositivo che dovrebbe poter con- tare su moduli operativi di 1500 unità e che, attivato nel 2013 e pronto per il 2015, do- vrebbe essere il precursore dell’Asf (che di fatto, pur essendo in programma da più di un decennio, non ha ancora visto la luce). 2.1 Il Peace and Security Council Le decisioni critiche in materia di sicurezza spettano all’Assemblea dei capi di stato e di governo, al Consiglio esecutivo dell’UA, al PSC ed alla Commissione. Il Protocollo relativo all’istituzione del PSC è stato approvato nel 2003 e nel 2004 lo stes- so PSC ha adottato il suo regolamento. La carica del presidente del Consiglio per la pace e la sicurezza è ricoperta a turno dai membri a rotazione per ordine alfabetico e per la durata di un mese. Il presidente della Commissione, sotto l’autorità del PSC e previa consultazione delle varie parti coinvolte in un conflitto, ha il mandato di avviare tutte le dovute iniziative e adoperarsi per la risoluzione dei conflitti. Di fatto quindi esiste una sorta di diarchia fra il presiden- te del PSC ed il presidente della Commissione. Sostanzialmente tutto ruota intorno alle decisioni del PSC: il PoW è a disposizione per la diplomazia preventiva, il CEWS fornisce le informazioni necessarie e l’ASF interviene militarmente. Il meccanismo APSA e le organizzazioni regionali sono di fatto interdipendenti: ad esempio, il funzionamento del CEWS è legato alla capacità del- le organizzazioni regionali africane di raccogliere e gestire le informazioni, come anche 6 il contributo degli Stati membri all’Asf in termini di uomini e mezzi passa attraverso un accordo a livello di organizzazioni regionali. La volontà dell’UA di intervenire attivamente nelle crisi è anche deducibile dall’aumento dei poteri dell’Assemblea che, al pari dell’organo esecutivo, decide per consenso ma, se necessario, con la maggioranza dei due terzi (art.7). Il Psc può prendere la maggior parte delle decisioni in nome dell’Assemblea. Si riu- nisce almeno due volte al mese ed è composto da quindici membri nominati su base re- gionale: quattro per l’Africa occidentale, tre per l’Africa centrale, tre per l’Africa orien- tale, due per l’Africa del Nord, tre per l’Africa australe. Cinque membri (uno per regio- ne) sono eletti per un periodo di tre anni e altri dieci per un periodo di due. I membri sono immediatamente rieleggibili. Non esiste diritto di veto. Di prassi, per essere mem- bro del Psc uno stato deve rispondere ad alcuni criteri, oltre, ovviamente, ad avere rati- ficato il Protocollo sul Psc: non essere sottomesso a sanzioni UA; avere partecipato e continuare a partecipare a operazioni di pace e sicurezza a livello sub-regionale e conti- nentale; contribuire al Peace Fund; avere missioni permanenti e sufficientemente strut- turate presso l’UA o l’Onu; contribuire al finanziamento dell’UA. Siccome non esistono criteri di scelta stabiliti per la nomina dei nuovi membri, le regioni applicano diverse procedure. Questo significa, ad esempio, che alcune regioni scelgono di mantenere in consiglio in modo permanente gli stati più influenti (come accade ad esempio per la Nigeria). Il Consiglio approva per consenso e, là dove non sia possibile raggiungerlo, a maggioran- za semplice o dei due terzi, questo significa che non è esente dal pericolo di diventare ostaggio dei membri diplomaticamente più abili e persuasivi. La presenza reiterata di membri influenti comporta anche che certi stati riescano a tenere le loro vicende interne fuori dal Consiglio, come è accaduto per la Nigeria, visto che né i violenti scontri fra cristiani e musulmani, né il problema della presenza dei ribelli del Mend e del gruppo terrorista Boko Haram sono stati mai affrontati in questa sede. Il mandato del Psc comprende: la promozione della pace, della sicurezza e della stabilità in Africa, la prevenzione dei conflitti, la promozione di attività di peacebuilding e po- stconflict resolution, la coordinazione degli sforzi per la lotta al terrorismo, lo sviluppo di una politica comune dell’Ua, il rafforzamento delle pratiche democratiche, della good governance, dei diritti umani, e la protezione delle libertà fondamentali. Di fatto il Psc dovrebbe essere garante e co-attore dell’esercizio della responsibility to protect, conciliandolo con il principio di non interferenza e non ingerenza che gli stati africani continuano a vedere come una delle maggiori garanzie della loro indipendenza e libertà. Il Psc dovrebbe in qualche modo fare sì che gli stati assolvano alla responsabi- lità di assicurare la tutela e il rafforzamento della human security dei loro cittadini senza alcun tipo d’intrusione o coercizione, e potenziando gli strumenti a loro disposizione per la difesa dei diritti umani. Teoricamente il Psc avrebbe mandato d’intervenire non solo dove si registrano violazioni gravi dei diritti, ma anche dove lo stato dimostra di non essere ripetutamente in grado di proteggere i suoi cittadini. Gli Stati membri dell’UA sono però ancora inclini a far prevalere la non interferenza intesa in senso classico, che 7
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