Dante Alighieri Monarchia traduzione di Pio Gaja Edizione di riferimento: Opere minori di Dante Alighieri, vol. II, UTET, Torino 1986 LIBRO PRIMO I Gli uomini tutti, cui la natura superiore ha infuso l'im pulso ad amare la verità, sembrano dare il massimo valore al fatto di lavorare per i posteri, onde questi ricavino un arricchimento dalle loro fatiche, così come essi stessi sono stati arricchiti dal lavoro degli antichi. Stia quindi pur certo di aver mancato al proprio dovere colui che, dopo aver fruito di tanti insegnamenti forniti dalla società, non si cura poi a sua volta di recare qualche contributo al bene comune: egli infatti non è un «albero che lungo il corso delle acque porta frutti nella sua stagione», ma piuttosto è una voragine perniciosa che ingoia sempre senza mai restituire quanto ha ingoiato. Perciò, ripensando spesso fra me queste cose e non volendo un giorno essere tacciato di aver colpevolmente sotterrato il mio talento, desidero non solo accrescere la mia cultura, ma anche portare frutti per il bene pubblico, dimostrando delle verità che altri non hanno mai affrontato. Quale frutto infatti arrecherebbe chi volesse dimostrare di nuovo un teorema di Euclide, oppure chi cercasse di ridefinire la felicità, già chiarita da Aristotele, o riprendesse a difendere la vecchiaia, già difesa da Cicerone? Decisamente nessuno, anzi tali noiose e superflue ripetizioni non arrecherebbero che fastidio. Siccome poi, tra le altre verità nascoste ma utili, quella relativa alla monarchia terrena è la più utile e la più nascosta e non è stata affrontata da nessuno, in quanto non offre la prospettiva di un guadagno immediato, mi sono proposto di strappare tale verità dai suoi nascondigli, nell'intento sia di rendere le mie laboriose veglie utili al mondo, e sia anche di riportare per primo, a mia gloria, la palma di una così nobile impresa. Certamente affronto un'opera ardua e superiore alle mie forze, ma confido non tanto nelle mie capacità, quanto nella luce di quel Dispensatore «che dà a tutti copiosamente senza rinfacciare mai». II Innanzitutto dobbiamo chiarire che cosa sia quell'istituto i detto «Monarchia temporale», partendo da una sua definizione nominale e dal concetto comune. La Monarchia temporale, detta anche Impero, è un unico principato che ha potere su tutti gli uomini e si esercita nel tempo, cioè in quelle questioni e sopra quelle istituzioni che hanno carattere temporale. A proposito di essa si fanno tre questioni principali, in quanto si discute per sapere: primo, se essa sia necessaria al benessere del mondo; secondo, se il popolo romano si sia attribuita di diritto la funzione di monarca; terzo, se l'autorità del monarca dipenda immediatamente da Dio o da qualche ministro o vicario di Dio. Siccome ogni verità, ad eccezione dei princìpi evidenti, si dimostra attraverso la verità di un qualche principio, è necessario, in qualunque ricerca, conoscere il principio al quale risalire analiticamente al line di certificare tutte le proposizioni che successivamente, vengono ad esso connesse. Ora, essendo il presente trattato una ricerca, ci pare necessario innanzitutto trovare un principio sul cui valore [di verità] si possano fondare le proposizioni che successivamente emetteremo. Occorre sapere che vi sono certe realtà, quali le realtà matematiche, fisiche e divine, che, non essendo assolutamente soggette al nostro potere, noi possiamo soltanto conoscere, ma non fare. Vi sono invece altre realtà che, essendo soggette al nostro potere, noi possiamo non solo conoscere, ma anche fare, e in questo caso il fare non è in funzione del conoscere, ma questo è in funzione di quello, poiché in tali realtà il fine è appunto la stessa operazione. Ora, siccome il nostro argomento riguarda l'ordinamento civile, anzi la fonte e il principio di ogni giusto ordinamento civile, e siccome ogni realtà riguardante la vita civile è soggetta al nostro potere, è evidente che il presente argomento attiene primariamente non alla teoria, ma alla pratica. Inoltre, poiché nell'attività pratica il principio e la causa di tutte le azioni è il fine cui tende in ultimo l'operazione — questo infatti costituisce il primo movente per il soggetto agente —, ne consegue che la specifica modalità delle azioni ordinate ad un fine va desunta esclusivamente dal fine stesso. Infatti la modalità nel tagliare il legno per la costruzione di una casa è diversa da quella per la costruzione di una nave. Pertanto se esiste un fine della convivenza civile di tutto quanto il genere umano, questo fine costituirà quel principio che chiarificherà sufficientemente tutte le nostre tesi che dovremo in seguito dimostrare. Sarebbe stoltezza del resto supporre che esista un fine di questa o di quella comunità civile e che non esista invece un fine unico comune a tutte le società prese nel loro complesso. III Dobbiamo dunque vedere quale sia il fine di tutta quanta la società umana: scoperto questo, avremo compiuto più della metà della nostra fatica, come dice il Filosofo nell'Etica a Nicomaco. Per rendere più immediatamente intuitivo l'oggetto della nostra indagine, occorre osservare che, come c'è un fine per cui la natura produce il pollice e un altro, diverso dal primo, per cui produce tutta la mano e un altro ancora, diverso dai primi due, per cui produce il braccio, ed infine un altro, diverso da tutti i precedenti, per il quale produce tutto l'uomo, così vi è un fine al quale essa ordina il singolo uomo, un altro al quale ordina la comunità famigliare, un altro ancora a cui ordina il villaggio, un quarto a cui ordina la città, un quinto a cui ordina il regno e per ultimo quel fine ottimo in vista del quale Dio eterno, attraverso la sua arte, che è la natura, chiama all'esistenza tutto il genere umano. [1] Ed è appunto questo fine che noi qui cerchiamo di individuare quale principio direttivo della nostra indagine. Per scoprirlo bisogna innanzitutto tener presente che «Dio e la natura non fanno mai nulla di inutile», ma tutti gli esseri creati esistono in vista di una propria operazione. Infatti l'ultimo fine presente nell'intenzione del creatore, in quanto creatore, non è l'essenza creata, ma l'operazione propria di quell'essenza, e di conseguenza non esiste l'operazione per l'essenza, ma l'essenza per l'operazione. C'è dunque un'operazione specifica, propria di tutta la società umana, alla quale è ordinata l'intera umanità in tutti i suoi innumerevoli componenti; a tale operazione però non può giungere né un uomo singolo, né una sola famiglia, né un solo villaggio, né una sola città e neppure un regno particolare. Ora quale sia questa operazione risulterà chiaro se riusciremo ad evidenziare la più alta facoltà propria di tutti gli uomini. Intanto io affermo che nessuna facoltà che sia condivisa da più individui di specie diversa può essere la facoltà più alta di qualcuno di essi, poiché, essendo la facoltà più alta il costitutivo della specie, ne seguirebbe che un'unica essenza specifica apparterrebbe a più specie diverse, il che è impossibile. Quindi la facoltà più alta dell'uomo non è quella semplicemente di esistere, perché tale facoltà è condivisa anche dai quattro elementi; e neppure quella di essere dotato di certe disposizioni qualitative, poiché questo si verifica anche nei minerali; né quella di esistere in modo animato, poiché così esistono anche le piante; né quella di conoscere semplicemente, poiché anche i bruti partecipano di tale facoltà; ma quella di conoscere per mezzo dell'intelletto possibile, il che non compete a nessun altro essere superiore o inferiore all'uomon. Infatti, sebbene vi siano altri esseri forniti di intelletto, tuttavia il loro non è l'intelletto possibile come quello dell'uomo, poiché tali esseri non sono altro che specie intellettive, il cui essere non è altro che l'intuire le essenze delle cose, il che avviene senza la mediazione empirica, altrimenti non sarebbero eterne. È chiaro quindi che la più alta facoltà dell'umanità è la facoltà o potenza intellettiva. E poiché tale potenza non può essere tutta quanta simultaneamente tradotta in atto da parte di un solo uomo o di qualcuna di quelle società particolari suaccennate, occorre necessariamente che nel genere umano vi sia una moltitudine di uomini, ad opera dei quali quella potenza venga totalmente attuata, così come è necessaria una moltitudine di cose generabili affinché tutta la potenza della materia prima sia sempre attuata, altrimenti esisterebbe una potenza separata [dall'atto], il che è impossibile. Con tale giudizio concorda Averroè nel commento al De anima. Quella potenza intellettiva di cui sto parlando non è orientata solo alle forme universali o specie, ma, per una certa estensione, anche alle forme particolari, per cui si usa dire che l'intelletto speculativo per estensione diventa pratico e, come tale, ha per fine l'agire e il fare. Intendo riferirmi, per esempio, alle azioni regolate io dalla saggezza politica e alle produzioni di oggetti che sono regolate dall'arte: sia le une che le altre sono subordinate alla speculazione come al fine più alto, per raggiungere il quale la Bontà Prima chiamò all'esistenza il genere umano. Già da questo si comprende chiaramente l'affermazione della Politica che «gli uomini dotati di vigoroso intelletto sono per natura dominatori degli altri». IV È stato così chiarito sufficientemente che l'operazione specifica del genere umano preso nella sua totalità è quella di attuare sempre tutta la potenza dell'intelletto possibile, prima mediante l'attività speculativa e poi, in forza e per estensione di questa, mediante l'attività pratica. Siccome nell'uomo singolo avviene che, vivendo in condizioni di calma e di tranquillità, si perfezioni in saggezza e in sapienza, è chiaro che — secondo il detto che ciò che vale per la parte vale per il tutto — anche il genere umano, vivendo nella quiete, cioè nella tranquillità della pace, può compiere, nel modo più libero e facile, la sua attività specifica [2] che è quasi divina, secondo il detto: «Lo facesti di poco inferiore agli angeli». Di qui appare evidente che la pace universale è il massimo dei beni che sono ordinati alla nostra felicità. Ed è appunto per questo che la voce dall'alto non annunciò ai pastori né ricchezze, né piaceri, né onori, né lunga vita, né salute, né forza, né bellezza, ma pace. Infatti la milizia celeste cantò: «Gloria a Dio nell'alto dei cieli e pace in terra agli uomini di buona volontà». Ed è ancora per questo che il Salvatore degli uomini salutavi con le parole: «Pace a voi»; si addiceva infatti al Sommo Salvatore usare la massima forma di saluto, della quale poi i suoi discepoli e Paolo vollero conservare l'uso nell'in viare i loro saluti, come tutti possono constatare. Da queste chiarificazioni risulta quale sia la condizione migliore, anzi ottima, attraverso la quale il genere umano può pervenire alla sua operazione specifica, e di conseguenza si è potuto individuare nella pace universale il mezzo più immcdinlo per giungere a quella felicità cui sono ordinate, come a fine ultimo, tutte le nostre attività; dobbiamo quindi assumere questa pace come principio che sorregge tutti i ragionamenti successivi, principio che era necessario stabilire, come si è detto, quale punto di riferimento prefissato cui ricondurre, come a verità assiomatica, tutte le altre verità che emergeranno dalle nostre dimostrazioni. V Riprendendo quindi quanto si diceva all'inizio, tre sono gli interrogativi e le questioni principali che si pongono a proposito della monarchia temporale, che più comunemente viene detta Impero; su tali questioni è mio proposito fare un'indagine, come si è detto, partendo dal principio sopra stabilito e procedendo secondo l'ordine già indicato. Pertanto, la prima questione è questa: se la Monarchia temporale sia necessaria al buon ordinamento del mondo. La risposta affermativa si può dimostrare con argomenti chiarissimi e validissimi che non sono contraddetti da nessuna istanza di ragione o di autorità. Il primo di tali argomenti si può desumere dalla sentenza del Filosofo il quale, nella sua Politica afferma, con veneranda autorità, che quando più elementi sono ordinati ad un unico fine, occorre che uno guidi, cioè governi e gli altri siano guidati, cioè governati. Tale affermazione va accettata non solo per il glorioso nome dell'Autore, ma anche in forza di un ragionamento induttivo. Infatti, se prendiamo in considerazione un singolo uomo, constatiamo che, pur essendo tutte le sue facoltà orientate a conseguire la felicità, la facoltà intellettiva è quella che dirige e governa tutte le altre, altrimenti quell'uomo non potrebbe raggiungere la felicità. Se prendiamo in considerazione una famiglia, il cui fine è quello di preparare i suoi componenti al ben vivere, è necessario che vi sia uno che la diriga e la governi, il cosiddetto padre di famiglia oppure chi ne fa le veci, secondo quanto dice il Filosofo: «Ogni casa è governate dal più anziano». Il suo compito, come dice Omero, è quello di dirigere tutti e di imporre leggi agli altri; per questo è passata in proverbio quell'imprecazione: «Che tu abbia in casa uno pari a te». Se consideriamo un villaggio, il cui fine è quello di un più facile soccorso di persone e di cose, è necessario che vi sia un capo che diriga gli altri, sia esso imposto da un'altra autorità, oppure eletto, per comune consenso, quale persona più eminente fra tutti; altrimenti non solo non si giunge a quel reciproco aiuto nel procurarsi il sufficiente per vivere, ma talvolta, quando appunto più persone vogliono comandare, tutto il villaggio può andare in rovina. Se poi consideriamo una città, il cui fine è il ben vivere e il vivere con sufficienza di mezzi, [3] è necessario che vi sia un unico governo, e questo non soltanto nell'ordinamento politico giusto, ma anche in quello corrotto; in caso contrario non solo non si raggiunge più il fine della vita civile, ma anche la città cessa di essere quella di prima. Se infine consideriamo un regno particolare, il cui fine è identico a quello della città, ma con una maggior sicurezza per la conservazione della tranquillità, è necessario che vi sia un solo re che regni e governi, altrimenti non solo i sudditi non conseguono il loro fine, ma anche il regno va in rovina, secondo il detto dell'infallibile Verità: «Ogni regno diviso in se stesso andrà in rovina». Se dunque ciò si verifica in queste comunità e in quante sono ordinate ad un fine, allora la tesi ammessa sopra è vera; ora noi sappiamo che tutto il genere umano è orientato ad un fine, come si è già dimostrato precedentemente; quindi è necessario che vi sia uno che lo guidi e lo governi, e questi va chiamato Monarca o Imperatore. E così risulta dimostrato che la Monarchia, o Impero, è necessaria al buon ordinamento del mondo. VI Inoltre come la parte sta al tutto, così l'ordine della parte sta all'ordine del tutto; ora la parte sta al tutto come al fine e alla perfezione; quindi anche l'ordine della parte sta all'ordine del tutto come al fine e alla perfezione. Da ciò consegue che la bontà dell'ordine parziale non supera la bontà dell'ordine totale, ma è vero piuttosto il contrario. Pertanto, essendoci nelle cose un duplice ordine, quello delle parti fra loro e quello delle parti rispetto ad un elemento che non è parte — come, per esempio, l'ordine delle parti di un esercito fra di loro e l'ordine di queste parti rispetto al comandante —, l'ordine delle parti rispetto a quell'elemento unitario è migliore, in quanto tale ordine è il fine del primo ordine: questo infatti esiste in funzione di quello e non viceversa. Perciò, se la forma di quell'ordinamento «ad unum» si trova nei gruppi parziali della moltitudine umana, tanto più deve trovarsi nella moltitudine come tale, ossia nella società umana globale, in forza del precedente sillogismo, in quanto tale ordine è migliore, ossia è la forma dell'ordine; ora quell'ordine si trova effettivamente in tutti i gruppi parziali della moltitudine umana, come risulta in modo abbastanza chiaro da quanto detto nel capitolo precedente; quindi si deve trovare anche nella società umana globale. E così tutti i predetti raggruppamenti parziali inferiori ai regni, e gli stessi regni, devono essere ordinati ad un unico principe, ovvero ad un unico principato, cioè al Monarca, ovvero alla Monarchia. VII Inoltre, la società umana è un tutto rispetto a certe parti ed a sua volta è una parte rispetto ad un ulteriore tutto. Infatti è un tutto rispetto ai regni particolari e ai popoli, come si è visto sopra, ed è una parte rispetto alla totalità dell'universo, come risulta di per sé evidente. Pertanto, come i raggruppamenti parziali della società umana si inquadrano ordinatamente in essa, così essa deve inquadrarsi ordinatamente nel tutto di cui fa parte; ora i raggruppamenti parziali si inquadrano ordinatamente nella società umana per il fatto che sono retti da un unico capo, come si può facilmente rilevare da quanto detto sopra; quindi anche la società umana si inquadra con perfetto ordine nell'universo e in rapporto al suo principe, che è Dio e Monarca, in quanto anch'essa è guidata da un unico capo, cioè dall'unico principe. Da ciò si deduce che la Monarchia è necessaria al buon ordinamento del mondo. VIII Ancora, tutti gli esseri sono bene, anzi perfettamente ordinati, se sono conformi all'intenzione della causa prima che è Dio (il che è di per sé evidente, tranne per chi nega che la bontà divina raggiunga il sommo grado di perfezione); ora l'intenzione di Dio è che ogni creatura porti impressa in sé la somiglianza divina nella misura in cui la sua natura è capace di riceverla (per questo fu detto: «Facciamo l'uomo a nostra immagine e somiglianza», e benché la espressione «ad immagine» non possa applicarsi agli esseri inferiori all'uomo, tuttavia l'espressione «a somiglianza» si può riferire ad ogni creatura, in quanto tutto l'universo non è che un vestigio della bontà divina); quindi il genere umano è bene, anzi ottimamente ordinato, quando esso presenta una somiglianza con Dio secondo la possibilità della sua natura. Ma il genere umano è massimamente somigliante a Dio quando è massimamente uno (solo in Dio infatti si realizza veramente l'unità nella sua essenza formale, secondo quanto è scritto: «Ascolta, Israele: il Signore Dio tuo è uno»); ora il genere umano è massimamente uno quando è totalmente unificato in un unico organismo, il che non può verificarsi se non è totalmente soggetto ad un unico principe, come è evidente di per sé; quindi il genere umano, quando è soggetto ad un solo principe, assomiglia massimamente a Dio, e di conseguenza è massimamente conforme all'intenzione divina, e quindi è bene, anzi ottimamente ordinato, come si è dimostrato all'inizio di questo capitolo. IX Parimenti ogni figlio raggiunge una buona, anzi una perfetta maturazione, quando, nei limiti concessi dalla propria natura, imita le orme di un padre perfetto; ora il genere umano è figlio del cielo, che è perfettissimo in ogni opera sua (infatti l'uomo e il sole generano l'uomo, come è detto nel secondo libro della Fisica); quindi il genere umano raggiunge la sua perfezione quando, nei limiti consentiti della sua natura, imita l'immagine del cielo. E siccome tutto il cielo in tutte le sue parti, sia nei suoi moti che nei suoi motori, è regolato da un unico moto, quello del primo mobile, e da un unico motore, che è Dio — come la ragione umana, filosofando, arriva a conoscere in modo evidentissimo, se ha ragionato a rigor di logica —, così il genere umano è ottimamente ordinato quando i suoi motori [cioè i governanti] ed i suoi movimenti sono regolati da un unico principe, quale unico motore, e da un'unica legge, quale unico moto. Perciò, per il buon ordinamento del mondo, sembra necessaria l'esistenza della Monarchia, cioè di un unico principato chiamato «Impero». Tale motivo era sfiorato da Boezio in questa sospirante esclamazione: O degli uomini stirpe felice, se gli animi vostri reggesse l'amor che il ciel governa. X Inoltre, ovunque possa sorgere una lite, deve intervenire una sentenza dirimente, altrimenti vi sarebbe uno stato di cose imperfetto, senza un rimedio che lo risani, il che è impossibile, poiché Dio e la natura non vengono meno nelle cose necessarie; ora tra due prìncipi qualsiasi, di cui l'uno non è assolutamente soggetto all'altro, può sorgere una lite, sia per colpa loro oppure per colpa dei sudditi, come è di per sé evidente; quindi è necessario che tra essi intervenga un giudizio dirimente. E siccome uno non può inquisire e giudicare l'altro per il fatto che uno non è soggetto all'altro — il pari infatti non ha potere sul suo pari —, è necessario che vi sia una terza persona investita di più ampia giurisdizione, la quale, nell'ambito della sua competenza, abbia potere su entrambi. Costui sarà il Monarca, oppure no: se è il Monarca, è raggiunto l'intento; se no, egli si troverà a sua volta di fronte ad un altro di pari grado, fuori dell'ambito della sua giurisdizione, ed allora sarà necessario ricorrere ad un terzo giudice. E così, o si avrà un processo all'infinito, che è impossibile, oppure bisognerà giungere ad un primo e supremo giudice, dal cui giudizio vengano definite, direttamente o indirettamente, tutte le liti, e questi sarà il Monarca o Imperatore. La Monarchia dunque è necessaria al mondo. Questa tesi era ben presente al Filosofo quando diceva: «Le cose non sopportano di essere disposte male; ora la pluralità dei principati è un male; quindi il principe deve essere uno solo». XI Inoltre, il mondo è ordinato nel modo più perfetto quando in esso domina sovrana la giustizia — è per questo che Virgilio, volendo celebrare la nuova età, che sembrava stesse per sorgere ai suoi tempi, cantava nelle sue Bucoliche: Già ritorna la Vergine, ritornano i regni di Saturno. «Vergine» infatti era detta la giustizia, che veniva pure chiamata «Astrea», e «regni Saturni» erano chiamati i tempi felicissimi, denominati anche età dell'oro —; ora la giustizia domina sovrana solo sotto il monarca; quindi l'esistenza della Monarchia o Impero è richiesta per un perfetto ordinamento del mondo. Per dimostrare la minore, bisogna osservare che la giustizia, considerata in sé e nella propria natura, è una certa rettitudine o una regola che respinge quanto da una parte o dall'altra si scosta dalla via retta, e perciò non accoglie in sé il più e il meno, analogamente alla bianchezza considerata nel suo concetto astratto. Vi sono infatti certe forme di tal natura che, pur trovandosi accidentalmente in un composto, [prese in sé stesse] consistono in una essenza semplice ed invariabile, come giustamente afferma il Maestro dei Sei Principii. Tuttavia tali qualità accolgono in sé il più e il meno da parte dei soggetti nei quali si concretizzano e nella misura in cui in tali soggetti si mescolino più o meno le qualità contrarie. Pertanto il massimo di giustizia si ha dove è minima la mescolanza con il contrario della giustizia sia riguardo all'abito che riguardo all'operazione; ed allora ad essa sono veramente applicabili le parole del Filosofo: «Né Espero né Lucifero è così ammirabile» poiché allora è simile a Febe quando da posizione diametralmente opposta guarda al fratello nel cielo purpureo di un sereno mattino. Ora, per quanto riguarda l'abito, la giustizia trova talvolta il suo contrario nella volontà, poiché, quando la volontà non è scevra da ogni cupidigia, anche se in essa c'è giustizia, questa tuttavia non risplende in tutto il fulgore della sua purezza, perché trova nel soggetto una qualche resistenza, seppur minima; per questo motivo, coloro che cercano di influenzare emotivamente il giudice vengono giustamente espulsi [dai tribunali]. Per quanto invece riguarda l'operazione, la giustizia può trovare il suo contrario nel potere, ed infatti, essendo la giustizia una virtù che regola i rapporti con gli altri, come potrà operare secondo giustizia chi non ha il potere di rendere a ciascuno il suo?. Da questo risulta evidente che quanto più grande è il potere del giusto, tanto maggiore sarà la giustizia nel suo operare. Sulla base di questi chiarimenti si può fare la seguente argomentazione: la giustizia regna sovrana nel mondo quando risiede in un soggetto dotato di fortissima volontà e di sommo patere; ora, solo il Monarca è un soggetto di tal genere; quindi la giustizia regna sovrana nel mondo soltanto quando risiede nel Monarca. Questo prosillogismo appartiene alla seconda figura, presenta una negazione intrinseca, ed è simile a questo: ogni B è A; ora solo C è A; quindi solo C è B; o meglio: ogni B è A; ora nessuno, tranne C, è A; quindi nessuno, tranne C, è B. La premessa maggiore è evidente per i chiarimenti forniti precedentemente; la minore si dimostra con l'argomentazione che segue e che riguarda dapprima la volontà e poi il potere. Per dimostrare il primo punto [relativo alla volontà], bisogna osservare che alla giustizia è massimamente contraria la cupidigia, come afferma Aristotele nel quinto libro dell'Etica a Nicomacou. Eliminata radicalmente la cupidigia, non vi rimane più nulla che si opponga alla giustizia; onde la sentenza del Filosofo è che non vada lasciato alla discrezionalità del giudice quanto si può stabilire per legge. Tale prassi si impone per tema della cupidigia che facilmente travia le menti umane. Pertanto, dove non c'è nulla da desiderare, non vi può essere cupidigia, poiché le passioni non possono più sorgere una volta eliminati i loro oggetti; ora il Monarca non ha più nulla da desiderare, poiché la sua giurisdizione è limitata soltanto dall'oceano (il che non si verifica per gli altri prìncipi i cui dominii confinano con altri dominii, come, per es., quello del re di Castiglia, che confina con quello del re di Aragona); quindi il Monarca, tra tutti gli uomini, è il soggetto di giustizia più esente da ogni cupidigia. Inoltre, come la cupidigia, per quanto piccola sia, offusca l'abito della giustizia, così la carità, cioè il retto amore, lo rende più forte e più illuminato. Perciò, la persona che è capace di raggiungere il più alto grado di retto amore può attingere il massimo livello di giustizia; ora, questa persona è il monarca; quindi, con il monarca si instaura, o può instaurarsi, il massimo di giustizia. Che poi il retto amore produca tali effetti si può dedurre dal fatto che la cupidigia, spregiando il Bene supremo degli uomini, cerca altri beni, mentre la carità, spregiando tutti gli altri beni, cerca Dio e l'uomo, e di conseguenza il vero bene dell'uomo. E siccome, fra tutti i beni dell'uomo, grandissimo è quello di vivere in pace, come si è detto sopra, e questo bene si raggiunge principalmente ed essenzialmente attraverso la giustizia, questa riceverà grandissimo vigore dalla carità, e tanto più quanto più quest'ultima sarà intensa. Che poi nel monarca debba trovarsi in sommo grado il retto amore degli uomini si dimostra nel modo seguente: ogni oggetto amabile è tanto più amato quanto più è vicino a chi l'ama; ora gli uomini sono più vicini al monarca che agli altri principi; quindi essi sono o debbono essere amati dal monarca più che da ogni altro. La premessa maggiore è evidente se si considera la natura degli agenti e dei pazienti; la minore è dimostrata dal fatto che agli altri prìncipi gli uomini sono vicini solo in parte, al monarca invece nella loro totalità. Si aggiunga che gli uomini si avvicinano agli altri prìncipi attraverso il monarca e non viceversa, e quindi la cura del monarca verso tutti gli uomini è originaria ed immediata, mentre quella degli altri prìncipi passa attraverso la mediazione del monarca in quanto deriva dalla sua cura suprema. Inoltre, quanto più una causa è universale, tanto più è causa (la causa inferiore infatti non è causa se non in forza di quella superiore, come risulta dal libro «Delle cause»), e quanto più una causa è causa, tanto più ama il suo effetto, poiché tale amore è conseguenza diretta dell'essere causa; ora, il monarca è, tra gli uomini, la causa più universale del loro ben vivere (mentre gli altri prìncipi sono causa attraverso la mediazione del monarca, come si è detto); quindi il monarca ama il bene degli uomini più di ogni altro. [Per il secondo punto], chi potrebbe mettere in dubbio che il monarca abbia il massimo potere per attuare la giustizia se non colui che non intende che cosa significhi quel nome? Se egli infatti è effettivamente monarca, non può avere nemici. E così è stata sufficientemente dimostrata 20 la premessa minore del sillogismo principale, e pertanto è certa la conclusione che la monarchia è necessaria per un perfetto ordinamento del mondo. XII Inoltre, il genere umano vive nella sua condizione più perfetta quando è massimamente libero. Questo risulterà chiaro se si mette in luce qual'è il principio della libertà. Bisogna infatti tener presente che il principio primo della nostra libertà è il libero arbitrio, che molti hanno sulle labbra, ma pochi nella mente. Molti infatti arrivano ad affermare — e dicono il vero — che il libero arbitrio è il libero giudizio circa la volontà, ma sfugge loro il vero significato di queste parole (cosa che capita continuamente ai nostri dialettici riguardo a certe proposizioni inserite, a mo' di esempi, nei trattati di logica, come questa: «Il triangolo ha tre angoli uguali a due retti»). Perciò io affermo che il giudizio sta in mezzo tra la semplice conoscenza e l'appetito: dapprima infatti si apprende l'oggetto, poi si giudica se l'oggetto appreso è buono o cattivo e infine si raggiunge o si fugge l'oggetto. Quando il giudizio muove totalmente l'appetito senz'essere per nulla prevenuto da questo, allora è libero; quando invece il giudizio è mosso dall'appetito, che in qualsiasi modo lo previene, allora non può essere libero, poiché non si determina più da sé, ma è servilmente determinato da un altro. Ne consegue che i bruti non possono avere un libero giudizio, poiché i loro giudizi sono sempre prevenuti dall'appetito. Parimenti se ne può dedurre che le sostanze intellettive, le cui volontà sono immutabili, nonché le anime separate che si dipartono santamente da questo mondo, non perdono il libero arbitrio per l'immutabilità della loro volontà, ma lo conservano nel modo più perfetto e pieno. Messo in chiaro questo punto, si può concludere con altrettanta evidenza che questa libertà, o meglio questo principio di ogni nostra libertà, è il massimo dono fatto da Dio alla natura umana — come ho già detto nel Paradiso della Commedia — perché, grazie ad esso, possiamo raggiungere la felicità su questa terra come uomini e nell'aldilà come dèi. Stando così le cose, chi potrà negare che il genere umano si trova nella sua condizione più perfetta quando possa godere pienamente di quel principio [della libertà]? Ora, esso gode della massima libertà proprio quando vive sotto il monarca. Per convincersene bisogna tener presente che è libero quell'essere che è padrone di se stesso e non dipende da un altro, come afferma il Filosofo nella Metafisica: quello infatti che dipende da un altro è necessitato da questo, come la via è necessariamente determinata dalla meta. Ora, soltanto sotto la signoria del monarca il genere umano è padrone di se stesso e non dipende servilmente da altri: solo con la monarchia, infatti, vengono corrette le forme degenerate di governo, cioè le demagogie, le oligarchie e le tirannidi che riducono in servitù il genere umano — come risulta evidente a chi le esamini singolarmente —, mentre il re, gli aristocratici, detti ottimati, ed i promotori della libertà del popolo possono instaurare un buon governo, poiché il Monarca, amando massimamente gli uomini, come si è accennato, vuole che tutti diventino buoni, cosa che non può realizzarsi con governanti corrotti. Per questo il Filosofo, nella sua Politica, afferma che in una forma corrotta di governo l'uomo buono è un cattivo cittadino, mentre in una forma retta di governo l'uomo buono e il cittadino buono si identificano. Queste forme rette tendono a promuovere la libertà, cioè a far sì che gli uomini vivano per sé. Infatti non i cittadini sono in funzione dei consoli, né il popolo del re, ma, al contrario, i consoli sono in funzione dei cittadini e il re del popolo, poiché, come l'ordinamento politico non è fatto per le leggi, ma anzi le leggi si fanno per l'ordinamento politico, così coloro che vivono secondo la legge non sono ordinati al legislatore, ma piuttosto questo è ordinato a quelli, come afferma anche il Filosofo negli scritti lasciatici sull'argomento. Dal che risulta evidente che il console o il re, sebbene siano signori degli altri riguardo ai mezzi, sono invece ministri degli altri riguardo al fine, e in modo particolare lo è il Monarca, che va ritenuto indubbiamente il ministro di tutti. Da questo si può altresì comprendere cime il Monarca nel fare le leggi sia necessariamente vincolato da un fine che gli è precostituito. Si conclude quindi che il genere umano, vivendo sotto il Monarca, si trova nella sua condizione più perfetta. E da ciò consegue che la monarchia è necessaria per il buon ordinamento del mondo. XIII Ancora: chi può essere perfettamente idoneo a governare può anche rendere perfettamente idonei gli altri, poiché in ogni azione l'agente, sia che agisca per necessità di natura o per libera volontà, tende soprattutto a produrre qualcosa di simile a se stesso. Onde avviene che ogni agente, in quanto tale, trova gioia nell'agire, poiché, se ogni ente desidera il proprio essere, e l'essere dell'agente in qualche modo si perfeziona nell'azione, esso raggiunge necessariamente la gioia, in quanto questa è sempre connessa al possesso dell'oggetto desiderato. Nessun ente dunque agisce, se non possiede già in atto le qualità che il paziente deve acquisire — per cui il Filosofo nella Metafisica scrive: «Ogni ente che passa dalla potenza all'atto passa in virtù di un ente già in atto» —, e se un ente cercasse di agire senza possederle in atto, il suo sforzo sarebbe vano. Con ciò si può sconfìggere l'errore di coloro che credono di poter plasmare vita e costumi altrui parlando bene, ma operando male, dimentichi che le mani di Giacobbe ebbero un potere di persuasione maggiore delle sue parole, quantunque quelle persuadessero il falso e queste invece il vero. Perciò il Filosofo nell’Etica a Nicomaco dice: «In quanto concerne le passioni e i comportamenti, le parole sono meno credibili delle opere». Di qui si spiega anche la domanda rivolta dall'alto a Davide peccatore: «Perché vai celebrando le mie opere di giustizia?», quasi a voler dire: «Tu parli a vuoto, perché sei diverso da quello che predichi». Da queste considerazioni si può dedurre che chi vuole creare le migliori disposizioni negli altri deve egli stesso possedere tali disposizioni. Ora solo il Monarca è la persona che può avere le migliori disposizioni per poter governare. Il che si dimostra nel seguente modo: ogni essere tanto più facilmente e perfettamente possiede una disposizione ad assumere un abito e a tradurlo nell'azione, quanto minori sono in esso gli elementi contrastanti tale disposizione, onde coloro che non hanno mai udito parlare di filosofia arrivano a formarsi l'abito della verità filosofica più facilmente e perfettamente di quelli che ne sentirono parlare a lungo, ma sono stati imbevuti di false opinioni; per questo giustamente Galeno afferma che «costoro hanno bisogno di un tempo doppio per acquisire il sapere». Ora, ammesso quanto sopra dimostrato, che cioè solo il Monarca, tra tutti gli uomini, non ha alcun incentivo alla cupidigia, o l'ha in minimo grado, — il che non si verifica per gli altri prìncipi —, e ammesso che solo la cupidigia corrompe il giudizio e ostacola la giustizia, ne consegue che solo il monarca può avere, assolutamente o più di tutti, la miglior disposizione per governare, dato che più di tutti gli uomini egli è in grado di possedere giudizio e senso di giustizia, due qualità che si addicono soprattutto al legislatore e all'esecutore della legge, secondo la testimonianza di quel santissimo re che, volendo chiedere a Dio quanto fosse necessario al re e al figlio di re, diceva: «Dio, concedi al re il tuo giudizio e al figlio di re la tua giustizia». Pertanto è giusta l'affermazione fatta nella premessa minore, che cioè solo il monarca è quello che può trovarsi nella migliore disposizione per governare e quindi solo lui può creare simili disposizioni negli altri [prìncipi]. Ne consegue che la Monarchia è necessaria per una perfetta organizzazione del mondo. XIV Inoltre, un effetto che si può ottenere con una sola causa i è meglio si ottenga con quella sola che con più cause. Il che si dimostra nel modo seguente: A sia una causa capace da sola di produrre un certo effetto, A e B siano due cause che possono produrre ugualmente lo stesso effetto; ora, se il medesimo effetto ottenuto da A e B può essere ottenuto anche solo da A, è inutile ricorrere a B, poiché l'aggiunta di B non produce nulla, dato che quell'effetto è già ottenuto dal solo A. E siccome tale aggiunta è totalmente oziosa, cioè superflua, e ogni cosa superflua dispiace a Dio e alla natura, e ciò che dispiace a Dio e alla natura è male — come di per sé è evidente —, ne consegue non soltanto che è meglio che un effetto sia ottenuto possibilmente da una sola causa piuttosto che da più, ma che il venir prodotto da una sola è bene, da più è assolutamente male. Inoltre una cosa si dice migliore in quanto è più vicina all'ottimo, ed il fine ha valore di ottimo; ora, l'esser prodotto da una sola causa è più vicino al fine; quindi è cosa migliore. E che sia più vicino al fine si dimostra nel seguente modo: C sia il fine; A sia l'unica causa [di quel fine]; A e B siano più cause [subordinate]; è chiaro che la via da A attraverso B fino a C è più lunga che il passaggio immediato da A a C. Ora il genere umano può essere governato da un solo principe supremo che è il Monarca. A questo proposito occorre però avvertire che l'affermazione: «il genere umano può essere governato da un solo principe supremo» non va intesa nel senso che da lui solo possano direttamente provenire i decreti regolanti, nei minimi dettagli, ogni singolo municipio (quantunque anche le leggi municipali siano talora difettose e debbano essere interpretate, come risulta dal Filosofo che, nel quinto libro dell'Etica a Nicomaco, raccomanda l'epiìkia [4], poiché le nazioni, i regni, le città hanno usi e costumi diversi tra loro, che vanno regolati con leggi diverse, in quanto la legge è la regola direttiva del vivere. E infatti le leggi che regolano gli Sciti viventi oltre la settima zona climatica, costretti a subire la grande diversità di durata dei giorni e delle notti e quindi afflitti da un freddo rigido quasi intollerabile, devono essere diverse da quelle dei Garamanti che, abitando sotto il circolo equinoziale, con la luce del giorno di ugual durata delle tenebre della notte, non sopportano alcun indumento, per l'eccessiva calura dell'atmosfera. Quell'affermazione invece va intesa nel senso che il genere umano deve essere governato dall'imperatore nella sfera degli interessi comuni che riguardano tutti gli uomini, e dev'essere guidato alla pace mediante una legge universale. I prìncipi particolari devono ricevere da lui tale legge, così come l'intelletto pratico, per arrivare alla conclusione relativa all'azione, riceve dall'intelletto speculativo il principio universale sotto cui sussume l'azione particolare, che è il suo oggetto proprio, per concludere al giudizio particolare su tale azione. Quella funzione regolativa universale non solo può, ma deve essere esercitata da uno solo, per evitare qualsiasi confusione sui principii universali. Mosè scrive nella Legge di aver proceduto lui stesso in questo modo, in quanto, scelti i capi delle tribù dei figli di Israele, lasciava a loro le decisioni minori, riservando a sé le decisioni di maggior importanza e di interesse generale, delle quali poi i capi si avvalevano nelle loro tribù, applicandole alle situazioni di ognuna. Quindi è meglio che il genere io umano sia governato non da più, ma da uno solo, cioè dal Monarca, che significa appunto principe unico; e se ciò è meglio, è più accetto a Dio, perché Dio vuole sempre ciò che è meglio. E siccome tra due termini posti a confronto soltanto tra loro quello che è migliore si identifica con «il migliore», ne consegue che tra quell'«uno» e quei «più» il primo non solo è più accetto a Dio, ma è anche «il» più accetto. Dal che si deduce che il genere umano si trova nella 11 condizione più perfetta quando è governato da uno solo, e che quindi la Monarchia è necessaria per il buon ordinamento del mondo. XV Inoltre affermo che l'ente, l'uno e il buono stanno tra loro in quest'ordine di priorità, secondo il quinto modo di considerare tale priorità. Infatti l'ente precede l'uno per natura, e l'uno a sua volta precede il buono, per cui il massimo ente è il massimo uno e il massimo uno è il massimo buono, e quanto più un essere si allontana dal massimo ente, tanto più si allontana dall'essere uno e di conseguenza dall'essere buono. Per tale motivo, in ogni genere di realtà, quella che è massimamente una è pure ottima, come dice il Filosofo nella Metafisica. Per cui, sul piano ontologico, l'uno sembra costituire la radice del buono e il molteplice la radice del male; ed è per questo motivo che Pitagora, nelle sue correlazioni, poneva l'uno dalla parte del bene e il molteplice dalla parte del male, come risulta dal primo libro della Metafisica. Se ne può dedurre che il peccare non è altro che lo sprezzante abbandono dell'uno per tendere al molteplice, come ben vedeva il Salmista quando disse: «Dal frutto del frumento, del vino e dell'olio sono stati moltiplicati». È certo dunque che tutto ciò che è bene lo è per il fatto di essere uno. E poiché la concordia, in quanto tale, è un bene, è evidente che essa si fonda su qualche unità che ne costituisce la radice. Tale radice si renderà manifesta se consideriamo la natura, cioè il concetto, della concordia. La concordia infatti è un