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Mai Più umani PDF

2012·0.3 MB·italian
by  Kress
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Urania 1519 (Copertina di Franco Brambilla) a cura di Giuseppe Lippi Direttore Responsabile: Giuseppe Strazzeri Editor: Marco Fiocca Coordinamento: Luca Mauri Collaborazione redazionale: Marzio Biancolino Segreteria di Redazione: Lorenza Giacobbi Periodico mensile n.1519 - febbraio 2007 Nancy Kress MAI PIÙ UMANI La Terra è in agonia: disastri climatici e aberrazioni biologiche hanno sterminato piante, animali ed esseri umani a milioni. Fino al sorgere di una nuova generazione di bambini “modificati”, in grado di adattarsi in modo sorprendente a un ambiente divenuto torrido come l’inferno. Ma chi sono, in realtà, questi bambini? Da dove vengono? Rappresentano una vera spe- ranza o dovranno essere distrutti a ogni costo prima che “altri” prendano il sopravvento? Perché intelletti più vasti, più potenti dei nostri, scrutano l’a- gonia della Terra dagli abissi del cosmo... In appendice: L’Autrice: NANCY KRESS di Giuseppe Lippi Nancy Kress MAI PIÙ UMANI Nothing Human (2003 - Trad. di Ferruccio Alessandri) PARTE PRIMA Keith Ci sta arrivando una qualche benedizione aliena. W S M ILLIAM TANLEY ERWIN Midnight in Early Spring 1 Aprile 2013 Scrisse: Ci sono cose su cui non ci possiamo soffermare con la mente. Si va a scuola, si cresce, si va al college, all’università, si trova un lavoro. Ci si sposa, ci si ama, si litiga, si divorzia, si trova un’altra compagna, ci si sposa ancora, si divorzia un’altra volta. Quando capita, ogni cam- biamento nella vita ci sembra enorme e nel contesto della nostra esi- stenza è davvero enorme, sconvolgente, ce la cambia. Ma non è inatte- so. Intorno a noi altri sperimentano le stesse cose, gente ricca e pove- ra, famosa e oscura, tranquilla o esibizionista. A mano a mano che s’invecchia ci si rende conto che ogni cataclisma fa parte della norma- lità. Che sia deludente o entusiasmante, almeno quello che ci accade è universale. Banale, magari. Poi succede qualcosa di tanto imprevisto, fuori dagli schemi, in cui l’ordinario si trasforma nell’impensabile, che la mente semplicemente rifiuta. Non può essere. Non può succedere. È impossibile. Assoluta- mente. Come gli alieni. O come Lillie. Guardò il foglio e lo stracciò. Il paragrafo zoppicante non rendeva nemmeno l’i- dea. Non si poteva descrivere a parole quello che era successo. Non c’erano parole. Il nocciolo della cosa era tutto qua. Settembre 1999 — Sono incinta — gli disse Barbara con il sorrisone di una bambina che per la pri- ma volta si sia allacciata le scarpe da sola. Oh, merda. — Keith, non guardarmi così — continuò con la voce che già cominciava a trema- re. Poi, in un lampo di quello che in lei passava per ira: — Sei mio fratello, non hai il diritto di giudicarmi. — Invece sì — rispose Keith Anderson. — Non declamarmi questi stupidi slogan. Chiunque ha il diritto di giudicare le azioni altrui in base alle sue convinzioni e alla sua esperienza. Si chiama “usare il proprio giudizio”. Lei aveva gli occhi pieni di lacrime e Keith si costrinse a essere paziente. Piano, vacci piano. Sii un bravo fratello. Lei si sconvolgeva con troppa facilità, fin da quan- do erano bambini. Lo sapeva. Barbara era fragile. Come avrebbe fatto a cavarsela da sola con un bambino? Allungò la mano sul tavolino della cucina fino a prendere la sua. Fuori dalla fine- stra dello squallido appartamento c’era nell’Amsterdam Avenue qualcuno che sbatac- chiava bestemmiando bidoni dell’immondizia, in mezzo a un continuo suono di clac- son. — Raccontami, Babs — le disse con gentilezza. Le lacrime le sparirono all’istante. — Lo sai che ho sempre voluto dei bambini. Poi sono passati gli anni, sono successe delle cose e... be’, lo sai. Keith lo sapeva bene. C’era stato il primo marito, il nullafacente narcisista, poi era capitata la bancarotta appena-entro-i-limiti-della-legge del secondo matrimonio, poi una serie di storie sentimentali disastrose e così ora Barbara aveva trentasei anni, la- vorava in una ditta come segretaria avventizia ed era incinta, sembrava. — Chi è il padre, Babs? — Questa è la parte migliore. Non c’è. — Figlio di vergine — commentò lui, quasi senza pensare. Quando si è cattolici, lo si è per sempre. La sorella rise, passandosi la mano tra i capelli castani, corti e dritti. — No, è un anonimo donatore di sperma. Non ci sarà un uomo a fare il prepotente con noi, a sconvolgerci, me e Lillie. Lillie. Per lei quel feto era già una persona. Keith si preparò alla discussione, ma lei lo precedette. — Lo so che cosa pensi, Keithers. Ma abbiamo provveduto anche a questo. Alla clinica hanno preso cinque miei ovuli e li hanno fertilizzati, poi hanno scelto quello che non aveva quelle caratteristiche genetiche... La bambina non avrà il cancro alla mammella. — Lei e Keith erano portatori sani, di quello era morta la loro madre. Lui rimase in silenzio, e lei aggiunse: — Sto attenta con Lillie. Sì, è una bambina, ho fatto l’amniografia. Volevo sapere. — Di quanti mesi? — Già tre — rispose lei con orgoglio, alzandosi e facendo un giro su se stessa. — Si comincia a vedere! E invece no. Magra come sempre, impulsiva come sempre, ingenua come sempre. Keith fece correre lo sguardo sull’angusto appartamento del brutto quartiere che era tutto quello che lei si poteva permettere. L’intonaco si staccava dai muri. Notò uno scarafaggio che strisciava dentro la fessura tra la cucina e il frigorifero. Fuori dalla lu- rida finestra, ragazzi che avrebbero dovuto essere a scuola si rincorrevano per il viale alla luce del sole. — Barbara, come hai potuto permetterti la fecondazione in vitro? Una del mio uffi- cio mi ha detto che a lei e a suo marito ci sono voluti tre tentativi a novemila dollari l’uno. Lei tornò a sedere. — Questa clinica si chiama Istituto IVF “Dona un bimbo”, e accetta anche chi ha un reddito modesto. Perché fa parte di una ricerca. — Un esperimento? Chi è che la dirige? — Oh, Keith, come faccio a saperlo? E poi non importa. Smettila di fare l’avvoca- to! — Io sono un avvocato. Dove hai saputo di questa clinica? — Una pubblicità su un giornale. Ti prego, Keithers, smettila. Ancora una volta lui represse l’impazienza. — Non posso. Mi preoccupo per te. Hai pensato come farai ad andare al lavoro e aver cura della bambina? Le bambinaie costano. — Salterà fuori qualcosa, succede sempre. Il Signore provvederà. Dovresti credere di più in lui. Il fratello la fissò impotente. La Grande divisione: sembrava che prima o poi ci an- dassero sempre a sbattere il naso. Ma si trattava davvero di religione, o di carattere? Credere in Dio era una grande scusa per la pigrizia e la mancanza di progetti. “Così è la consapevolezza di un fratello minore grande lavoratore che ti permette di andare a mendicare in giro.” Non sarebbe servito a nulla dirglielo. Barbara non l’avrebbe ascoltato: non l’aveva mai fatto. E Keith era abbastanza onesto da ammettere di aver bisogno di lei quanto lei ne aveva di lui. L’elenco dei suoi matrimoni non era minore di quello di lei. Due fallimenti, e non aveva più visto né Stacey né Meg. Non aveva figli, lavorava quattor- dici ore al giorno e comunque, anche se ne avesse avuto il tempo, sarebbe stato restio a tentare con un’altra donna. A trentaquattro anni era già bruciato dal punto di vista sentimentale. Barbara era la sola famiglia che possedeva e che probabilmente avrebbe mai avuto. Barbara, e ora questa bambina. Fissò la sorella, con la sua arruffata capigliatura da folletto, il corpo sottile e il vol- to speranzoso. Indossava jeans da teenager e una maglietta con un’immagine di gatti- ni. Una bambina anche lei. — Ti mostro gli abitini che ho comprato ieri... Le cose più carine del mondo! — disse lei, saltando in piedi così rapidamente che il caffè tiepido le traboccò dalla taz- za, senza che lei neppure lo notasse. Keith asciugò la macchia prima che lei tornasse dalla camera con una borsa. Poi si sedette a guardare il pigiamino rosa, il berretto con una palla pelosa e le scarpette bianche incredibilmente piccole. Mentre lei chiacchierava, lui annuiva automatica- mente cercando di sorridere. Era fatta così sua sorella, decisa ad avere la bambina a tutti i costi, e quella piccola sarebbe stata la sua unica discendente nelle successive generazioni. Sua nipote. Lillie. Barbara ebbe una gravidanza facile, e questo era un bene, perché non possedeva un’assicurazione sulla salute e non avrebbe potuto permettersi complicazioni. Non c’erano nausea mattutina, né perdite di sangue, né qualcuno degli orrori di cui insiste- va a leggere alla biblioteca pubblica. Li elencava tutti a Keith, che avrebbe preferito non ascoltare. La portava a mangiare tutti i martedì, ritagliando il tempo dai suoi fitti programmi. Le fece avere una culla da Bloomingdale e s’interessò da un fiscalista sui vari tipi di titoli fiduciari. Per il resto del tempo si dimenticava di lei per difendere i clienti della sua società. Quando ebbe le doglie, lui era in tribunale. Dopo aver passato il caso al suo assi- stente, si precipitò all’ospedale. — Può entrare nella sala travaglio, ma non in quella del parto — gli disse un’infer- miera imbarazzata. Keith non avrebbe voluto entrare nemmeno là, ma indossò il ca- mice di carta e la seguì timido. Barbara giaceva su una barella, i capelli appiccicati in testa e il volto grondante di sudore. Non gridava, con sollievo di lui. Almeno non in quel momento. — Keith. — Sono qui, cara. — Perché lei non aveva un’amica a occuparsi di questo? Cercò di non sembrare risentito, ma rassicurante. — Parlami. — Okay. Di che cosa? — Del processo. Come va? — A un tratto l’espressione sul volto si fece distante. Afferrò i lati della barella così forte da far sbiancare le mani. I suoi lineamenti si con- torsero tanto che Keith quasi non la riconosceva, ma non emise alcun suono. Lui cominciò a parlare svelto, appena consapevole di quello che diceva, certo che tanto lei comunque non lo ascoltava. — È un caso di responsabilità di una società. Io rappresento la società. Un operaio stava ripulendo l’interno di un’impastatrice, che naturalmente era spenta... Barbara emise un lungo suono basso, più che di dolore sembrava la nota stonata di una canzone. — ... e si è addormentato. In realtà era ubriaco, questo l’abbiamo provato per certo. Il volto di lei si rilassò, tornando a essere il suo volto. — Avanti, avanti, avanti. — Chiuse gli occhi. — Il tempo fissato per la ripulitura era scaduto — disse Keith con disperazione. Avrebbe dato qualsiasi cosa per essere ancora in tribunale. — E il sorvegliante, il mio cliente, aveva gridato forte che tutto il macchinario stava per essere riavviato e... Il volto le si contorse ed emise ancora la stessa nota selvaggia. — Vai avanti! — E così hanno riavviato l’impastatrice. — Era la storia adatta da raccontarsi a una donna in travaglio? Certo che no. — L’operaio è morto. La famiglia ha fatto cau- sa. — Avanti! — Domattina farò l’arringa conclusiva. Il punto principale è che, ai fini dell’accu- sa, deve esserci negligenza da parte del datore di lavoro, sulla base di un ragionevole livello di attenzione... — Come va? — chiese l’infermiera, giungendo a salvarlo. Fece a Barbara qualcosa che Keith evitò di guardare e gli ordinò di tornare nella sala d’aspetto, con suo grande sollievo. Si lasciò andare con gratitudine su una sedia di plastica arancione. Intorno a lui c’era gente che blaterava in almeno tre lingue diverse. Sembrarono solo pochi minuti, prima che apparisse un dottore che sorrideva radio- so. — Signor Anderson? Lei ha una figlia! Era troppo teso per correggerlo. Si limitò ad annuire e sorridere, strascicando i pie- di come un idiota. — Sua moglie sta bene, è in sala recupero. Ma se va in sala maternità può vedere la neonata. Per quella porta là nel corridoio. — Grazie. La piccola stava dietro un finestrone. Ce n’erano solo due. Keith indicò la culla eti- chettata “Anderson” e un’infermiera con la mascherina sollevò un fagottino rosa. Lui continuò la pantomima sorridendo e annuendo, finché l’infermiera non sembrò soddi- sfatta. La neonata assomigliava a una neonata: rossastra, calva, avvizzita, simile a un lombrico. Tutti i neonati si assomigliano. Keith cercò di pensare a che cosa fare, ora, e gli venne l’idea di comprare dei fiori a Barbara. Fuggì al negozio di oggetti regalo, respirando affannosamente per il sollievo. Con un po’ di fortuna sarebbe rientrato in tribunale prima che il giudice aggiornas- se la causa. Aprile 2013 L’addetto se n’era appena andato. Lillie giaceva nel suo letto dell’Ospedale Presbi- teriano, ormai immobile da tre settimane. Cieca e sorda. Anche se Keith non era sicu- ro di questo e le parlava ogni volta che gli veniva in mente qualcosa. — Come stai oggi, Lillie? Hai un bell’aspetto, La signora Kessler ti ha messo un nastro rosso nei capelli, il tuo colore preferito. Sedette al tavolinetto e tirò fuori un mazzo di carte. Era di aiuto avere le mani oc- cupate. Per lui, cioè. Per lei, aiuti non ce n’erano. Non è un coma convenzionale, aveva detto il dottore. Se s’inseriva un ciuccio in bocca a Lillie, lei succhiava. Almeno questo eliminava la necessità di endovenose. Sobbalzava ai suoni, chiudeva gli occhi alla luce. Ma non c’era nulla che la sveglias- se. Non andava al gabinetto, non rispondeva a nulla che le venisse detto, non si muo- veva volontariamente. Nessuno aveva mai visto una cosa del genere. Il branco di in- terni passava da lei tutti i giorni. Macchinari esaminavano ogni angolo di Lillie. Si te- nevano consulti. La ragazza non era afflitta da virus, da batteri, da parassiti, da can- cro, da anomalie del sangue, da degenerazioni nervose o muscolari, da commozione cerebrale, da malfunzioni endocrine. Nessuno poteva spiegare alcunché. Keith mescolò il mazzo e cominciò a disporre le carte. — I solitari li facevo al computer — le disse in tono confidenziale. — Alla facoltà di legge, quando non avrei sopportato di studiare un secondo di più, mi piaceva vedere quelle piccole carte dai semi rossi e neri scattare in fila ogni volta che cliccavo sul mouse. Molto gratificante. Lillie giaceva inerte, una tredicenne fisicamente in salute, vestita di un pigiama blu dell’ospedale e un nastro rosso. — Buffo, però. Una volta, durante un noioso weekend da qualcuno, in cui non ac- cadeva altro che pioggia, cercai di giocare con un vecchio mazzo di carte che avevo trovato in fondo a un cassetto. E non mi piaceva. Era il solitario che mi piaceva, era la rapidità con cui il computer spostava le carte. Click, click. Lì non c’era nessun pc. Keith avrebbe potuto portare il suo portatile, ma se l’avesse fatto, probabilmente si sarebbe messo a lavorare. E lui non voleva lavorare, quando andava a visitare Lillie; non voleva essere tanto assorbito negli affari legali da dimenticarsi di lei. Se fosse stato possibile. — Nove rosso sul dieci nero, Lil. Entrò qualcuno. Vedendo l’espressione sul volto della dottoressa Shoba Asrani, Keith si alzò in piedi. La donna teneva in mano un tabulato. — Signor Anderson, questo è un nuovo articolo tratto da un sito in Rete. Descrive il caso di un paziente: ecografia cerebrale e grafici PLI e DNA. Le stesse anomalie. Quando Lille era nata, non le erano state fatte ecografie e analisi del DNA e del PLI. Non ce n’era motivo: era una neonata di salute normale. E poi i grafici PLI e DNA non erano stati ancora inventati. La sequenza del genoma umano era ancora in lavorazione. La Asrani prese fiato. — Ora è diverso. Ce n’è un altro come Lillie. Agosto 2001 Keith aveva tra le mani il più grande processo della sua carriera. Ci stava lavoran- do da mesi assieme a una squadra di assistenti, e questo voleva dire che aveva visto Barbara sempre meno. La BioHope Inc. aveva sviluppato un tipo di soia modificato geneticamente con grande resistenza alle malattie, buona adattabilità a ogni tipo di terreno e una resa spettacolare. La pianta era in grado di crescere rigogliosa nei paesi del Terzo Mondo. L’ONU aveva espresso un grande interesse, l’OMS – Organizzazione mondiale per la sanità – aveva dato il suo imprimatur e molti governi avevano dimostrato interesse. Erano stati organizzati meccanismi per la distribuzione gratuita del seme in Africa e in Asia, grazie alla collaborazione di tre organismi internazionali di beneficenza. Gli esperti stimavano che sarebbero state salvate dalla fame centinaia di migliaia di vite. Poi una volontaria per la sperimentazione clinica di questa soia in America era ca- duta in convulsioni ed era morta. L’inchiesta aveva appurato che la donna aveva omesso di dire alla BioHope di es- sere allergica alle noci del Brasile. Un gene della noce del Brasile era stato aggiunto a questa nuova soia per produrre metionina, un aminoacido essenziale che alla soia mancava. La famiglia della deceduta aveva fatto causa alla BioHope. — Non mi sarei mai immaginato di imparare tanto sulla noce del Brasile — disse Keith al collega Calvin Loesser, quando si incontrarono nelle lucide sale del Wolf. — Ti sei assicurato la testimonianza di bravi esperti? — I migliori. Il fatto è che la soia modificata probabilmente ucciderà una decina di persone al mondo nel giro di un anno, contro la salvezza di centinaia di migliaia di persone dalla morte per fame. Stima prudente. Calvin si fermò a guardarlo con attenzione: — Non puoi mettere questo nelle con- clusioni. Se dici che anche solo dieci persone moriranno, schiererai la giuria contro il tuo cliente. — Lo so. Ma metti sulla bilancia dieci decessi rapidi contro centinaia di migliaia di morti lente. Di milioni, magari, con il tempo. — È un calcolo troppo freddo per impressionare una giuria. — Lo so — ripeté Keith. — Ma se toccasse a me, io voterei in favore della noce modificata. Dieci persone sono un sacrificio accettabile se ne salvano milioni. Che cosa c’è, Denise? La segretaria rispose con tono di scusa: — Mi perdoni, ma c’è sua sorella in linea e dice che è una cosa urgente. Keith si precipitò al telefono: — Barbara! Stai bene? — No — rispose lei con voce tremula. — Non sto bene. Mi spiace seccarti, ma non posso... Non ce la faccio. Non posso farlo! — Fare cosa? — Tutto! Non ce la faccio più! — Scoppiò in un pianto isterico. Keith chiuse gli occhi, calcolando rapidamente. Non era una giornata densa di ap- puntamenti. D’altra parte stava piovendo. Sarebbe stato duro trovare un taxi. — Babs, arrivo appena posso. Mettiti comoda e aspetta che io... Dov’è Lillie? Sta bene? — Non ce la faccio più! — gridò Barbara piangendo, e ora Keith udiva sullo sfon- do Lillie gridare; urla di rabbia, più che di dolore. — Arrivo subito. Mettiti comoda e non fare nulla. Va bene? — Va... bene... In casa di lei trovò Barbara che singhiozzava distesa su un divano. Lillie, un anno e mezzo, era seduta a giocare con un mucchietto che sembrava fatto di giocattoli rotti. L’appartamento puzzava. La piccola, vestita solo di un pannolino e di una pettorina sporca di cibo, puzzava anche di più. Ogni superficie, pavimento compreso, era co- perta di piatti non lavati, abiti infantili, cartoni di pizza e posta non aperta. Lillie alzò il visino e lo gratificò di un sorriso beato. Aveva occhi grigi, tempestati di pagliuzze dorate. — Scusami, scusami — singhiozzò Barbara. — Ma non ce la faccio più. Ma qualcuno doveva pur farlo, questo era chiaro. Conscio di non avere la minima idea sul come, Keith prese il telefono. Nel giro di un’ora c’era una portoricana costo- sa, mandata da un’agenzia costosa, che faceva il bagno a Lillie e rassettava l’apparta- mento, chiocciando con disapprovazione in spagnolo. Barbara non fece caso alla tazza di tè che lui le offriva. — È solo che non sono ca- pace di fare la mamma, Keith! È tremendo, sono un fallimento completo, povera Lil- lie... — Non sei un fallimento — disse Keith. Lo era? Non sapeva se questa fosse una cosa normale. Capiva come si poteva essere sopraffatti, con un lavoro e una bambi- na... Ma questo non lo facevano tutti i giorni migliaia di donne senza collassi del ge- nere? In lui si combattevano impazienza e compassione, favorite entrambe dal senso di colpa dovuto al fatto che lui, Keith Anderson, non doveva affrontare ogni giorno tutto questo. — L’ho picchiata — disse Barbara con disperazione. — Non riesco a crederci, ma Lillie non smetteva di piangere, non smetteva... — Babs, bevi il tuo tè finché è caldo. — Non riesco a credere di averla picchiata! Rimase finché la signora Perez non se ne fu andata e Babs si fu addormentata. Poi trasferì Lillie dalla sua malconcia culla al soggiorno appena ripulito. Svestì malde- stramente la nipotina, che si agitò un poco, senza svegliarsi. La esaminò con cura. Nessun livido, nessuna bruciatura, nulla che sembrasse doloroso o sospetto. Solleva- to, la rivestì e la riportò a letto. Era appena tornato in soggiorno quando lo raggiunse Barbara, ora più calma, in uno spiegazzato pigiama blu. — Scusami tanto, Keith. — Non potevi evitarlo, cara — disse lui, senza sapere se fosse vero o no. — Ora sarà tutto più facile. Ho concordato con la signora Perez che venga due volte alla set- timana a pulire, cucinare e a badare che le cose filino. — Sei così buono — disse lei, accucciandosi in un angolo del divano traballante. La sua voce faceva le fusa. Così era questo di cui aveva bisogno: di qualcuno che si accollasse il suo fardello. Non era mai stata capace di sopportare da sola la sua vita, anche quando aveva meno complicazioni. — A quale grande caso stai lavorando? — chiese. Aveva la voce piena di invidia. — Lo so che sarà senz’altro qualcosa di eccitante. Keith pensò alla BioHope. Alla vera lotta per la vita, alla morte per fame di madri e bambini che la soia avrebbe dovuto salvare. O alla volontaria americana che era mor- ta mangiandone. “Dieci persone sono un sacrificio accettabile per aiutarne milioni” aveva detto a Cai. Ma se una delle dieci fosse stata Barbara, a lasciarlo solo con Lil- lie? — Keith? Di che parla il tuo caso? — Di noccioline. Robetta. Aprile 2013 L’ufficio della dottoressa Asrani era piccolo, quasi un cubicolo. Keith sapeva che ne aveva un altro più ampio, nel corpo dell’ospedale; questo doveva essere un locale

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