ELEONORA MAZZOTTI LORENZO ROCCI IL PADRE, IL MAESTRO, L’APOSTOLO PARTE PRIMA LA BIOGRAFIA PREMESSA. UN GIGANTE DI NOME ROCCI Le pagine spesse ingiallite dal tempo, pregne dell’odore intenso dell’inchiostro. I minuscoli caratteri ravvicinati, confusi in una grafia continua nella quale sembra essere racchiuso il senso ultimo della nostra civiltà. Le parole fascinosamente desuete come frammenti di un parlare arcaico, relitti di un’Italia che non esiste più. Il periodare intricato e complesso a formare arcani messaggi dal vago sapore di antico che promettono l’accesso ad una sapienza esclusiva, sommersa dagli anni ma mai del tutto perduta. Così si presenta davanti ai miei occhi, sul tavolo della mia scrivania, il mitico vecchio Rocci, lo storico dizionario greco-italiano che nel lontano 1939 un gesuita dottissimo ed eccezionalmente tenace consegnò a generazioni di adolescenti dalle belle speranze, impegnati a tessere i propri destini sui duri banchi dei licei italiani. Sulle dense e ardue pagine del vecchio Rocci si sono formati il brillante avvocato che oggi patrocina cause nel Tribunale di Napoli e il medico che salva vite nelle corsie di un ospedale di Milano. Su quel fitto intreccio di caratteri greco-italiani ha versato sudore e lacrime l’insegnante che oggi si sforza di conquistare alla cultura sedicenni rassegnati alla disperazione in qualche scuola della periferia dimenticata di Palermo, così come l’anziana signora che ora vive in un lussuoso appartamento nel centro di Roma e che all’alba della sua giovinezza, dopo un dignitoso percorso liceale, scelse semplicemente di svolgere al meglio il ruolo di moglie e di madre. Pochi libri hanno unito l’Italia come quel ponderoso volume uscito dalla penna infaticabile di un milite della Compagnia di Gesù. Ed è per questo motivo che non si pecca di esagerazione se lo si accosta alla Commedia dantesca o agli intramontabili Promessi Sposi del grande Manzoni. Per decenni il vecchio Rocci ha iniziato alla cultura e educato al sacrificio classi di ginnasiali scalmanati, mentre l'’Italia risorta dalle rovine della guerra costruiva il suo futuro repubblicano, in anni in cui non era follia credere che l’avvenire sarebbe stato migliore del presente. Pagine complesse e crudeli, quelle del vecchio Rocci, che hanno decretato inesorabilmente il fallimento di tanti giovani che sembravano destinati a radiosi successi, ma che hanno anche favorito l’ascesa di chi, venuto dall’esercito degli ultimi nell’Italia di tanti nuovi ricchi, affidava alle fatiche dello studio le proprie ambizioni di riscatto. Perché c’era qualcosa di profondamente democratico nell’aristocratica complessità del Rocci: il richiedere a tutti, senza distinzione di origine e di censo, il massimo tributo di impegno e dedizione per offrire in cambio le chiavi della sapienza antica, il prezioso segreto della tenacia come arma per vincere le sfide della vita. A nessuno il Rocci faceva sconti, ma a nessuno negava la gratificazione in cambio di impegno e sacrificio. E su quelle pagine che con il passare del tempo diventavano sempre più incomprensibili e sempre più lontane, tanti giovani hanno appreso un messaggio di vita che avrebbero per sempre custodito come una delle eredità più preziose della giovinezza trascorsa sui banchi di scuola. Dagli scaffali delle biblioteche di tante famiglie italiane il vecchio Rocci ha assistito, testimone discreto, al crollo del fascismo e al collasso dello Stato, alla furia della guerra e alla ricostruzione postbellica, alla stagione solare del boom economico, alle contestazioni studentesche, allo shock petrolifero, all’agonia della Prima Repubblica e alla faticosa nascita della Seconda. Oltre settant’anni di storia d’Italia. E mentre i fatti si accavallavano e si alternavano epoche di ottimismo e cupe fasi di depressione, lui era sempre lì, sempre al suo posto, sulle scrivanie dei ragazzi italiani, nelle biblioteche delle scuole, nelle vetrine delle librerie, fedele e tenace, severo e rassicurante come un padre, a insegnare, a dispetto di tutto, il valore della classicità, a far capire ai più giovani perché avesse ancora un senso studiare il greco antico. Nessuno potrà mai dimenticare ciò che il vecchio Rocci ha rappresentato per la scuola italiana, per tanti insegnanti, per generazioni di studenti, per tutti noi che abbiamo frequentato il liceo classico e che siamo impazziti su quelle pagine così difficili e dense, che le abbiamo anche maledette, ma che inconsapevolmente le abbiamo sempre amate e le amiamo tuttora. Perché sono una parte di noi e della nostra storia. Perché la nostra capacità di analisi e di riflessione è stata plasmata anche da lunghi anni di consultazione paziente di quelle pagine. Perché grazie a quella faticosa opera di decifrazione siamo divenuti più maturi, più riflessivi, siamo diventate forse persone migliori. Oggi il vecchio Rocci non è più in commercio. È andato in pensione per sopraggiunti limiti di età. La sua scomparsa ha rappresentato un evento doloroso, ma inevitabile. I libri scolastici nascono per insegnare e, se non sono più in grado di farsi capire da chi deve imparare, perdono la loro ragion d’essere. Può sembrare cinico, ma è così. Il vecchio Rocci come testo di scuola non esiste più. Ciononostante esso non morirà mai come opera d’antiquariato, come prodotto di cultura, come capolavoro del classicismo italiano. E in questa veste acquista un valore nuovo anche quel linguaggio arcaico, intriso del purismo arcaizzante di Padre Rocci che tanto ha fatto disperare i ginnasiali delle ultime generazioni nelle fatiche della traduzione. Come testo scolastico il vecchio Rocci soggiaceva ineluttabilmente alle leggi ferree del mercato e alla regola altrettanto severa del buon senso e dell’opportunità. Perseverare nell’ostinata volontà di proporre ai quattordicenni del XXI secolo un così complesso condensato di fine erudizione avrebbe più nuociuto che giovato alla fama del grande Rocci, se non altro perché lo avrebbe crudelmente esposto al rancore e al dileggio di giovani sempre meno allenati al paziente esercizio della riflessione, e lo avrebbe reso oggetto dell’ingiusta ironia delle nuove generazioni di insegnanti talvolta smaniose di ostentare un incontenibile furore modernista. Il nostro amato vecchio Rocci non avrebbe certo meritato questo. E allora meglio mandarlo generosamente in pensione dopo anni di onorevole servizio al fianco di studenti e professori e lasciare che al suo posto un nuovo dizionario, nato dalle sue costole e dal suo sangue, guidi gli adolescenti di oggi e di domani sull’impervio sentiero della conoscenza del greco. L’antico dizionario scaturito dalla fine erudizione e dalla penna infaticabile di Padre Lorenzo Rocci continuerà a vivere la sua nobile esistenza di capolavoro del sapere, amorevolmente conservato ed esibito nelle biblioteche di quei numerosi italiani che, in anni più o meno remoti, sulle sue pagine hanno imparato ad apprezzare il valore dello sforzo intellettuale. Allora forse anche i più giovani, vedendo quel misterioso tomo dall’aspetto antico fare mostra di sé sugli scaffali della libreria di casa, con la sua seriosa copertina scura e la grafia minuscola impressa sulla carta segnata dal tempo, saranno indotti ad aprirlo e a sfogliarlo, e nella rassicurante penombra dell’intimità domestica, lontano dalle grida degli insegnanti e dal terrore del compito in classe, sapranno meglio valutarne il pregio. E quei tanti nostalgici del greco che, pur portati dal flusso della vita ad occuparsi di altro, non hanno saputo dimenticare la sublime bellezza di un verso di Omero o di un brano di Platone, potranno di tanto in tanto riaprire il loro vecchio Rocci per riallacciare le fila di uno studio interrotto e per trovarvi forse, tra le righe, anche qualche traccia di ciò che sono stati e di ciò che hanno sognato. Per tutti loro il vecchio Rocci è vivo più che mai e nessun nuovo prodotto del mercato potrà usurparne il posto. Chi invece si accinge oggi ad iniziare un percorso di formazione sui banchi del liceo troverà un nuovo Rocci accanto a sé, un dizionario che non avrà certamente il meraviglioso odore di antico dell’edizione originaria, ma che saprà meglio accompagnare i più giovani nel loro lungo percorso scolastico, parlando una lingua più accessibile e attuale, spiegando con amorevole cura costrutti e reggenze, agevolando la ricerca con rimandi interni ed esplicitazioni varie. Elementi che il vecchio Rocci non poteva avere, perché per una diversa scuola e per una diversa Italia esso era stato concepito. La nuova edizione, che della vecchia riproduce l’impaginazione e il formato, pur migliorandone il carattere e la grafica, si pone anche concettualmente su una linea di ideale continuità con l’opera di Lorenzo Rocci. Non ha l’ambizione di sostituirla, ma di garantirne la sopravvivenza nel liceo del domani e di far sì che essa possa continuare a vivere non solo sugli scaffali polverosi delle biblioteche, ma anche sui banchi e sulle scrivanie dei nostri figli. Questa è la vera e unica missione del nuovo Rocci: perpetrare, come un figlio, la memoria del padre. Ai numerosi nostalgici che in questi mesi ci hanno scritto manifestando la propria tristezza per la scomparsa del vecchio dizionario, vogliamo semplicemente consigliare di non contrapporre il nuovo al vecchio, ma di ricercare con pazienza la mano maestra del vecchio tra le righe del nuovo. Se cercheranno con amore e rispetto, la troveranno. I curatori della nuova edizione non hanno voluto violentare o uccidere l’antica, ma solo darle nuova vita, se non altro per offrirle la possibilità di una rinascita in un formato elettronico moderno, il primo presupposto per sottrarla all’oblio del tempo. Chi rimpiange la vecchia edizione forse non sa che essa era solo parzialmente digitalizzata e che il supporto su cui viaggiava di ristampa in ristampa versava in condizioni sempre peggiori. Di lì a qualche anno del Rocci non sarebbe stato possibile realizzare più alcuna copia, né nuova né vecchia. Chi biasima la scelta di una nuova edizione, forse non sa delle infinite proteste degli studenti contro il carattere troppo minuscolo, l’italiano arcaico incomprensibile, l’esiguità delle didascalie morfo-sintattiche, la scarsa presenza di rimandi, le citazioni non tradotte, i lemmi abbreviati, l’essenzialità delle indicazioni di costrutti e reggenze. Se fossimo stati sordi alle loro proteste, quegli studenti sarebbero andati a cercare altrove quell’aiuto che nel Rocci non riuscivano più a trovare. E ciò avrebbe significato lasciare che il Rocci soccombesse alle vili leggi del mercato. Non potevamo permetterlo. Sarebbe stato troppo ingiusto nei confronti dello stesso Rocci e della sua storia. Occorre semplicemente prendere coscienza del fatto che la scuola di oggi non è più quella del 1939, e nemmeno quella degli anni ’50 e ’60. L’Italia è cambiata. Il mondo è cambiato. Chiudersi in un’ostinata difesa del vecchio avrebbe significato accompagnare dolcemente alla morte uno dei massimi capolavori degli studi classici. Con il nuovo Rocci, pur con tutti gli aspetti di esso che ancora dovranno essere migliorati e che certamente miglioreremo, ci si propone di offrire ai nostri figli uno strumento più fruibile e moderno, che, pur concepito secondo gli standard editoriali contemporanei, conservi tuttavia molto di quella meravigliosa ricchezza che ha fatto dell’opera di Lorenzo Rocci un inestimabile tesoro della cultura italiana. In fondo vecchio e nuovo Rocci condividono lo scopo e la ragion d’essere: fornire agli adolescenti italiani le chiavi magiche che aprono il mondo della classicità, il mondo da cui proveniamo e che oggi più che mani, con il suo patrimonio di valori e di bellezza, può indicare la via per la rinascita ad un’umanità smarrita, troppo spesso incline a confondere il progresso con la civiltà. INTRODUZIONE. IL PERCHÉ DI UN VOLUME DEDICATO A PADRE ROCCI L’idea di questo libello è scaturita dalla fitta corrispondenza intercorsa tra la Società Editrice Dante Alighieri e il variegato mondo degli studenti, degli insegnanti, degli accademici, dei cultori delle materie classiche nei mesi successivi all’uscita della nuova edizione del Vocabolario Greco- Italiano Lorenzo Rocci e al conseguente ritiro dal mercato della precedente pluridecennale edizione. In molti ci hanno espresso il loro cordoglio per la dipartita del vecchio dizionario, come se all’improvviso fosse venuto a mancare un anziano maestro o un remoto compagno di studi, e nelle loro lettere si coglie la stessa commossa partecipazione con cui talvolta assistiamo alle esequie di un lontano conoscente che magari non frequentiamo da anni, ma che ha lasciato un’impronta indelebile nel nostro presente e, con essa, il dolce ricordo di una stagione della vita che non tornerà più. Certo, non sono mancati i messaggi di apprezzamento per la nuova edizione del Rocci e gli auguri al nuovo nato per un radioso futuro. Ma sempre all’augurio si è unita una vena impalpabile di nostalgia per quel vecchio tomo ingiallito dall’incomprensibile eloquio che ha iniziato tanti trepidi adolescenti al magnifico mondo delle lettere. Leggendo i numerosi messaggi che ci sono pervenuti in questi mesi, si ha quasi l’impressione di trovarsi a presenziare alla successione al vertice in una vecchia fabbrica della sana e robusta provincia italiana, una di quelle fabbriche storiche che in passato sono state in grado di segnare la vita di un’intera comunità. Quando il vecchio nonno, vinto dall’inesorabile carico degli anni, cede il campo al giovane figlio, o all’ancor più giovane nipote, educato nelle migliori accademie d’Europa, tutti i dipendenti sanno in cuor loro che è giusto così, che ciò rientra nella dura logica del mondo, che le nuove generazioni rinnoveranno l’azienda introducendovi le infinite meraviglie del progresso e della tecnica e avanzatissimi modelli di organizzazione del lavoro. Eppure permane in molti, soprattutto nei veterani, negli operai più anziani che hanno visto crescere e prosperare la fabbrica e che di tutta quella prosperità si sentono in qualche modo artefici, un impalpabile senso di tristezza, una malinconia che stringe la gola e riempie gli occhi di lacrime. Il vecchio padrone era certamente burbero e scontroso, un tipo irascibile e forse anche poco raffinato, ma era in fondo uno di loro, formato, come loro, alla severa scuola della vita, e la sua scomparsa di scena non può che rappresentare la fine di un’epoca, fatta di fatiche e sacrifici senza dubbio, ma anche di impagabili soddisfazioni. Al suo posto arriverà un giovane brillante, che saprà meglio interpretare le esigenze dei tempi moderni e che senz’altro sperimenterà strategie per alleviare le fatiche del lavoro. Ma a loro, ai vecchi, la fatica del lavoro in fondo non dispiaceva affatto, perché il lavoro è fatica – loro, i vecchi, lo sanno bene – ma una fatica sana che irrobustisce e fortifica e sulla quale soltanto è possibile costruire la propria libertà. E nell’immagine dell’anziano padrone che cede il testimone al giovane erede i vecchi operai non possono fare a meno di vedere i segni della storia che avanza, non necessariamente verso il meglio. La nuova era porterà senza dubbio mezzi più sofisticati e tecnologie all’avanguardia, ma trascinerà via con sé ideali e valori di un passato in fondo felice, quella robusta umanità nutrita di sentimenti semplici e di attaccamento alle piccole cose che quasi mai riesce a convivere con le raffinate logiche del progresso. Ecco, a molti il nuovo Rocci deve essere apparso proprio così, come il nipote rampante venuto a scalare l’azienda, mentre il vecchio nonno – lo storico Rocci – abbandonava sommessamente la scena, sopravanzato dalle crudeli dinamiche della modernità e del mercato. E l’immagine cinica del nuovo che scalza il vecchio non può che tingersi oggi di un’inconsolabile tristezza, se ci si sofferma a riflettere sulle tante certezze degli anni trascorsi e sulle tante angosciose incertezze del domani. Si aggiunga che coloro che per anni hanno messo a dura prova gli occhi e la mente sulle pagine ingiallite del vecchio dizionario e che oggi con fierezza rivendicano ciò, perché la cultura è anche fatica e sacrificio (e loro lo sanno bene), non possono astenersi dal rivolgere uno sguardo compassionevole alle schiere di giovani adepti che dal nuovo dizionario si aspettano ogni sorta di semplificazione. Ogni rammarico è comprensibile e giusto. Si chiede però a coloro che maggiormente sono affezionati al vecchio nonno di non essere troppo severi con il giovane nipote, il quale in fondo, anche se si è formato in qualche elegante college europeo anziché alla catena di montaggio, non per questo dovrà necessariamente rinnegare i nobili valori della sua famiglia e forse, nel ricordo del nonno, riuscirà a coniugare quei valori con le esigenze della modernità. Il nuovo Rocci viene al mondo per proseguire la storia del vecchio, anzi per dare al vecchio la possibilità di avere ancora una storia da costruire nella cultura italiana. Inevitabilmente dovrà usare strumenti più avanzati, dovrà semplificarsi e rinnovarsi, perché il suo pubblico è cambiato (e di questo, certo, lui non ha colpa), ma in fondo è sempre lui, il buon maestro che tende la mano a chi, oggi come ieri, chiede di essere aiutato a scoprire le bellezze della classicità. In cambio del giusto tributo di affetto per la nuova edizione, offriamo questo libello come minuscolo omaggio. In esso potrete trovare, oltre ai ricordi superstiti della storia personale di Padre Lorenzo Rocci, qualche gemma preziosa del volume originario, qualche estratto della fine erudizione del suo dottissimo autore. Nelle pagine seguenti potrete infatti rileggere, in un’accurata selezione, alcune delle traduzioni e delle spiegazioni più tipiche del vecchio Rocci, ancora intrise di quell’irresistibile fascino di sapienza antica che il giovane erede solo in parte può esibire, ma che – questo ve lo possiamo assicurare – orgogliosamente custodisce nell’intimo della propria identità. PADRE LORENZO ROCCI: LA FEDE E LO STUDIO Quando si cercano tracce dell’esistenza di Padre Lorenzo Rocci, l’autore del celebre Vocabolario Greco-Italiano, poco o nulla si riesce a trovare: l’albero genealogico della sua famiglia; una vecchia foto di quando, non ancora trentenne, fu Prefetto di Camerata a Mondragone; un’immagine più recente dei suoi ultimi anni; qualche rara annotazione tra i documenti della Compagnia di Gesù; un vecchio certificato che attesta la sua iscrizione all’Accademia dell’Arcadia nel lontano 1920. Nulla di più. Non si rinviene traccia alcuna, per esempio, dell’enorme lavoro preliminare alla pubblicazione del dizionario né della pluridecennale attività d’insegnamento, della quale si conserva memoria solo nelle testimonianze degli allievi, ormai anch’essi ridotti a pochi superstiti. E così, con il trascorrere degli anni, i contorni della biografia di Padre Rocci diventano incerti e sfumati, e il personaggio sembra ormai appartenere più alla leggenda che alla storia. Complice l’aura di mistero che circonda la sua figura di uomo di fede e di lettere e che ha tratto alimento nel tempo dalle voci sulla sua prodigiosa memoria e sulla sua sovrumana resistenza alle fatiche dello spirito. Complice la sua naturale riservatezza, che lo ha sempre portato a vivere lontano dai clamori della ribalta, a proprio agio solo nelle vesti dello studioso e del maestro, irremovibile nel portare avanti con amore e semplicità la sua scelta giovanile di totale consacrazione alla preghiera e alla cultura. Chi ebbe il privilegio di conoscerlo lo descrive come «formidabile intreccio di saperi» e si compiace di elencarne le svariate competenze: grecista, latinista, poeta, grammatico, metricista, storico, agiografo, memorialista, oltre che confessore e pastore di anime. Il gesuita Emilio Spranghetti, suo discepolo nonché noto latinista, nelle sue memorie ci consegna di lui un ritratto inedito, dipingendone l’immagine e il carattere con pochi tratti di sicuro effetto: «P. Rocci: un venerando vecchio, alto di statura, ritto della persona e solenne, quando l’estrema vecchiaia non l’aveva ancora reso un po’ curvo e cadente. Una bella testa di antico romano, ornata di capelli ancora folti, canuti, un po’ arruffati. Un volto pieno e illuminato, all’avvicinarsi di un amico, da un sorriso appena abbozzato, dolce e quasi soffuso di bonaria ironia. Signorile nel tratto, inesausto nell’erudizione e nel ricordo di lontane esperienze. Qualche volta apparentemente burbero, ma in realtà generoso, cordiale, indulgente, costante nell’amicizia sincera e ingenua, come sanno esserlo i cuori nobili». Simile fu l’impressione che trasse dall’incontro Max Taggi quando, dopo il Noviziato e un periodo di Magistero, ebbe l’occasione di frequentare Lorenzo Rocci a Roma: «Già la sua presenza: era alto, massiccio, con dei bei capelli bianchi, un viso aperto, bonario, uno sguardo profondo e calmo. Era autorevole, ma accogliente; s’indovinava in lui una persona serena, equilibrata, di grande cultura, ma semplice in senso positivo, uncomplicated si direbbe in inglese». Del Rocci sacerdote Padre Taggi ricorda come la dimensione pastorale e una profonda vita spirituale fossero evidenti nella sua personalità: «Era un piacere servirgli la messa. Celebrava con calma, non aveva nulla di sentimentale o di bigotto, ma era raccolto, era lì, ben presente al mistero che si celebrava». Del Rocci religioso Padre Taggi rileva particolarmente l’assoluta fedeltà ai valori del fondatore Ignazio di Loyola: «il tendere all’eccellenza, a fare bene quello che si fa; la ricerca costante, istintiva, d’integrazione fra spiritualità (vita di fede) e serietà professionale; l’assillo del magis, dell’andare oltre; il senso della frontiera […], il tendere ad innovare, a fare qualcosa in più del banale, dell’esistente; e questo, non per capriccio, ma per due scopi ben precisi: per essere di aiuto al prossimo, alla gente, e per dare gloria a Dio, in armonia col celebre motto ignaziano ad maiorem Dei gloriam». Un altro gesuita, Padre Giuseppe Peri, ricorda di averlo conosciuto proprio negli anni in cui egli lavorava alla titanica impresa del Vocabolario. In quel periodo, infatti, sul finire degli anni Venti, mentre un più noto gesuita, Pietro Tacchi Venturi, si adoperava per tessere le relazioni tra Stato e Chiesa che avrebbero dato luogo ai Patti Lateranensi del 1929, Padre Rocci, nel chiuso della sua umile stanza arredata di libri, con devota pazienza si dedicava a far nascere il suo dizionario. Padre Giuseppe Peri, che all’epoca era un giovane novizio, lo ricorda assorto negli studi in un caldissimo agosto romano, con in mano minuscole schede dattiloscritte che servivano alla stesura dell’immane opera, tanto immerso nel proprio lavoro da dimenticare persino di togliersi il soprabito nonostante le roventi temperature estive. Altri amano ricordare di lui, oltre alla tenacia dello studioso, anche la profonda umanità dell’uomo consacrato a Dio. Il gesuita Paolo Bachelet, giovane studente di Lettere classiche al tempo del suo incontro con Padre Rocci, rammenta non solo la cura con cui l’anziano professore lo aiutava a tradurre dal greco, ma anche il bene da lui fatto a tante anime dentro il Confessionale della Chiesa del Gesù a Roma. Peraltro anche dopo la morte Padre Rocci ha continuato ad agire come operatore di bene, perché grazie ai diritti d’autore del suo Vocabolario per decenni la Compagnia di Gesù ha sostenuto finanziariamente le attività missionarie e gli studenti poveri. La storia di Padre Lorenzo Rocci è tutta qui, testimoniata da poche tracce sopravvissute all’oblio prodotto dal tempo, racchiusa nel ricordo di tanti allievi che lo hanno ammirato e sinceramente amato per quel modello di uomo di fede e di studioso che egli ha saputo incarnare. Forse il suo merito più grande, al di là della sua immane opera lessicografica, al di là del suo enorme contributo allo sviluppo degli studi classici in Italia, è stato quello di aver dimostrato che la fine erudizione può convivere con la semplicità dello spirito, perché gli studi classici non allontanano affatto dalla fede più autentica, anzi – come spesso ripeteva Padre Rocci – essi danno all’uomo quel senso profondo di umanità senza il quale anche la fede, specialmente quella dell’intellettuale, è povera e fredda. LA LUNGA VITA DI PADRE LORENZO ROCCI Lorenzo Rocci nacque a Fara in Sabina, piccola località a nord-est di Roma, attualmente nella provincia di Rieti, l’11 settembre 1864, figlio di Domenico, originario di Perugia o più probabilmente di Piacenza, e di una giovane donna laziale, Eustochio Corradini, nativa di Fara o di Roma. Da vecchie testimonianze risulta che la famiglia di Lorenzo viveva in modo povero ma dignitoso, traendo sostentamento dall’onesto lavoro del capofamiglia, verosimilmente un artigiano. Tuttavia fonti piacentine, che rivendicano di aver dato i natali a Domenico, attribuiscono alla famiglia Rocci una remota nobiltà, in quanto l’avo Gian Carlo Rocci sarebbe stato creato Nobile di Piacenza dal duca Francesco Farnese con diploma del 14 maggio 1703 e lo stesso Gian Carlo avrebbe sposato la nobile Lucia Bagarotti. Da Gian Carlo e Lucia sarebbe nato Giacomo, morto nel 1770, e da Giacomo sarebbe nato Domenico, morto nel 1814. Domenico avrebbe avuto due figli, Maria Giuseppa e Vincenzo. La prima sarebbe andata sposa a Gherardo Palmieri e avrebbe da lui generato due figli, Francesco Gregorio, divenuto poi benedettino, e Domenico (Piacenza 1829 – Roma 1909), gesuita, professore presso la Gregoriana nonché docente di Sacra Scrittura a Maastricht in Olanda, filosofo, teologo, moralista, membro della commissione per il Codex iuris canonici, autore di numerosi scritti, tra i quali un pregevole commento alla Commedia dantesca. Vincenzo invece ebbe tre figli maschi: Giuseppe, i cui discendenti risiedono tuttora in parte a Genova e in parte in Spagna; Giacomo, la cui discendenza si è estinta a Podenzano, presso Piacenza, nel 1956; Domenico, il padre di Lorenzo, il quale si sarebbe stabilito a Fara in Sabina dopo il matrimonio con Eustochio Corradini, nativa del luogo o comunque del Lazio. Lorenzo ebbe un fratello, Filippo, dal quale nacque Domenico, morto nel 1978 e ultimo esponente del ramo dei Rocci di Fara. Le fonti piacentine tramandano memoria anche dello stemma nobiliare della famiglia Rocci, costituito da un’aquila nera in campo d’oro, con sottostanti grappoli violacei e tralci rossi in campo d’argento. Capostipite accertato della famiglia fu Giovanni, vissuto nel XVII secolo. In ogni caso, senza perdersi nei rivoli di una genealogia complessa e remota, si può senz’altro accogliere il dato, ampiamente testimoniato, che il nucleo familiare composto da Domenico, Eustochio, Lorenzo e Filippo visse a Fara in assoluta semplicità, segnalandosi per l’integrità dei principi e l’onestà della condotta. Dopo aver frequentato il seminario diocesano di Anagni, il 18 ottobre 1880, all’età di sedici anni, Lorenzo entrò nella Compagnia di Gesù a Napoli. Un decennio più tardi, nel 1890, dopo tre anni di studi teologici e filosofici alla Gregoriana e un solo anno di studi classici alla Sapienza, conseguì la laurea in Lettere presso la Regia Università di Roma, con una prova tanto brillante da meritare persino le lodi del grande Giosuè Carducci, membro della commissione esaminatrice. Questi, infatti, nonostante le sue note posizioni filomassoniche e anticlericali, che certo non lo inducevano ad un atteggiamento di simpatia nei confronti di un giovane gesuita, non poté astenersi dal riconoscere la competenza del laureando Lorenzo Rocci, esprimendone vivo apprezzamento in questi termini: «Lei non solo ha fatto bene, ma molto bene!». Lorenzo completò poi la propria formazione con un anno di studio in Francia, ad Angers. Nel 1892 fu ordinato sacerdote a Cortona (Arezzo) e dal 1891 al 1901 fu Prefetto di Camerata in uno dei più prestigiosi collegi della Compagnia di Gesù, il Collegio Tusculano di Mondragone, presso Frascati. Risale proprio al 1891 una vecchia foto che lo ritrae, giovane e serio, seduto in prima fila in mezzo a undici adolescenti iscritti al Collegio; lo sguardo diretto, i tratti decisi del volto e l’espressione umile ma ferma rivelano già, nonostante la giovane età, tutta la determinazione del suo carattere, unita a una bonaria semplicità, che traspare chiaramente dalla postura e dall’atteggiamento dimesso. Nello stesso Collegio di Mondragone Padre Rocci prestò la propria opera anche come insegnante di latino e greco, dal 1903 al 1920, e infine come Preside, dal 1939 al
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