o Petacco. L'anarchico che venne dall'America, storia di gaetano brescia per uccidere umberto primo.txt Arrig Arrigo Petacco, L'anarchico che venne dall'America, Storia di Gaetano Bresci e del complotto per uccidere Umberto I. Copyright 2000 Arnoldo Mondadori Editore S.p. A., Milano. Monza, 29 luglio 1900: Umberto I, re d'Italia, cade sotto i colpi di un attentatore solitario mentre sta assistendo a un saggio ginnico. L'uccisore è un giovane operaio toscano appena tornato dall'America. Si chiama Gaetano Bresci, si dichiara anarchico individualista e, quando lo interrogano, ripete con ostinazione: «Ho agito da solo. Non ho complici». Dopo un processo durato dodici ore, viene condannato all'ergastolo come unico responsabile del regicidio. La sentenza non suscita obiezioni: a quell'epoca, la figura del «vendicatore che si erge solo e minaccioso per colpire nel suo più vivo bersaglio la tirannia dei padroni» è mitizzata dalla stampa anarchica, eccita la fantasia delle masse sfruttate e turba il sonno dei borghesi. Arrigo Petacco, già nella prima edizione di L'anarchico che venne dall'America (pubblicata da Mondadori nel 1969), oltre a ricostruire gli eventi che avevano spinto il giovane emigrante di Prato a rientrare in Italia per uccidere il re, giungeva ad adombrare, attraverso un'attenta e scrupolosa raccolta di documenti e testimonianze, dubbi e sospetti sulla versione ufficiale della vicenda. Le circostanze misteriose in cui si verificò la morte di Bresci, le indagini della magistratura volte a mettere in luce l'esistenza di un complotto anarchico, lo sbrigativo processo lasciavano infatti intravedere inediti retroscena. In questa nuova edizione, interamente rivista, l'autore, grazie a nuovi rilevanti particolari, offre una risposta definitiva agli interrogativi rimasti in sospeso e ci rivela come Gaetano Bresci fosse al centro non di uno, ma di due complotti. Del primo, maturato in America, egli era perfettamente a conoscenza; dell'altro, ordito fra Roma e Parigi, era del tutto all'oscuro: ignorava di essere lo strumento di una trama romanzesca, maturata nei salotti buoni dove «gli opposti estremismi» giocavano una partita ricca di reciproci inganni e animata da contrastanti obiettivi, che ora viene rivelata. Arrigo Petacco (Castelnuovo Magra, La Spezia, 1929) vive a Portovenere. Giornalista, inviato speciale, ha collaborato a «Grazia», «Epoca», «Panorama», «Corriere della Sera», «Il Tempo», «Il Resto del Carlino» stato inoltre direttore di «Storia Illustrata» e «La Nazione» Ha sceneggiato alcuni film e realizzato numerosi programmi televisivi di successo. Nei suoi libri affronta i grandi misteri della storia, ribaltando spesso verità giudicate incontestabili. Fra gli altri ricordiamo: Joe Petrosino, Il Prefetto di ferro, Riservato per il Duce (nuova edizione L'archivio segreto di Mussolini), Dal Gran Consiglio al Gran Sasso (con Sergio Zavoli), Pavolini. L'ultima raffica di Salò (nuova edizione Il superfascista), I ragazzi del '44, Dear Benito, caro Winston, La regina del Sud, La principessa del Nord, La signora della Vandea, La nostra guerra. 1940-1945, Il comunista in camicia nera, Regina. La vita e i segreti di Maria José, L'armata scomparsa e L'esodo. A Mario Spagnol, amico e suggeritore [p. 3] INTRODUZIONE Quando uscì per la prima volta nel 1969, L'anarchico che venne dall'America fu subito un best seller. Per una serie di coincidenze fortunose (la morte misteriosa dell'anarchico Pinelli, la strage alla Banca dell'Agricoltura, le confuse utopie del nascente Movimento studentesco) l'ideale anarchico sepolto da decenni nei polverosi scaffali della memoria era tornato improvvisamente d'attualità. Di conseguenza non poteva non incuriosire la ricostruzione del clamoroso gesto di «contestazione» compiuto a Monza il 29 luglio 1900 che costò la vita a Umberto I. Nonché la prima biografia dell'attentatore, l'anarchico «individualista» Gaetano Bresci, del quale tutti, Pagina 1 o Petacco. L'anarchico che venne dall'America, storia di gaetano brescia per uccidere umberto primo.txt Arrig compresi i suoi compagni di fede, sembravano essersi dimenticati. Difatti, subito dopo l'uscita del libro, fiorirono attorno a questo personaggio vari progetti cinematografici e televisivi, che poi si arenarono di fronte a ostacoli reconditi ma insormontabili, e anche un lavoro teatrale di Tullio Kezich, che invece fu presentato al Piccolo Teatro di Milano, allora diretto da Giorgio Strehler e da Paolo Grassi, per la regia di Gianni Bosio e l'interpretazione di Franco Parenti. A far dimenticare Gaetano Bresci, oltre all'ignavia dei suoi compagni di fede, avevano contribuito anche gli storici e, in primo luogo, Benedetto Croce. Il quale, nel capitolo VIII della sua Storia d'Italia dal 1871 al 1915, dopo avere definito il regicidio «l'epilogo dolorosissimo della lotta fra reazionari e liberali», nemmeno nomina colui che col suo gesto fornì a quella lotta un così evidente, seppur dolorosissimo, [p. 4] epilogo. Per Croce infatti il deus ex machina della sua ricostruzione idealistica non è Bresci Gaetano del fu Gaspero nato a Coiano (Prato) l'11 novembre 1869, ma puramente e semplicemente «un anarchico venuto dall'America», non una parola di più. Chi era, come visse e come morì questo «anarchico venuto dall'America» (dove prima di venirne, era ovviamente andato) non rivestiva per lui alcuna importanza. Forse fu proprio per una tardiva polemica contro questo modo di narrare la storia che Giovanni Prezzolini, allora esule volontario a Lugano, recensendo questo libro per «Il Borghese» nel 1969 scrisse: «un modello di esercizio storico, di serietà, senza un'ombra di rettorica, tutto documenti, tutto realtà, senza inclinazioni o declinazioni; è una cronaca esatta di un momento importante della vita italiana; e coloro che dicono che l'azione individuale o il caso non hanno influenza sugli eventi delle nazioni e quindi di quella "X" che chiamiamo umanità, hanno torto e zitti. Bresci ebbe una grande influenza su la vita italiana: la politica cambiò da quella di Umberto I a quella di Vittorio Emanuele III. Forse sarebbe cambiata lo stesso, ma dopo chissà quanti anni, ed altrimenti, chi sa in che guisa. E il fatto sta che cambiò: punto e basta. Cambiò in seguito al regicidio e portò l'impronta di quello (magari della reazione a quello, ma è sempre una influenza)» Ma questo libro, che ora riappare giusto allo scadere del centenario di quel lontano gesto di «contestazione», non è una semplice ristampa. infatti arricchito di particolari, di rivelazioni, di nuovi e inconfutabili documenti che modificano e spesso capovolgono la precedente interpretazione degli eventi. Chi si occupa di ricerca storica sa che assai spesso una nuova scoperta può ribaltare verità giudicate incontestabili. Così è capitato all'autore il quale, dopo la pubblicazione dell'Anarchico che venne dall'America, ha ricevuto dall'Italia e dagli Stati Uniti lettere, segnalazioni, rimproveri, correzioni e suggerimenti da vecchi anarchici sopravvissuti, parenti, amici, discendenti degli [p. 5] antichi compagni di Bresci; la loro sollecitudine gli ha consentito di rintracciare nuovi documenti, che lo hanno indotto a revisionare l'intera opera. Come si vedrà, i risultati conseguiti sono interessanti e sconcertanti. Per esempio, l'«individualista» Gaetano Bresci non agì da solo. Era al centro di un complotto di cui lui stesso ignorava la consistenza. Grazie ai nuovi documenti acquisiti emerge così una trama romanzesca, dove si incontrano, mescolati in un confuso contesto, leader anarchici che frequentavano i salotti buoni della reazione antiunitaria, rivoluzionari e legittimisti, «Grandi vecchi» e «Grandi vecchie», servizi segreti, alti prelati vaticani, statisti, avventurieri e persino una regina... Tutti intenti, con obiettivi diametralmente opposti, a tirare le fila di un ignaro attentatore-burattino che avrebbe cambiato il corso della storia. [p. 7] I. UN dibattito infuocato Il Tivola and Zuccas Saloon, in Central Avenue a West-Hoboken (New Jersey), era eccezionalmente affollato quella sera di sabato 12 novembre 1899. La signora Zucca («mamma Berta» per i clienti abituali) stava dietro il banco del bar, indaffaratissima a riempire boccali di birra che suo marito Remigio e il suo socio Frank Tivola Pagina 2 o Petacco. L'anarchico che venne dall'America, storia di gaetano brescia per uccidere umberto primo.txt Arrig distribuivano frettolosamente agli uomini e alle donne allineati sulle panche della sala delle feste trasformata, per l'occasione, in locale di riunione. Il palco degli oratori, pavesato di bandiere rosse e nere, era ancora deserto e i presenti conversavano ad alta voce. Erano in gran parte piemontesi e toscani. Davanti al pianoforte, situato proprio sotto il palco, sedeva Sperandio Carbone, un operaio tessile, musicista a tempo perso, che strimpellava popolari motivi sovversivi importati dall'Italia. Quei meeting anarchici rappresentavano sempre un buon affare per la ditta Tivola and Zucca. Ma la manifestazione in programma per quella sera era addirittura eccezionale e prometteva notevoli incassi. Errico Malatesta, l'anarchico più famoso del momento, dopo avere travolto nella vicina Paterson gli oppositori «individualisti», aveva deciso di venire proprio lì, a West-Hoboken, la più intransigente cittadella dell'anarchismo individualista, per affrontare in un dibattito pubblico il suo più temibile avversario: Giuseppe Ciancabilla. La serata dunque si annunciava calda e appassionante, [p. 8] ma la polizia locale non aveva ritenuto necessario prendere particolari misure di sicurezza. D'altra parte, a differenza di quanto accadeva in Europa, negli Stati Uniti gli anarchici erano considerati cittadini come gli altri. Non avevano mai provocato incidenti, le loro riunioni erano aperte a tutti, la loro condotta - a detta dello stesso capo della polizia - era «irreprensibile» Quindi non esistevano problemi di ordine pubblico. La folla riunita nel Saloon era composta in gran parte da italiani, ma c'erano anche degli spagnoli, dei polacchi, dei tedeschi e degli ebrei venuti appositamente per vedere con i propri occhi il celebre anarchico italiano evaso avventurosamente appena cinque mesi prima dall'isola di Lampedusa. Anche davanti al Saloon, in Central Avenue e De Mott Street, sostavano numerosi gruppi che ingannavano l'attesa discutendo animatamente con la gente arrivata da Paterson per dare manforte a Malatesta. Fra questo vociare confuso, si levava, di tanto in tanto, il grido degli strilloni volontari che facevano a gara a chi urlava più forte il titolo dei due giornali sui quali infuriava la cosiddetta «polemica sull'organizzazione» che divideva in quei giorni il movimento anarchico. Questi giornali erano: «La Questione Sociale», diretta dal cinquantenne Errico Malatesta, e «L'Aurora», diretta dal ventottenne Giuseppe Ciancabilla. Il primo si stampava a Paterson, il secondo a West-Hoboken. Era stato proprio sulla «Questione Sociale» che Malatesta, pur continuando a infierire contro la «degenerazione legalitaria» del Partito socialista, aveva cominciato a sviluppare la sua tesi sulla necessità di organizzare il movimento anarchico. Gli anarchici, infatti, non disponevano allora della minima organizzazione: non avevano una federazione, non avevano tessere, non riconoscevano capi, respingevano il parlamentarismo. «Noi siamo uniti soltanto nella fede» dicevano. Questa situazione inorgogliva i sostenitori della libertà [p. 9] individuale e assoluta, ma, indubbiamente, privava l'anarchismo di ogni base per un'azione coerente. Malatesta auspicava quindi la creazione di un raggruppamento che, pur ripudiando la rigida struttura gerarchica, possedesse quel minimo di organizzazione che era necessaria per condurre avanti con continuità una determinata linea politica. Questa sua presa di posizione aveva provocato la reazione dei più accesi individualisti, i quali non gli avevano risparmiato l'accusa di «pappagallo dei socialisti» o di «aspirante deputato» Fra i suoi avversari, il più temibile era certamente Giuseppe Ciancabilla. Il «curriculum» di questo giovanotto, originario di una famiglia borghese di Perugia, era totalmente diverso da quello di Malatesta. Prima di diventare anarchico, egli era stato socialista, dirigente nazionale del PSI e redattore-capo dell'«Avanti!» Erano stati i tragici fatti del '98, in Sicilia e a Milano, a mettere in crisi la sua fiducia nel partito e, soprattutto, nelle masse, che egli Pagina 3 o Petacco. L'anarchico che venne dall'America, storia di gaetano brescia per uccidere umberto primo.txt Arrig giudicava prive di capacità rivoluzionarie. Giuseppe Ciancabilla si era quindi convinto che solo con l'atto individuale fosse possibile battere il nemico di classe, e aveva perciò aderito all'anarchismo. Anzi, per concretizzare subito queste sue nuove convinzioni, verso la fine del 1898 aveva raggiunto Milano deciso a uccidere il generale Bava Beccaris, «il macellaio dei lavoratori» Ma il colpo non gli era riuscito e si era allora rifugiato in America per continuare fra gli immigrati la sua battaglia politica. Egli scriveva in quei giorni sull'«Aurora»: «Noi siamo l'aristocrazia del proletariato. I cavalieri dell'ideale. La massa dorme. I socialisti si illudono. Lo sanno Pisacane, Cafiero, lo stesso Malatesta e tutti coloro che hanno preparato una rivoluzione di massa e che, al primo tentativo, si sono ritrovati in tre gatti di fronte al plotone o alla galera.» Malatesta gli rispondeva sulla «Questione Sociale»: «L'organizzazione - che poi non è altro che la pratica della cooperazione e della solidarietà - è condizione naturale, necessaria alla [p. 10] lotta di classe: è un fatto ineluttabile che si impone a tutti, tanto nella società umana in generale, quanto in qualsiasi gruppo di persone che hanno uno scopo comune da raggiungere.» Ciancabilla: «Siamo nemici di ogni forma di organizzazione perché respingiamo ogni forma di autorità. Noi dobbiamo dare l'assalto allo Stato non per prendere il posto dei borghesi, ma per distruggerlo completamente.» Malatesta: «L'errore fondamentale degli anarchici avversari dell'organizzazione è il credere che non sia possibile organizzare senza autorità, e preferire - ammessa questa ipotesi - la rinuncia a qualsiasi organizzazione piuttosto che accettare la minima autorità.» Ciancabilla: «Gli anarchici devono obbedire soltanto al proprio impulso. L'impulso è il sentimento più naturale dell'uomo libero. Noi esaltiamo l'individuo generoso che, obbedendo al proprio impulso, sorge solo, minaccioso, vendicatore, per colpire nel suo più vivo bersaglio la tirannia borghese. Celebri attentatori come Ravachol, Henry, Caserio, Angiolillo, Luccheni, costituiscono gli esempi più fulgidi della lotta individualista.» E concludeva minacciosamente: «Gli errori commessi da Passanante e da Acciarito (*) ci hanno insegnato che oggi una pistola a ripetizione è più sicura del pugnale!» Del dibattito svoltosi quel sabato sera al Tivola and Zuccas Saloon di West-Hoboken non fu fatto un verbale e quindi non sappiamo cosa si dissero Malatesta e Ciancabilla nel loro confronto diretto. Tuttavia è certo che le loro argomentazioni dovettero discostarsi di poco da ciò che andavano scrivendo in quei giorni sui rispettivi giornali. Il dibattito fu comunque acceso e violento. Spesso gli ascoltatori lo interrompevano con grida e insulti. Il comitato di vigilanza, eletto dall'assemblea, dovette intervenire [p. 11] più volte per sedare gli alterchi e le zuffe scoppiati fra il pubblico. I due avversari discussero per ore sotto la presidenza di Giuseppe Ferraris, un setaiolo di Vercelli che vantava un grande ascendente sulla colonia italiana. Malatesta, con la barba fluente, la lunga palandrana nera, l'aspetto bonario e un po paterno, parlava con tono suadente, senza mai alterarsi. Ciancabilla, elegante, quasi raffinato, col volto acceso e piacente - sul quale solo un occhio esperto poteva scorgere i segni della tisi che l'avrebbe divorato in meno di tre anni - parlava con foga e con rabbia, in tono spesso violentissimo. Il dibattito, insomma, era quello tipico fra il vecchio «reso saggio dall'esperienza» e il giovane «idealista intransigente» Di questi due personaggi, in quei giorni si parlava molto anche in Italia. Ecco come li presentava imparzialmente ai suoi lettori un giornale come «L'Osservatore Romano»: «Se Ciancabilla rappresenta l'anarchico moderno, fin de siecle, col Pagina 4 o Petacco. L'anarchico che venne dall'America, storia di gaetano brescia per uccidere umberto primo.txt Arrig solino alto un palmo e la Guglielmo arricciata, Malatesta è l'anarchico di antico stampo, di maniera, colla folta capigliatura, la barba brigantesca ed il cappellaccio a larghe falde. Viceversa, mentre l'elegante Ciancabilla è l'agitatore incendiario, il predicatore di tutte le violenze, il truce Malatesta è più teorico e calmo.» Il dibattito fra l'«agitatore incendiario» e il «calmo teorico» finì comunque molto male, quasi con una tragedia. A tarda ora, infatti, nel corso di un violento alterco scoppiato nella sala, si udì improvvisamente un colpo di rivoltella. Malatesta, colpito alla gamba destra, crollò a terra. La confusione si tramutò in caos: tutti credevano che il leader anarchico fosse morto. Sull'attentato non fu allora possibile fare piena luce. Quando la polizia intervenne, l'omertà fu totale: nessuno aveva visto o sentito nulla. Lo stesso Malatesta disse di non conoscere il suo feritore e, per questo suo atteggiamento, la polizia lo trasse in arresto e quindi lo espulse dallo stato. In seguito furono invece fornite molte versioni di questo fatto di sangue, ma alla fine i giornali, e anche alcuni [p. 12] storici, attribuirono l'intera responsabilità a Giuseppe Ciancabilla. Fu scritto, infatti, che il leader individualista, esasperato dall'abilità dialettica dell'avversario, in un impeto d'ira estrasse la pistola e fece fuoco contro di lui. Gli eventi si svolsero, invece, in maniera diversa e solo oggi è possibile ricostruirli grazie anche alle rivelazioni del signor Ennio Mattias, un vecchio anarchico romano che, a suo tempo, raccolse le testimonianze di alcuni suoi compagni che avevano assistito alla drammatica scena. Malatesta e Ciancabilla erano impegnati in quel momento a discutere sul tema dell'«impulso» Doveva o no l'anarchico obbedire ciecamente al proprio impulso? Ciancabilla sosteneva che solo ascoltando il proprio impulso l'uomo libero poteva trovare la giusta via da seguire. Malatesta era di opinione contraria. Egli stava appunto spiegando che l'impulso non è sempre un buon suggeritore, quando uno del pubblico, il tessitore Antonio Baracchi, portò alla bocca la mano a mo di trombetta e manifestò la propria disapprovazione con un rumore che non lasciava dubbi. La volgare interruzione del Baracchi sollevò subito delle proteste che degenerarono poi in uno scambio di contumelie fra gli anarchici delle due correnti. Fu a questo punto che un amico del Baracchi, il barbiere ventenne Domenico Pazzaglia, forse per obbedire al proprio «impulso», tolse di tasca la pistola e sparò contro Malatesta. Per fortuna, Pazzaglia non riuscì a sparare un secondo colpo. Fu infatti fermato da un giovanotto elegante che gli strappò velocemente di mano la rivoltella e quindi lo atterrò con due pugni al viso. Questo giovanotto - che Malatesta aveva già avuto occasione di conoscere - era anche lui un convinto individualista. Si chiamava Gaetano Bresci e lavorava come decoratore di seta specializzato presso lo stabilimento Hamil and Booth Co. di Paterson. NOTE: (*) Autori di due falliti attentati a Umberto I. [p. 13] II. VOLEVANO chiamarlo VITTORIO EMANUELE Gaetano Bresci era nato a Coiano, alla periferia di Prato, l'11 novembre 1869, ossia lo stesso giorno in cui veniva alla luce, a Napoli, il futuro re Vittorio Emanuele III. Quello fu dunque un giorno di festa per l'Italia recentemente unita: la continuità della dinastia era assicurata. Le navi alla fonda nei porti di Napoli e di La Spezia spararono molte salve in onore del neonato reale e da Firenze, capitale del Regno, furono diramate in fretta alle prefetture le disposizioni per le cerimonie di rito. Ma a Coiano, in casa dei Bresci, la curiosa coincidenza fu avvertita con alcuni giorni di ritardo. Lo vennero infatti a sapere da Giuseppe Livi, un vicino di casa che era diventato anche lui padre Pagina 5 o Petacco. L'anarchico che venne dall'America, storia di gaetano brescia per uccidere umberto primo.txt Arrig da meno di una settimana. Il Livi, che non perdonava a sua moglie di avere mancato per sole quarantotto ore l'occasione di partorire «in contemporanea» con la principessa Margherita, era andato a complimentarsi coi suoi vicini, Gaspero Bresci e Maddalena Godi, per il loro sincronismo. «Il vostro bimbo sarà fortunato» disse poi il Livi a Maddalena. «Avete già deciso per il nome?» Maddalena scosse il capo lanciando un'occhiata di rimprovero al marito. «Purtroppo è già tutto fatto. Gaspero ha avuto fretta di andarlo a denunciare, e l'ha chiamato Gaetano.» «un peccato» commentò Giuseppe Livi. «Certo che è un peccato» confermò la donna sconsolata. «Dovevamo chiamarlo Vittorio Emanuele.» [p. 14] Effettivamente, regnando i Savoia, nascere lo stesso giorno del futuro re, e portare il suo nome, rappresentava un titolo di benemerenza che poteva fruttare qualche sussidio, se non addirittura la sistemazione del ragazzo appena in età di lavorare. Maddalena si rammaricò per tutta la vita dell'occasione perduta e anche suo figlio Gaetano non dimenticò mai questa sua curiosità biografica. Persino dopo essere diventato un anarchico militante conservò l'abitudine di rivelarla, a ogni occasione, con aria divertita, ma anche con un pizzico di civetteria. Gaetano Bresci era l'ultimo di quattro fratelli. Il primo, Lorenzo, nato nel 1856, diventò il calzolaio del paese; il secondo, Angiolo, nato nel 1861, diventò ufficiale di artiglieria; la terza, Teresa, nata nel 1865, sposò l'ebanista Angiolo Marocci e si trasferì a Castel San Pietro, presso Bologna, dove aprì una piccola fabbrica di ombrelli. In quegli anni, fra il '60 e l''80, la vita in casa Bresci se non era agiata non si poteva neppure definire misera. Il padre Gaspero possedeva un bel pezzo di terra, coltivato a grano, a ulivi, a vigneti, e una casa decorosa, a tre piani, in via delle Girandole (ora via Baracca 36) che esiste ancora oggi e ospita attualmente tre famiglie. Una prova che le condizioni economiche della famiglia Bresci fossero allora abbastanza buone è rappresentata dal fatto che - caso senza dubbio eccezionale fra i contadini di quell'epoca - il vecchio Gaspero aveva potuto permettersi di mandare il figlio Angiolo alle scuole superiori. Gaetano Bresci trascorse insomma i primi anni della sua vita in una famiglia di contadini benestanti. Frequentò le scuole elementari e ricevette una normale educazione religiosa. In casa Bresci si parlava poco di politica. Soltanto il primogenito, Lorenzo, manifestava simpatie per il nascente movimento anarco-socialista. Il secondogenito, Angiolo, aveva invece rivelato fin da ragazzo di possedere tutte le qualità per diventare un [p. 15] suddito fedele e benpensante. Frequentando le scuole superiori, gli si erano aperti orizzonti assai più invitanti di quelli che era solito ammirare dalla finestra della sua camera. Più tardi, gli studi fecero di lui un uomo molto diverso dai suoi fratelli e dai suoi amici di Coiano, quasi tutti analfabeti. A diciannove anni, quando la crisi economica travolse anche la sua famiglia, egli scelse la strada più breve per inserirsi nella società del suo tempo: la carriera militare. Si era nel 1880. In quegli anni la situazione economica italiana era andata peggiorando, soprattutto ai danni delle classi più povere, e s'era ulteriormente aggravata con la crisi agraria provocata dall'afflusso del grano americano. Questo aveva invaso i mercati europei grazie all'entrata in servizio delle navi a vapore, e in un solo anno il grano italiano era calato da 30 a 22 lire il quintale. La crisi ridusse il reddito procapite dei contadini al livello più basso mai raggiunto nella storia dell'Italia unita. Sulle campagne calò dovunque lo spettro della fame. La pellagra, una malattia dovuta a carenza di vitamina, spopolò intere contrade. La fame e la miseria incattivirono gli animi. Cominciarono a registrarsi nel paese i primi casi di insurrezione popolare. Ora, dietro la vernice convenzionale della sobria Italia umbertina (l'onesta Italia dove i benpensanti Pagina 6 o Petacco. L'anarchico che venne dall'America, storia di gaetano brescia per uccidere umberto primo.txt Arrig dormivano sonni tranquilli rassicurati dal passo doppio dei carabinieri), iniziava a farsi sentire la disperata miseria dell'altra Italia, quella che non aveva nessun diritto, neppure quello del voto. Era su questa Italia non ufficiale, d'altra parte, che gravava il peso dell'ambiziosa e dispendiosa politica del governo. Quando il baratro del disavanzo si faceva più pauroso, si ricorreva a nuove imposte: ma sempre ai danni delle classi più povere. Nacquero in quegli anni le famigerate «imposte sulla miseria», come le definì più tardi Giolitti, che colpivano i beni di consumo più elementari: il grano, il macinato in genere, il sale, il vino, persino il petrolio da illuminazione. [p. 16] Se tutto questo significò fame per le classi più povere, significò anche la rovina economica per la piccola borghesia. In poco tempo, infatti, quasi tutti i piccoli proprietari andarono a ingrossare le file del proletariato agricolo e industriale. Anche per i Bresci la crisi segnò la fine di un periodo di decoroso benessere. Il vecchio Gaspero si ritrovò oberato dai debiti e proprietario di un podere che non bastava più a mantenere una famiglia. La miseria era dunque alle porte. Per integrare il suo bilancio, Gaspero si mise a fabbricare spole che poi andava a vendere col figlio Gaetano presso le tessiture artigianali della zona. In quel periodo era in costruzione a Coiano una grande fabbrica tessile che avrebbe dovuto assorbire più tardi tutti i lavoranti delle filature domestiche. Il proprietario dello stabilimento si chiamava Hans Hosler ed era uno dei primi tedeschi che stavano calando in Italia per investire i propri capitali nella nostra giovane industria. Fu Hosler a ridare un po di respiro ai Bresci. Egli aveva intenzione di costruire accanto alla sua fabbrica una serie di abitazioni in cui alloggiare il personale dirigente che avrebbe fatto venire dalla Germania. E poiché il terreno dei Bresci si trovava nel posto giusto, si offrì di comprarne una parte. Gaspero non si lasciò sfuggire questa occasione. Vendette all'industriale tedesco oltre la metà del suo podere dove furono poi costruite dieci case a due piani, con giardino, ancor oggi chiamate «le case dei tedeschi» Nel contratto di vendita, però, Gaspero non parlò soltanto di denaro: pretese che vi fosse aggiunta una postilla nella quale il signor Hosler si impegnava ad assumere come apprendista il figlio Gaetano di undici anni. Il piccolo apprendista si dimostrò subito un ragazzo intelligente e dotato di una grande volontà di emergere. Frequentando - soltanto la domenica - la Scuola d'Arti e Mestieri di Prato, si specializzò come decoratore di seta. A quindici anni era già un operaio qualificato, ma anche un [p. 17] attivo esponente della sezione anarchica di Prato, che dopo l'apertura del «Fabbricone» era diventata una delle più importanti d'Italia. A vent'anni, Gaetano Bresci era un giovanotto molto in vista nel suo ambiente. Guadagnava bene, amava vestirsi con eleganza ricercata, e si andava rivelando un gran donnaiolo. Però, nonostante questi gusti un po borghesi, la sua fede anarchica non aveva cessato di rafforzarsi. Per la sua intransigenza aveva addirittura rotto ogni rapporto col fratello Angiolo (ora tenente di artiglieria), dopo aspre discussioni politiche. Non è facile oggi, a distanza di tanti anni e con così pochi elementi a disposizione, esplorare la personalità di Bresci e individuare i motivi di fondo del suo acceso estremismo politico. Probabilmente influì su di lui il ricordo della relativa agiatezza perduta; un ricordo - chissà quante volte rievocato in casa - che se da un lato lo spinse sempre a manifestare certi gusti borghesi, dall'altro accentuò il suo odio verso la classe che riteneva responsabile della rovina della sua famiglia: in fabbrica era il primo a insorgere quando veniva commessa un'ingiustizia, ma anche fuori era sempre pronto ad accorrere in difesa di chi, a suo avviso, era vittima di un sopruso. Una sera, mentre stava passeggiando per Prato in compagnia di altri anarchici, ebbe una particolare occasione per manifestare il suo temperamento. Pagina 7 o Petacco. L'anarchico che venne dall'America, storia di gaetano brescia per uccidere umberto primo.txt Arrig Erano circa le 22 del 3 ottobre 1892. In via Ricasoli, i vigili comunali Enrico Bellocci, Augusto Rughi e Adolfo Vannucchi, avendo sorpreso il garzone di macelleria Guido Materuozzoli col negozio ancora aperto, gli avevano contestato la contravvenzione. Bresci e i suoi amici sopraggiunsero proprio quando il ragazzo, con le lacrime agli occhi, stava pregando le guardie di evitargli la multa. Il gruppetto intervenne in difesa del garzone, e fu Bresci a gridare più di tutti. Dal verbale redatto dai vigili risulta infatti che il giovanotto di Coiano si rivolse loro in questi termini: «Sarebbe [p. 18] meglio che ve ne andaste per la vostra strada lasciando in pace questo povero operaio. Non siete stati anche voi operai? Ma già, ora non lo siete più! Ora siete i servi degli sfruttatori. Siete una massa di spie e di vagabondi!» I vigili naturalmente reagirono. Intimarono a Bresci di declinare le proprie generalità, ma lui rispose spavaldo: «Il mio nome non lo dico neanche a Dio!» Tutto finì, e ognuno se ne andò per la sua strada. Il giorno seguente, però, i vigili denunciarono Bresci e altri suoi tre compagni che erano intervenuti nella discussione: Augusto Nardini, Altavante Beccani e Antonio Fiorelli. I quattro anarchici comparvero davanti al pretore di Prato il 27 dicembre 1892 per rispondere di oltraggio alla forza pubblica e rifiuto di obbedienza. Gaetano Bresci fu condannato a 15 giorni di carcere e 20 lire di multa. Gli altri se la cavarono con una multa di 10 lire. Scontata interamente la pena, Gaetano Bresci tornò a casa, accolto come un eroe dai suoi compagni. Suo fratello Lorenzo, che era diventato il capofamiglia da quando, tre anni prima, erano morti entrambi i genitori, non gli mosse alcun rimprovero. Era anarchico anche lui, e nutriva molta ammirazione per il suo esuberante fratello. Si limitò soltanto a dirgli: «D'ora in poi dovrai stare più attento. Ormai sei segnato». Intanto, in Italia, essere anarchici o socialisti diventava sempre più difficile. Ora il movimento popolare faceva davvero paura e, dopo i moti insurrezionali di Sicilia e di Lunigiana, Crispi aveva fatto approvare le famose leggi speciali con cui venivano sciolte tutte le associazioni operaie e si sospendeva la libertà di stampa e di riunione. Proclamato lo stato d'assedio in Lunigiana e in Sicilia, Crispi aveva inoltre istituito il confino di polizia e, infine, aveva privato del voto 847.000 elettori sospetti di nutrire idee progressiste. Con quest'ultimo provvedimento, il corpo elettorale italiano, che comprendeva appena il 9,8% della popolazione, discese ulteriormente al 6,9% Le famigerate leggi crispine aumentarono la popolazione [p. 19] delle isole destinate a confino. Centinaia di anarchici e di socialisti vi furono relegati con un semplice provvedimento di polizia. E questa sorte toccò anche a Bresci. Egli era ormai schedato come anarchico pericoloso, e questa definizione era più che sufficiente per essere inviati al domicilio coatto. L'imputazione ufficiale per cui fu mandato al confino con altri cinquantadue anarchici di Prato fu tuttavia di avere organizzato uno sciopero fra le maestranze del «Fabbricone» Bresci rimase nell'isola di Lampedusa per oltre un anno, e venne liberato, insieme ai suoi compagni, nel maggio del '96, grazie a un'amnistia reale concessa a tutti i detenuti politici dopo il disastro di Adua. Rientrato a Prato, sebbene fosse un operaio molto apprezzato non riottenne il suo posto al «Fabbricone»: Hosler odiava con tutte le sue forze i sovversivi. Restò quindi per qualche tempo disoccupato, dedicandosi a un frenetico studio dei testi anarchici. Aveva preso l'abitudine alla lettura durante i lunghi mesi di confino e questa passione non lo avrebbe abbandonato più. Nel novembre del '96, dopo aver inutilmente cercato lavoro a Prato, decise di trasferirsi a Ponte all'Ania, una frazione di Barga, nell'alta Lucchesia, dove gli era stato offerto un posto nello stabilimento laniero Michele Tisi e C. La sua specializzazione nel mestiere gli assicurò subito un buono stipendio e anche la stima del Pagina 8 o Petacco. L'anarchico che venne dall'America, storia di gaetano brescia per uccidere umberto primo.txt Arrig padrone il quale, pochi mesi dopo, lo promosse capooperaio. Bresci era ora un giovane di ventisette anni, di aspetto assai piacente. Era alto 1,73, aveva i capelli neri ondulati e un paio di baffetti che coltivava con cura. Le peripezie giudiziarie avevano rafforzato in lui le convinzioni politiche, di cui non faceva mistero con nessuno. Da qualche tempo aveva anche preso l'abitudine di portare sempre con sé una rivoltella, per la quale, sorprendentemente, aveva ottenuto regolare permesso. Il suo modo di vestire era di un'eleganza che gli amici giudicavano eccentrica: sfoggiava abiti di buon taglio e vaporosi foulard di seta. Per questa sua raffinatezza, [p. 20] a Ponte all'Ania lo chiamavano scherzosamente «il paino», il damerino; ma tutti gradivano la sua compagnia, sia perché la sua cultura di autodidatta faceva impressione, sia perché era un ottimo organizzatore di gite domenicali a Lucca, con donne e vino. Le donne avevano molta importanza per Gaetano Bresci, che amava esibire il suo spirito di indipendenza e di ribellione soprattutto di fronte a loro. A Ponte all'Ania, il giovane ebbe varie avventure con operaie del suo stabilimento; e da una di queste - una non meglio identificata Maria - ebbe un figlio nell'estate del '97. Non si conoscono con esattezza le reazioni di Bresci di fronte a questa nascita, ma è certo che la sua felicità di ritrovarsi padre dovette essere molto relativa. Sappiamo infatti, dalla testimonianza dei suoi congiunti, che sul finire dell'estate rientrò a Coiano e chiese al fratello Lorenzo un prestito di trenta lire per pagare un non ben precisato «baliatico», dopodiché tornò a Ponte all'Ania, ma solo per poche settimane: a fine ottobre si fece liquidare dalla ditta Michele Tisi e C., quindi tornò a Coiano annunciando al fratello Lorenzo che aveva deciso di emigrare in America. Non si può dire se il giovane prese questa decisione principalmente per sfuggire alle sue responsabilità con Maria; o se vi fu indotto dalle lettere invitanti dei suoi compagni del «Fabbricone» che erano emigrati l'anno prima per impiegarsi nelle industrie tessili del New Jersey. Egli lasciò comunque Coiano alla fine di dicembre del '97 e sbarcò a New York il 29 gennaio 1898, munito di regolare passaporto. [p. 21] III. PATERSON, NEW JERSEY, capitale dell'anarchia Paterson, nel New Jersey, era allora una città di circa centomila abitanti, che si estendeva in maniera disordinata attorno ai numerosissimi stabilimenti tessili in cui si lavorava quasi tutta la seta greggia degli Stati Uniti. Una città tutt'altro che attraente. Sporca, sprovvista di fognature, con l'aria sempre ammorbata dal fumo che si levava dalle tristi filande in mattoni rossi, era composta di case di legno che si ammassavano le une sulle altre lungo il viadotto ferroviario che tagliava in due l'abitato. Paterson conta oggi centocinquantamila abitanti, di cui un buon terzo di origine italiana, e non è molto cambiata da allora. Ci sono ancora gli stabilimenti tessili e le squallide stradine dove abitavano gli immigrati italiani, divisi in settori: gli italiani del Nord lungo Straight Street, e gli italiani del Sud lungo Ellison Street. Ha conservato tutto il suo squallore di centro industriale, anche se un pauroso incendio, scoppiato nel 1903, che distrusse quasi mezza città (compresi gli archivi della polizia), ha fornito lo spazio necessario alle nuove costruzioni in muratura. Sul finire degli anni Sessanta, quando cominciai a lavorare alla prima edizione di questo libro, erano molto pochi gli abitanti di Paterson che ricordavano l'epoca in cui questa cittadina era stata uno dei più importanti centri anarchici degli Stati Uniti e la meta preferita di tutti quei «sovversivi» italiani che, verso la fine del secolo scorso, furono costretti a lasciare il loro paese per sfuggire all'ondata di repressione provocata dalle famose «leggi crispine» Fra coloro che ancora [p. 22] si ricordavano di quel periodo c'era il signor Emilio Augusta, un vecchio romagnolo, allora editore, Pagina 9 o Petacco. L'anarchico che venne dall'America, storia di gaetano brescia per uccidere umberto primo.txt Arrig direttore, tipografo e unico redattore del giornale «La Voce italiana» Emilio Augusta aveva conosciuto personalmente molti vecchi anarchici che furono amici di Gaetano Bresci e che vennero in qualche modo implicati nella vicenda che ebbe Bresci per protagonista. Egli conservava ricordi molto vivi di quel periodo movimentato, ma li rievocava sempre più di rado. Ormai, infatti, queste memorie appartenevano a un passato lontano e il signor Augusta, come tutti gli altri cittadini di origine italiana, si era definitivamente integrato nella società americana. Da circa vent'anni, per esempio, aveva smesso persino di pubblicare la sua «Voce italiana» nella lingua originale. La stampava, infatti, in inglese, poiché, altrimenti, essendo scomparsa la vecchia generazione degli immigrati, si sarebbe trovato ben presto senza lettori. I primi emigranti italiani erano giunti a Paterson all'inizio degli anni Ottanta del secolo scorso. Erano quasi tutti operai qualificati e provenivano da Como, Biella, Vercelli e Prato, ossia dalle zone dove già esisteva un'industria tessile. Essi facevano parte di quella prima corrente migratoria di lavoratori centro-settentrionali che, a differenza delle masse di emigranti che sarebbero più tardi partite dal Sud, erano stati spinti all'espatrio non precisamente dal bisogno o dalla fame, ma da aspirazioni di miglioramento economico unite anche a motivi di natura politica. Infatti, questi primi arrivati in terra americana diedero subito vita ad associazioni politiche - naturalmente di sinistra - che non tardarono a preoccupare il governo di Roma per la loro frenetica attività. Dalle relazioni dei rappresentanti diplomatici italiani dell'epoca, ai quali era stato ordinato di controllare i movimenti di questi «elementi pericolosi», è possibile oggi rendersi conto della rapida proliferazione delle associazioni anarchiche italiane negli Stati Uniti. [p. 23] Nel 1885 viene segnalata la costituzione del gruppo «Carlo Cafiero» a New York, a cui fanno seguito altri gruppi a Paterson, Filadelfia, Chicago, Boston e San Francisco. I nomi degli «elementi pericolosi» segnalati dal nostro consolato spesso sono ignoti, come quelli di un certo Morosini, banchiere a New York, di Beniamino Maccaluso, che nel 1881 aveva gettato una pistola nell'aula di Montecitorio, di Diego Spinelli, direttore della «Folla», di Maria Roda, di Giuseppe Adamo, dell'ingegner Giovanni Caggiano (di Scranton), che fu inviato in Italia come delegato dei Fasci operai d'America con una somma destinata ai lavoratori siciliani. Ma spesso viene segnalata a Roma anche la presenza di personaggi allora molto noti, come Errico Malatesta, Saverio Merlino, Camillo Prampolini e Andrea Costa. Si hanno inoltre preoccupate segnalazioni di progettati attentati in Italia, come la partenza, nel 1888, di un certo Nando, di Carrara, che avrebbe avuto intenzione di uccidere Umberto I. E giungono anche i piani di progettate sollevazioni, come quella di Civitavecchia del 1892 che, secondo il console italiano a New York, sarebbe stata organizzata da Prampolini, da Merlino e da un certo Pini. Questo, dunque, era l'ambiente in cui vivevano i lavoratori italiani di Paterson. Il centro anarchico più importante della città era la «Società per il diritto all'esistenza» che, secondo la consuetudine anarchica collettivista, non aveva capi o un gruppo dirigente, anche se il personaggio più influente era un tessitore di Vercelli di nome Giuseppe Ferraris. La sede della «Società» era situata in un albergo cittadino che la grafia americana indica come Bertholdis Hotel, mentre il suo nome esatto - essendo il proprietario un italiano - doveva essere Bertoldis Hotel. Questa società, che aveva sezioni e sottosezioni a New York, Filadelfia, Newark e Passaic, non era il solo raggruppamento anarchico di Paterson. Ne esistevano altri che riunivano minoranze di dissidenti, come la «Società Pensiero e Azione» e la «Biblioteca Libertaria» [p. 24] Gli anarchici italiani di Paterson leggevano molto e discutevano moltissimo. Alle loro riunioni, che si svolgevano tutti i Pagina 10