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L'Uomo Che Sussurrava Ai Cavalli PDF

181 Pages·2016·1.14 MB·Italian
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Nicholas Evans L'UOMO CHE SUSSURRAVA AI CAVALLI Traduzione di Stefano Bortolussi. A Jennifer. Non rincorrere le insidie esteriori, non ti crogiolare nel vuoto interiore; sii sereno nell'unità delle cose, e il dualismo svanirà da solo. PARTE PRIMA. Capitolo 1. Tutto era cominciato con la morte, e con la morte si sarebbe concluso. Ma se in quel mattino così infausto fosse stata proprio l'ombra fuggevole di un presagio ad attraversare i sogni della ragazzina e a svegliarla, lei non l'avrebbe mai saputo. Tutto ciò di cui si rese conto nell'aprire gli occhi fu che il mondo appariva in qualche modo diverso. Il bagliore rosso della sveglia le segnalò che mancava circa mezz'ora al momento di alzarsi. Rimase distesa immobile, senza sollevare il capo, cercando di capire che cosa fosse cambiato. Era ancora buio, ma meno di quanto ci si sarebbe aspettati. Sul lato opposto della stanza riusciva a scorgere chiaramente i lievi riflessi dei suoi trofei di equitazione allineati sugli scaffali, e sopra di essi le gigantografie delle stelle del rock per cui un tempo aveva creduto di andare pazza. Si mise all'ascolto. Anche il silenzio che invadeva la casa sembrava diverso, sospeso, come la pausa fra l'istante in cui si inspira e quello in cui ci si decide a parlare. Presto avrebbe udito il rombo attutito della caldaia che entrava in funzione in cantina, e il vecchio pavimento della casa avrebbe ripreso il suo solito cigolìo lamentoso. Scese dal letto e si avvicinò alla finestra. Aveva nevicato. La prima neve dell'inverno. E, a giudicare dalla palizzata nei pressi dello stagno, sembrava che ne fosse scesa una trentina di centimetri. In assenza di vento, creava un manto perfetto e regolare, raccogliendosi in proporzioni minuscole sui rami dei ciliegi che suo padre aveva piantato l'anno prima. Una stella brillava solitaria, incastonata nella distesa blu scuro sopra gli alberi. La ragazzina abbassò lo sguardo e vide che lungo il lato inferiore Della finestra si era formato un nastro di brina; vi posò un dito, imprimendo un piccolo foro. Rabbrividì, non per il freddo ma per l'eccitazione nel rendersi conto che quel mondo trasformato era per il momento interamente suo. Quindi si volse e corse a vestirsi. Grace Maclean era giunta da New York la sera prima con suo padre. Quel viaggio la divertiva sempre, due ore e mezza lungo la Taconic State Parkway nel tepore della lunga Mercedes, ascoltando le cassette e chiacchierando della scuola o di qualche nuovo caso su cui il padre stava lavorando. Le piaceva sentirlo parlare mentre guidava, le piaceva averlo tutto per sé, osservarlo mentre si rilassava lentamente nel suo ordinato abbigliamento da weekend. Sua madre, come sempre, era impegnata con una cena, un evento mondano, o qualcosa di simile: sarebbe arrivata a Hudson il mattino dopo in treno, soluzione che in ogni caso preferiva al viaggio in auto. Il traffico del venerdì sera la rendeva invariabilmente scontrosa e impaziente, e allora lei reagiva diventando prepotente, intimando a Robert, il padre di Grace, di rallentare o accelerare o imboccare chissà quale tortuosa deviazione per evitare le code. Lui regolarmente si sottraeva alle discussioni, limitandosi a eseguire gli ordini, sebbene a volte si concedesse un lieve sospiro e rivolgesse a Grace, relegata sul sedile posteriore, un occhiata ironica attraverso lo specchietto retrovisore. Il rapporto fra i suoi genitori era da lungo tempo un mistero per Grace, un mondo complesso in cui il predominio e l'arrendevolezza non erano mai ciò che sembravano a prima vista. E così, per evitare di venirne coinvolta, lei si ritirava nell'isolamento del suo walkman. Sul treno la madre avrebbe lavorato per l'intero tragitto, concentrata e inaccessibile alle distrazioni. Nel corso di un recente viaggio in sua compagnia Grace l'aveva osservata e si era stupita di non vederla mai guardare fuori dal finestrino, tranne forse nelle occasioni in cui vagava con lo sguardo mentre parlava al telefono cellulare con un giornalista importante o un vicedirettore particolarmente zelante. La luce del pianerottolo era ancora accesa. Grace superò in punta di piedi la porta semiaperta della camera dei genitori e si fermò. Poteva udire il ticchettìo dell'orologio a muro nella sala al pianterreno e il russare lieve e rassicurante del padre. Scese le scale fino alla sala, le cui pareti e il cui soffitto azzurri già rilucevano dei riflessi proiettati dalla neve attraverso le finestre. Giunta in cucina, vuotò d'un fiato un bicchiere di latte e sgranocchiò un biscotto al cioccolato mentre scriveva un messaggio per il padre sul blocchetto accanto al telefono. "Sono andata a cavallo. Tornerò verso le 10. Ti voglio bene, G." Prese un altro biscotto e raggiunse il corridoio sul retro in cui tenevano le giacche e gli stivali infangati. Indossò il giubbotto di lana e, con il biscotto ancora stretto fra i denti, saltellò con grazia infilandosi gli stivali da cavallerizza. Si allacciò il giubbotto fino al collo, si mise i guanti e prese il berretto dallo scaffale. Per un istante si domandò se avrebbe dovuto telefonare aJudith per chiederle se aveva ancora intenzione di cavalcare nonostante la neve. Ma non ce n'era bisogno. Judith ne sarebbe stata altrettanto entusiasta. Mentre apriva la porta e usciva nell'aria gelida, Grace sentì la caldaia mettersi in moto in cantina. Wayne P. Tanner guardò cupamente oltre l'orlo della tazza di caffè la fila di camion incrostati di neve fermi nel parcheggio di fronte al ristorante. Detestava la neve, ma più ancora odiava essere colto in fallo. E nello spazio di qualche ora erano successe entrambe le cose. Quei poliziotti dello Stato di New York se l'erano goduta fino in fondo, sbirri supponenti che non erano altro. Li aveva visti raggiungerlo e stargli alle calcagna per tre o quattro chilometri, perfettamente consapevoli di essere stati notati e proprio per questo ancora più divertiti. All'improvviso avevano messo in funzione la luce intermittente, gli avevano segnalato di accostare e quel bulletto, poco più di un ragazzo, gli si era avvicinato con andatura tronfia e con lo Stetson calato sul capo come uno stramaledetto sbirro della TV. Gli aveva chiesto la tabella delle corse; Wayne l'aveva trovata, gliel'aveva consegnata ed era rimasto a guardare mentre il ragazzo la studiava. "Atlanta, eh?" aveva detto il poliziotto scorrendo le pagine. "Sissignore" aveva risposto Wayne. "E laggiù fa molto più caldo, lasci che glielo dica." Era un tono che di solito funzionava con gli sbirri, rispettoso ma fraterno, a suggerire una certa solidarietà fra utenti della strada. Ma il ragazzo non aveva sollevato lo sguardo. "Hmmm. Lei sa che il rivelatore di radar che ha montato sul suo mezzo è illegale, vero?" Wayne aveva lanciato un'occhiata alla scatoletta nera fissata al cruscotto e per un istante si era chiesto se non fosse il caso di fingere completa innocenza. Nello Stato di New York i radar antisbirri erano illegali per tutti i camion oltre le otto tonnellate. E il suo le superava abbondantemente. Ma fingendosi all'oscuro, si era detto, avrebbe fatto incazzare ancor più quel piccolo bastardo. E così era tornato a voltarsi verso il poliziotto con un sorriso colpevole, che però si era rivelato inutile, perché il ragazzo continuava a non sollevare lo sguardo. "Lo sa, vero?" aveva ripetuto. "Sì... insomma, immagino di sì." L'altro aveva richiuso la tabella delle corse e gliel'aveva restituita, guardandolo finalmente negli occhi. "Bene" aveva replicato. "E adesso vediamo quella vera." "Mi scusi?" "L'altra tabella. Quella vera. Questa va bene per le fate." Lo stomaco di Wayne si era stretto in una morsa. Per quindici anni, come migliaia di altri camionisti, aveva tenuto due tabelle, una con la verità sui tempi, le distanze e le soste, e l'altra, approntata proprio per situazioni come quella, in cui risultava come avesse rispettato i limiti stabiliti dalla legge. E in tutto quel tempo, nelle decine di volte in cui era stato fermato durante i viaggi da costa a costa, nessuno sbirro gli aveva fatto uno scherzo del genere. Cazzo, praticamente quasi tutti i camionisti di sua conoscenza tenevano doppie tabelle: le chiamavano gli albi a fumetti, erano una specie di barzelletta. Se guidavi da solo, senza nessuno con cui alternarsi al volante, come diavolo facevi a rispettare i tempi di consegna? Come diavolo facevi a guadagnarti da vivere? Gesù. Anche in ditta lo sapevano, ma facevano finta di niente. Aveva cercato di tirarla per le lunghe, fingendosi offeso, persino scandalizzato, ma si era subito reso conto che era del tutto inutile. Il collega del ragazzo, un tipo dal collo taurino e dal sorriso compiaciuto, era sceso dall'auto di pattuglia per non perdersi lo spettacolo. Insieme gli avevano ordinato di smontare dal camion per perquisirlo. Vedendo che avevano tutte le intenzioni di passare l'automezzo al setaccio, Wayne aveva deciso di ammettere la verità, aveva tolto la tabella dal nascondiglio sotto il sedile e l'aveva consegnata al ragazzo. E così era venuto fuori che aveva percorso più di 1.500 chilometri in ventiquattr'ore fermandosi soltanto una volta, e per molto meno delle otto ore richieste dalla legge. Era evidente che gli avrebbero dato una multa di 1.000, forse di 1.300 dollari, e probabilmente più alta se decidevano di incastrarlo per quel maledetto rivelatore. E rischiava anche il ritiro della licenza commerciale. I due agenti gli avevano consegnato una manciata di documenti ufficiali e l'avevano scortato fino a quella stazione di servizio, intimandogli che non si facesse venire in mente di ripartire prima del mattino seguente. Wayne aveva atteso che se ne andassero, quindi, raggiunto a piedi l'emporio della stazione, aveva acquistato un panino e una confezione da sei birre. Aveva trascorso la notte sdraiato nella cuccetta sul retro della cabina di guida. Era spaziosa e sufficientemente comoda; dopo un paio di birre, aveva cominciato a sentirsi meglio, ma le preoccupazioni l'avevano assillato per il resto della notte. E nel vedere la neve al risveglio, si era reso conto di essere stato fregato per la seconda volta. Due giorni prima, nel clima mite della Georgia, non gli era venuto in mente di controllare se a bordo c'erano le catene. E quando, appena sveglio, le aveva cercate, aveva scoperto che non c'erano, quelle maledette. Incredibile. Qualche testa di cazzo doveva essersele prese in prestito o averle addirittura rubate. Wayne sapeva che sulla statale non avrebbe avuto problemi, gli spazzaneve e gli spargi sabbia erano di certo già passati da ore. Ma le due enormi turbine che stava trasportando avrebbero dovuto essere consegnate a una segheria in una sperduta cittadina chiamata Chatham, per raggiungere la quale avrebbe dovuto abbandonare l'autostrada e attraversare la campagna. Lì le strade erano strette e piene di curve, e probabilmente coperte di neve. Wayne si maledisse per l'ennesima volta, terminò il suo caffè e posò sul tavolo un biglietto da cinque dollari. Fuori, si accese una sigaretta e si mise in testa il berretto da baseball per ripararsi dal freddo. Poteva già udire il rombo monotono degli automezzi che riprendevano la marcia lungo l'autostrada. La neve scrocchiava sotto i suoi stivali mentre attraversava il piazzale in direzione del suo camion. Schierati fianco a fianco ve n'erano forse quaranta o cinquanta uguali al suo: autoarticolati a diciotto ruote, per la maggior parte Peterbilt, Freightliner e Kenworth. Il gigante di Wayne era un Kenworth Conventional nero e cromato, un "formichiere", così soprannominato per il muso lungo e spiovente. E sebbene avesse un aspetto migliore quando, al posto delle due turbine sistemate su un pianale, trainava il rimorchio frigorifero, nella mezzaluce nevosa dell'alba Wayne pensò che era pur sempre il più bello della fila. Rimase per qualche istante fermo ad ammirarlo, mentre finiva la sigaretta. A differenza dei camionisti più giovani, a cui non fregava un bel niente, lui lo teneva sempre lucido e splendente. Prima di andare a far colazione l'aveva persino ripulito dalla neve. Ma forse loro, rammentò all'improvviso, non si erano dimenticati quelle maledette catene. Wayne Tanner spense la sigaretta e si arrampicò a bordo del camion. All'imbocco del lungo vialetto che conduceva alle scuderie convergevano due file di impronte. Con perfetto tempismo, le due ragazzine erano arrivate a non più di qualche secondo di distanza e si erano incamminate insieme su per la collina, mentre le loro risate echeggiavano fino al fondovalle. Nonostante il sole dovesse ancora sorgere, lo steccato che delimitava il sentiero ai due lati sembrava sporco contro la neve candida, esattamente come gli ostacoli nei campi in lontananza. Le tracce proseguivano curvando fino alla cima della collina, dove il sentiero scompariva nel complesso di basse costruzioni asserragliate, quasi a cercare protezione, attorno all'enorme granaio rosso che ospitava i cavalli. Non appena Grace eJudith svoltarono nel cortile delle scuderie, un gatto scattò in una fuga precipitosa, violando il manto nevoso. Le due ragazzine si fermarono per un istante a guardare verso la casa. NOn mostrava alcun segno di vita. La signora Dyer, la padrona delle scuderie che aveva insegnato a entrambe a cavalcare, avrebbe dovuto essere già in piedi. "Pensi che dovremmo avvertirla?" bisbigliò Grace. Le due amiche erano cresciute insieme, trascorrendo tutti i fine settimana nelle rispettive case di campagna. Vivevano nell'Upper West Side di New York, andavano a scuola nell'East Side e i loro padri erano entrambi avvocati. Ma a nessuna delle due veniva in mente di frequentarsi durante la settimana. La loro amicizia era legata a quel luogo, e ai cavalli. Judith, che aveva da poco compiuto quattordici anni, aveva quasi un anno più di Grace, che era ben felice di delegare a lei le decisioni importanti come il rischio di suscitare la collera della signora Dyer. Judith tirò su col naso e fece una smorfia. "Noo" esclamò quindi. "Ci sgriderebbe per averla svegliata. Andiamo." L'aria all'interno del granaio era tiepida e carica dell'odore dolciastro del grano e del letame. Mentre le due ragazzine entravano reggendo le rispettive selle e si chiudevano il portone alle spalle, i cavalli sollevarono i musi e tesero le orecchie, intuendo un mutamento nell'alba all'esterno proprio come poco prima era successo a Grace. Il cavallo di Judith, un castrato dagli occhi vellutati di nome Gulliver, nitrì all'avvicinarsi della padrona e sporse il muso per ricevere le sue carezze. "Ciao, piccolo" disse lei. "Come va oggi?" L'animale arretrò docilmente dal cancello per dare aJudith la possibilità di entrare nel box con la bardatura. Grace proseguì. Il suo cavallo era nell'ultimo box, al l'estremità del granaio. Passando accanto agli altri, Grace li salutò uno per uno in tono sommesso. Scorse il muso eretto e immobile di Pilgrim, intento a osservarla. Era un Morgan di quattro anni, un baio castrato così scuro che sotto una certa luce poteva sembrare nero. Seppure riluttanti, i genitori gliel'avevano regalato l'estate prima per il suo compleanno. Temevano che fosse troppo grande e giovane per lei, troppo impegnativo. Ma per Grace era stato amore a prima vista. Per vederlo erano andati nel Kentucky; quando avevano raggiunto il maneggio, Pilgrim si era immediatamente avvicinato al recinto per esaminare la nuova arrivata. Non le aveva permesso di accarezzarlo, limitandosi ad annusarle la mano, solleticandola con le narici. Quindi aveva scrollato il capo come un principe altezzoso ed era partito al galoppo, agitando la lunga coda, il manto che splendeva al sole come lucido ebano. La proprietaria aveva permesso a Grace di montarlo, ed era stato allora che i suoi genitori si erano scambiati un'occhiata e lei aveva capito che gliel'avrebbero regalato. Sua madre non cavalcava da quando era bambina, ma su di lei si poteva contare: sapeva riconoscere la classe a prima vista. E Pilgrim era un animale di gran classe. Non vi erano dubbi che avesse anche un carattere difficile, e che fosse molto diverso da qualsiasi altro cavallo Grace avesse montato prima. Ma quando la ragazzina gli fu in groppa e sentì tutta quella vita pulsare in lui, capì che nel profondo era buono, e che insieme sarebbero stati bene. Sarebbero diventati una squadra. All'inizio avrebbe voluto ribattezzarlo con un nome più fiero, come Cochise o Khan, ma sua madre, la solita tiranna, aveva detto che certo, era una decisione di Grace, ma, se voleva la sua opinione, cambiare nome a un cavallo portava sfortuna. E così era rimasto Pilgrim. "Ehi, bellezza" lo salutò avvicinandosi al box. "Come sta il mio tesoro?" Allungò una mano verso di lui e Pilgrim le concesse di accarezzargli la superficie vellutata del muso, ma solo per poco, perché sollevò subito la testa e sfuggì al suo tocco. "Sei proprio un civettone. Su, prepariamoci." Entrò nel box e tolse la coperta dalla groppa del cavallo. Quando fece per mettergli la sella, Pilgrim tentò come sempre di scostarsi, e lei gli ordinò seccamente di stare fermo. Quindi, mentre gli assicurava delicatamente il sottopancia e sistemava le briglie, gli parlò della sorpresa che lo aspettava fuori. Infine trasse dalla tasca l'attrezzo appuntito per la pulizia degli zoccoli e tolse con cura i depositi di terra da ognuna delle zampe. Udì Judith uscire dal box con Gulliver e si affrettò a stringere il sottopancia. Erano pronte. Condussero i cavalli all'esterno e concessero loro il tempo di guardare la neve mentre Judith tornava sui suoi passi per richiudere il portone del granaio. Gulliver abbassò la testa e annusò il terreno, rendendosi conto rapidamente che si trattava dello stesso fenomeno che aveva già visto centinaia di volte. Pilgrim, invece, sembrava sbalordito. Saggiò la neve con uno zoccolo e si spaventò quando lo sentì affondare. Tentò di annusarla come aveva visto fare al suo compagno, ma aspirò con troppa decisione, e il risultato fu uno sternuto che fece esplodere le due amiche in una gran risata. "Magari è la prima volta che la vede" disse Judith. "Non è possibile. Non nevica, nel Kentucky?" "Non lo so. Immagino di sì." Judith guardò la casa della signora Dyer. "Andiamo, o sveglieremo il drago." Condussero i cavalli fuori dal cortile, montarono in groppa e attraversarono lentamente la bianca distesa verso il cancello che si affacciava sul bosco. Le impronte degli zoccoli tracciavano una perfetta diagonale sul quadrato immacolato del campo. Quando ebbero raggiunto i primi alberi, il sole spuntò finalmente dietro la cresta della collina e invase di ombre oblique la vallata alle loro spalle. Una delle cose che la madre di Grace detestava di più del weekend era la montagna di giornali che era costretta a leggere. Si accumulava per tutta la settimana come una maligna formazione vulcanica. Ogni giorno, avventatamente, lei vi contribuiva aggiungendovi i settimanali e Gli inserti del New York Times che non osava gettare. Il sabato, la catasta era diventata troppo minacciosa per poter essere ignorata, e con la terrificante prospettiva dell'arrivo del voluminoso New York Times domenicale lei capiva che, se non avesse agito immediatamente, avrebbe corso il rischio di finire sommersa. Tutte quelle parole lasciate libere di girare per il mondo. Tutto quell'impegno. Giusto per farti sentire in colpa. Annie gettò a terra l'ennesimo giornale e si dedicò al New York Post. L'appartamento dei Maclean era all'ottavo piano di un vecchio ed elegante edificio SuL Central Park West. Annie sedeva rannicchiata sul divano giallo accanto alla finestra. Indossava un paio di pantaloni elasticizzati neri e un maglione grigio chiaro; i capelli ramati, raccolti in una coda di cavallo, risplendevano al sole che penetrava dalla finestra alle sue spalle proiettando l'ombra del suo corpo sul divano gemello, accostato alla parete opposta del salotto. Il locale era lungo e tinteggiato di un giallo chiaro. Ospitava una libreria che copriva un'intera parete, oggetti d'arte africana e un piano a coda, un'estremità del quale in quel momento luccicava, investita dai raggi obliqui del sole. Se Annie si fosse girata, avrebbe visto i gabbiani incedere sulla superficie ghiacciata del laghetto nel parco. Persino con quella neve, e a quell'ora del mattino, i fanatici del jogging erano già fuori, intenti a correre sulla pista che lei stessa avrebbe affrontato una volta terminata la lettura dei giornali. Bevve un sorso del suo tè e stava per gettare via il Post quando scorse un breve articolo all'interno di una rubrica che di solito saltava a piè pari. "Non ci posso credere" commentò a voce alta. "Quel piccolo verme." Sbatté la tazza sul tavolino e andò a prendere il telefono in corridoio. Fece ritorno in salotto componendo il numero e si fermò davanti alla finestra, battendo impaziente la punta del piede sul pavimento. Presso il laghetto, un vecchio con gli sci e una cuffia stereo di dimensioni assurde arrancava verso gli alberi. Una donna era intenta a sgridare un branco di cagnolini legati al guinzaglio, tutti con cappottini lavorati a maglia e zampe così corte che per avanzare erano costretti a spiccare continui balzi. "Anthony? Hai dato un'occhiata al Post?" Annie aveva evidentemente svegliato il suo giovane assistente, ma l'idea di scusarsi non la sfiorò nemmeno. "C'è un pezzo che parla di me e Fiske. Quello stronzo dice che l'ho licenziato e che ho gonfiato i dati sulla diffusione." Anthony biascicò qualcosa in tono comprensivo, ma Annie non era alla ricerca di solidarietà. "Sai il numero a cui posso trovare Don Farlow durante il weekend?" L'assistente andò a prenderlo. Nel parco, la donna si era data per vinta e ora stava trascinando in strada i suoi cagnolini. Anthony tornò con il numero e Annie lo trascrisse su un foglietto. "Bene" disse infine. "Torna pure a dormire." Riagganciò e chiamò subito Farlow. Don Farlow era l'avvocato d'assalto del loro gruppo editoriale. Nei sei mesi che erano trascorsi dal giorno in cui Annie Graves (sul lavoro aveva sempre usato il nome da nubile) era stata assunta come direttore allo scopo di salvare il periodico più prestigioso della casa, Don era diventato un suo alleato e quasi un amico. Insieme avevano estromesso la Vecchia Guardia. Vi era stato un grande spargimento di sangue, sangue nuovo era entrato al posto di quello vecchio, e la stampa ne aveva gustato ogni singola goccia. Fra coloro che lei e Farlow avevano messo alla porta vi erano diversi nomi noti, i quali si erano immediatamente vendicati scrivendo articoli velenosi per le rubriche scandalistiche. Annie capiva la loro amarezza. Alcuni avevano lavorato alla rivista per così tanti anni che si erano convinti di esserne i padroni. Essere cacciati era di per sé già abbastanza umiliante. Essere cacciati poi da una donna di quarantatré anni, e per giunta inglese, era intollerabile. Ma ora l'epurazione si era quasi conclusa, e Annie e Farlow erano ormai diventati esperti nel comprare il silenzio di chi se ne andava. Era ciò che credevano di aver fatto anche con Fenimore Fiske, l'anziano e insopportabile critico cinematografico della rivista, che invece aveva deciso di denigrarla sul Post. Miserabile traditore! Mentre attendeva che Farlow rispondesse al telefono, Annie ebbe modo di consolarsi: Fiske aveva commesso un grosso errore nel sostenere che i suoi dati sull'aumento della diffusione fossero falsi. Non lo erano, e lei avrebbe potuto provarlo. Farlow non era soltanto sveglio: aveva anche già letto l'articolo sul Post. Decisero di incontrarsi due ore più tardi nell'ufficio di Annie. Avrebbero fatto causa al vecchio bastardo contestandogli ogni singolo centesimo della liquidazione. Annie chiamò il marito a Chatham, ma le rispose la segreteria telefonica con la sua stessa voce registrata. Lasciò un messaggio a Robert dicendo che era ora di svegliarsi, aggiungendo che avrebbe preso il treno successivo e invitandolo a non andare al supermercato prima del suo arrivo. Quindi prese l'ascensore e uscì nella neve per raggiungere i compagni di jogging. Solo che, naturalmente, Annie Graves non faceva jogging. Annie Graves correva. E sebbene la distinzione non risultasse evidente né dalla sua velocità né dalla sua tecnica, per Annie era chiara e vitale quanto l'aria fredda del mattino nella quale si tuffò. La statale era in buone condizioni, come Wayne Tanner aveva previsto. Essendo sabato non c'era un gran traffico, e Wayne si disse che avrebbe fatto meglio a restare sulla 87 finché non avesse incrociato la 90, per poi attraversare il fiume Hudson e raggiungere Chatham da nord. Aveva studiato la carta stradale e aveva deciso che, sebbene non fosse il più diretto, quel percorso gli avrebbe evitato molti chilometri di strade secondarie. Privo di catene com'era, sperava soltanto che l'accesso alla segheria non fosse una pista sterrata. Quando vide i cartelli della 90 e svoltò verso est, stava già cominciando a sentirsi meglio. La campagna sembrava una cartolina natalizia, e con la voce di Garth Brooks che risuonava dall'impianto stereo e il sole che illuminava il possente muso del suo Kenworth le cose non sembravano cupe come la sera prima. All'inferno! Se anche fosse successo il peggio e gli avessero tolto la licenza commerciale, avrebbe sempre potuto fare il meccanico. Dopotutto era quello il mestiere che gli era stato insegnato. Certo, non avrebbe guadagnato le stesse cifre. Era una vergogna che pagassero così poco un poveraccio che si era fatto anni di gavetta ed era stato costretto a spendere diecimila dollari in attrezzi. Ma ultimamente cominciava a essere stanco della vita sulla strada. Forse sarebbe stato bello trascorrere più tempo a casa, con la moglie e i figli. Forse. O se non altro andare a pesca. Riscuotendosi, Wayne scorse l'uscita per Chatham e agì deciso, premendo più volte sul pedale del freno e scalando le nove marce fino a provocare il ruggito lamentoso dei 425 cavalli del motore Cummins. Svoltando dalla statale sulla strada secondaria, inserì la trazione integrale. Da quel punto, calcolò, mancavano soltanto otto o dieci chilometri alla segheria. Nei boschi, quel mattino, aleggiava una calma assoluta, quasi la vita stessa fosse in uno stato di sospensione. Non si udiva alcun verso di uccello o altro animale, e l'unico suono era il tonfo sommesso della neve che di quando in quando cadeva dai rami troppo carichi. In quel vuoto gravido di attesa, attraverso l'intrico degli aceri e delle betulle, s'innalzavano in lontananza le risate delle due ragazzine. Procedevano lentamente lungo il sentiero tortuoso che portava sulla cresta della collina, lasciando che fossero i cavalli a scegliere l'andatura. Judith conduceva la marcia voltata all'indietro, una mano stretta sull'arcione posteriore, lo sguardo concentrato su Pilgrim. "Dovresti iscriverlo a un circo" disse ridendo. "E un pagliaccio nato." Grace rideva troppo per riuscire a rispondere. Pilgrim procedeva affondando il muso nella neve fresca come fosse una pala. Di tanto in tanto ne lanciava in aria una nuvola con uno sternuto e partiva al piccolo trotto, fingendo di essere spaventato dalla bianca cascata. "Buono, Pilgrim, basta così" ordinò Grace tirando le redini e riprendendo il controllo dell'animale. Pilgrim si rimise al passo eJudith, ancora sorridente, scosse il capo e tornò a voltarsi verso il sentiero. Gulliver procedeva ad andatura regolare, del tutto indifferente alle pagliacciate del compagno, la testa che si muoveva al ritmo degli zoccoli. Sugli alberi lungo il sentiero, a distanza di una ventina di metri l'uno dall'altro, erano appesi cartelli arancioni che minacciavano di sanzione chiunque venisse sorpreso a sparare, a posare trappole o a sconfinare nelle proprietà private. Sulla cresta della collina che separava le due valli vi era una piccola radura circolare dove, se ci si avvicinava in silenzio, era possibile sorprendere un cervo o un tacchino selvatico. Quel mattino tuttavia, quando uscirono dal bosco alla luce del sole, tutto ciò che videro fu l'ala insanguinata di un uccello. Giaceva quasi al centro della radura, come un punto tracciato da un feroce compasso. Judith e Grace si fermarono e la fissarono. "Che cos'è, un fagiano?" chiese Grace. "Credo di sì. O meglio, un ex fagiano. Parte di un ex fagiano." Grace aggrottò la fronte. "Come sarà capitato fin qui?" "Non ne ho idea. Una volpe, forse." "Non può essere. Dove sono le impronte?" Non ve n'erano. E neppure vi era il minimo segno di lotta. Era come se l'ala fosse volata fin lì da sola. Judith scrollò le spalle. "Forse qualcuno gli ha sparato." "Già, e il resto dell'uccello ha continuato a volare con un'ala sola?" Rifletterono entrambe per qualche secondo. Quindi Judith avanzò un'ipotesi. "Un falco. E caduta dal becco di un falco di passaggio." Grace esitò. "Un falco. Può essere." Le due ragazze ripresero la marcia. "O magari da un aereo." Grace scoppiò a ridere. "Già, è vero" disse. "Assomiglia al pollo che ci hanno servito l'anno scorso sul volo per Londra. E solo un po' più succulenta." Solitamente, quando raggiungevano la cima della collina, lanciavano i cavalli al piccolo galoppo attraverso la radura per poi tornare alle scuderie lungo un sentiero diverso da quello dell'andata. Ma la neve, il sole e l'azzurro del cielo mattutino erano troppo invitanti, e così le due amiche decisero di fare qualcosa che fino ad allora avevano osato una sola volta, due anni prima, quando Grace montava ancora Gypsy, il suo tozzo e piccolo pony di razza Palomino. Avrebbero raggiunto la valle successiva passando per il bosco, girando intorno alla collina e seguendo il corso del fiume. Avrebbero dovuto attraversare una strada o due, ma Pilgrim sembrava essersi calmato e in ogni caso, a quell'ora di un sabato mattina, non avrebbero incontrato anima viva. Mentre abbandonavano la radura e tornavano a immergersi nell'ombra degli alberi, Grace e Judith rimasero in silenzio. Quel versante della collina era fitto di pioppi e hickory, e non vi erano sentieri battuti; presto le due amiche, costrette a chinare il capo per passare sotto i rami degli alberi, si ritrovarono coperte di un velo sottile di neve. Scesero lentamente seguendo il corso di un ruscello. Lastre di ghiaccio lo coprivano quasi del tutto, allungandosi irregolari dagli argini e facendo appena intravedere l'acqua che scorreva scura. Il declivio si fece più ripido e i cavalli presero a muoversi con circospezione, attenti a dove posavano gli zoccoli. In un'occasione Gulliver scivolò su un sasso, ma riacquistò l'equilibrio senza farsi prendere dal panico. I raggi del sole che penetravano obliqui dai rami tracciavano strane sagome sulla neve e illuminavano le nuvolette di vapore che uscivano dalle narici dei cavalli, ma nessuna delle due cavallerizze vi prestò la minima attenzione, poiché entrambe erano troppo concentrate sulla discesa e sui movimenti dei rispettivi animali. Fu con sollievo che finalmente scorsero il luccichìo del Kinderhook Creek che scorreva fra gli alberi più in basso. L'impresa si era rivelata più difficile del previsto, e soltanto in quell'istante si sentirono in grado di scambiarsi un'occhiata e di sorridere. "Mica male, eh?" osservòJudith tirando dolcemente le redini di Gulliver. "Già" concordò Grace. Si chinò e accarezzò il collo di Pilgrim. "Sono stati bravi." "Bravissimi." "Non me la ricordavo così ripida." "Non lo era. Secondo me abbiamo seguito un ruscello diverso. Mi sa che siamo un chilometro e mezzo più a sud di dove dovremmo essere." Si ripulirono gli abiti e i berretti e allungarono lo sguardo oltre gli alberi. Al di là del bosco una candida distesa di neve scendeva dolcemente fino al fiume. Lungo la riva vicina riuscivano a scorgere la palizzata sulla vecchia strada che portava alla segheria e che era stata praticamente abbandonata, poiché, a meno di un chilometro di distanza dalla riva opposta del fiume, ne era stata costruitaun'altra più ampia e meno tortuosa, collegata alla statale. Per raggiungere il sentiero che le avrebbe ricondotte a casa, le due amiche avrebbero dovuto seguire la vecchia strada verso nord. Come aveva temuto, la strada per Chatham non era stata ancora spalata, ma Wayne Tanner si rese subito conto di essersi preoccupato inutilmente. Altri veicoli l'avevano percorsa prima di lui, consentendo alle diciotto enormi gomme del suo Kenworth di sfruttare le tracce già esistenti, facendo perfettamente presa sul manto stradale. Non c'era bisogno delle maledette catene. A un certo punto incrociò uno spazzaneve e, sebbene ormai non gli servisse più di tanto, ne fu talmente sollevato che salutò il conducente con uncenno della mano e un amichevole colpo di clacson. Si accese una sigaretta e controllò l'ora. Aveva impiegato meno del previsto. Dopo l'incontro con gli sbirri, aveva chiamato Atlanta, dando istruzioni perché avvertissero il personale della segheria che avrebbe consegnato le turbine il mattino successivo. A nessuno piaceva lavorare di sabato mattina, e Wayne immaginava che il suo arrivo non sarebbe stato accolto con eccessivo entusiasmo. Ma non era affar suo. Inserì un altro nastro di Garth Brooks e iniziò a cercare l'accesso alla segheria. Dopo il bosco e la discesa, la vecchia strada sembrava uno scherzo, e le due amiche e i loro cavalli si rilassarono procedendo fianco a fianco nel sole. Alla loro sinistra una coppia di gazze si rincorreva fra i rami degli alberi che costeggiavano il fiume; sommerso dal loro verso rauco e dallo scrosciare dell'acqua sulle rocce, Grace udì in lontananza quello che le parve il rombo di uno spazzaneve sull'autostrada. "Eccolo là" disse Judith con un cenno del capo. Era il luogo che stavano cercando, il punto in cui un tempo la ferrovia attraversava la strada e il fiume. Da anni ormai i binari erano inutilizzati e, sebbene il ponte sul fiume fosse rimasto intatto, quello sulla strada era stato smantellato. Ne restavano soltanto le alte fiancate di calcestruzzo, a formare una sorta di galleria senza tetto attraverso cui il nastro d'asfalto si inoltrava prima di scomparire dietro una curva. Appena prima, un sentiero ripido si arrampicava dal terrapieno fino alla ferrovia: era lì che le due amiche dovevano arrivare per raggiungere il ponte sul fiume. Judith si mosse per prima, guidando Gulliver lungo il viottolo. Ma fatto qualche passo, il cavallo si fermò. "Su, piccolo, va tutto bene." Gulliver prese a raspare delicatamente la coltre di neve, quasi a saggiarne la consistenza. Judith lo spronò con un colpo di tacco. "Andiamo, pigrone." L'animale si arrese e ricominciò ad arrampicarsi per il sentiero. Ancora in strada, Grace attendeva, osservandoli. Aveva la vaga impressione che il rombo dello spazzaneve fosse diventato più forte. Pilgrim agitò le orecchie. Grace allungò una mano e gli carezzò il collo sudato. "Com'è?" chiese a Judith. "Tutto bene. Ma sta' attenta." Accadde proprio quando Gulliver aveva quasi raggiunto la cima del terrapieno. Grace si era mossa cercando di seguire le sue impronte, lasciando che Pilgrim scegliesse l'andatura che voleva. Era giunta a metà della salita quando udì Gulliver raspare con lo zoccolo sul ghiaccio e contemporaneamente il grido spaventato di Judith. Recentemente, una perdita in un canale di scolo aveva trasformato quella parte del terrapieno in una lastra di ghiaccio, celata dal manto di neve. Gulliver vacillò e, cercando di fare presa con le zampe posteriori, sollevò una nuvola di neve e schegge di ghiaccio. Ma gli zoccoli non trovarono alcun appiglio, facendolo arretrare. Una delle zampe anteriori scivolò di lato, e l'animale crollò su un ginocchio. Judith venne proiettata in avanti e perse una staffa, ma riuscì ad afferrarsi al collo del cavallo e si voltò verso Grace. "Togliti di lì!" le gridò. Grace era paralizzata. Il rombo del sangue nella sua testa sembrava immobilizzarla ed estraniarla dalla scena che si stava svolgendo appena sopra di lei. Al secondo grido di Judith si riscosse e subito cercò di far voltare Pilgrim. Spaventato, il cavallo non le obbedì e agitò selvaggiamente la testa. Tendendo ìl collo verso il ciglio del terrapieno, si scostò di lato con una serie di rapidi passi, finché anche i suoi zoccoli incontrarono il ghiaccio e allora nitrì di terrore. Erano finiti esattamente alle spalle di Gulliver. Grace urlò e tirò con forza le redini. "Pilgrim, muoviti!" Nella strana quiete dell'istante che precedette l'urto dei due cavalli, Grace si rese conto che quel rombo non poteva essere soltanto il sangue che le affluiva alle tempie. Lo spazzaneve non era sull'autostrada. Era troppo rumoroso. Doveva essere più vicino. Ma quel pensiero si dissolse al violento impatto con il posteriore di Gulliver, che si schiantò sulla spalla di Pilgrim facendolo ruotare su se stesso. Grace si sentì proiettare verso l'alto, ma per fortuna riuscì a stare in sella, aggrappandosi alla criniera di Pilgrim mentre insieme scivolavano verso la strada. Gulliver e Judith li avevano ormai superati nella loro caduta, e Grace osservò l'amica mentre veniva scagliata come una bambola di pezza oltre il posteriore del cavallo, rimanendo imprigionata con un piede nella staffa. Il suo corpo rimbalzò a terra e ricadde di lato, la nuca colpì con forza la lastra di ghiaccio e la staffa le si attorcigliò alla caviglia, serrandola con forza. Cavalli e cavallerizze seguitarono a scivolare verso la strada in un unico, frenetico groviglio. Wayne Tanner vide la scena non appena superò la curva. Dando per scontato che provenisse da sud, il personale della segheria non gli aveva detto nulla della vecchia strada più a nord. E così Wayne l'aveva imboccata con decisione, tirando un sospiro di sollievo nel vedere che le ruote del Kenworth sembravano far presa sulla neve fresca. Sbucato dalla curva scorse, a un centinaio di metri di distanza, le fiancate di calcestruzzo del ponte e al di là, incorniciato dalla costruzione, un animale, forse un cavallo, che trascinava qualcosa. Lo stomaco gli si serrò all'improvviso. "Ma cosa diavolo...?" Premette il pedale del freno con delicatezza, poiché sapeva che, in caso contrario, le ruote si sarebbero bloccate e avrebbero iniziato a slittare, poi mise in funzione i freni del rimorchio. Ma non avvertì alcun rallentamento: avrebbe dovuto usare il freno-motore. Agguantò la leva del cambio e scalò di due marce, facendo ruggire i sei cilindri del motore Cummins. Merda, si disse, andava troppo veloce. I cavalli erano diventati due, e in groppa a uno vi era una persona. Ma cosa diavolo stavano facendo? Perché non si toglievano dalla strada, maledizione? Il cuore gli martellava furiosamente in petto e Wayne si accorse di sudare mentre cercava di manovrare il freno e il cambio, di adeguarsi al ritmo del mantra che gli aveva invaso la mente: premi il pedale, scala la marcia, premi il pedale, scala la marcia. Il ponte si stava avvicinando troppo in fretta. Cristo santo, ma non l'avevano sentito? Non lo vedevano arrivare? Lo sentivano, e lo vedevano. Per un attimo fuggente lo scorse persino Judith, mentre a terra, urlante, veniva trascinata dal suo cavallo. La caduta le aveva spezzato il femore, e scivolando verso la strada entrambi gli animali l'avevano calpestata, schiacciandole diverse costole e un avambraccio. Quando era scivolato la prima volta, Gulliver si era rotto un ginocchio e strappato i tendini: ora strabuzzava gli occhi per il dolore e la paura, mentre girava su se stesso e s'impennava nel tentativo di liberarsi di quel peso morto a cui era rimasto impigliato. Grace aveva visto il camion nell'istante in cui si era ritrovata in mezzo alla strada. Le era bastata quella rapida occhiata. Miracolosamente era riuscita a non cadere: ora doveva liberare la carreggiata. Se fosse riuscita ad afferrare le redini di Gulliver, avrebbe potuto condurlo in salvo, e Judith con lui. Ma Pilgrim era terrorizzato quanto il suo compagno, e a sua volta non faceva che girare su se stesso, in un circolo vizioso di terrore. Con tutte le sue forze, Grace strattonò il morso di Pilgrim e per un attimo riuscì a distrarlo. Lo fece indietreggiare verso Gulliver, sporgendosi malsicura dalla sella e allungandosi per afferrare le redini del cavallo dell'amica. La bestia fece per arretrare, ma Grace insistette, tendendo il braccio finché non le parve che fosse sul punto di uscire dall'articolazione. Le sue dita avevano quasi raggiunto le briglie, quando risuonò il clacson del camion. Wayne vide i due cavalli impennarsi all'improvviso, e per la prima volta si rese conto di che cosa stesse trascinando la bestia priva di cavaliere. "Cristo santo!"

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