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L'Amico Americano PDF

227 Pages·1974·0.86 MB·Italian
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PATRICIA HIGHSMITH L'AMICO AMERICANO (Ripley's Game, 1974) 1 «Il delitto perfetto non esiste,» disse Tom a Reeves. «Cercare di architet- tarne uno può essere al massimo un passatempo da salotto. Naturalmente tu potrai dirmi che ci sono molti casi rimasti insoluti, ma questa è un'altra faccenda.» Tom era annoiato. Passeggiava su e giù davanti al grande ca- minetto in cui crepitava un fuoco piccolo ma piacevole. Sapeva di aver parlato con eccessiva saccenza, ma il fatto era che Reeves non gli piaceva, e una volta glielo aveva anche detto. «Sì, certo,» disse Reeves. Era seduto su una delle poltrone in seta gialla e teneva il corpo magro curvo in avanti, con le mani serrate tra le ginoc- chia. Aveva faccia ossuta, capelli corti color castano chiaro, occhi grigi e freddi: non era una faccia simpatica, ma sarebbe potuta essere attraente nel suo genere se non fosse stato per dodici centimetri di cicatrice che gli sol- cavano la guancia dalla tempia destra fin quasi alla bocca. Di un rosa un po' più intenso del resto del volto, quella cicatrice era un pessimo esempio di ricucitura chirurgica, ammesso che la ferita fosse mai stata ricucita. Tom non gli aveva mai fatto domande, ma Reeves una volta gli aveva offerto spontaneamente una spiegazione: «Me l'ha fatta una ragazza col portaci- pria. Te l'immagini?» (No, Tom non se l'immaginava.) Reeves gli aveva rivolto un sorrisetto breve e intristito, cosa rara, a memoria di Tom. In u- n'altra occasione aveva dichiarato: «Sono stato sbalzato da cavallo e tra- scinato per qualche metro col piede agganciato in una staffa.» Lo diceva ad altri, ma Tom era presente. Sospettava però che fosse stato un comune e anonimo coltello in qualche furibondo corpo a corpo. Ora Reeves voleva che Tom gli procurasse qualcuno (o gli suggerisse un nominativo) per uno o forse due «facili omicidi» e forse anche un furto, al- trettanto semplice e senza rischi. Reeves era venuto da Amburgo a Ville- perce per parlare con Tom. Avrebbe pernottato lì e l'indomani sarebbe an- dato a Parigi a contattare un'altra persona sullo stesso argomento, per poi tornare alla sua casa di Amburgo, presumibilmente a riflettere, nel caso che la missione fosse fallita. Reeves era soprattutto un ricettatore ma ulti- mamente aveva preso a sguazzare nel mondo del gioco d'azzardo illegale a Amburgo, che si accingeva ora a proteggere. Proteggere da cosa? Mastini italiani che intendevano mettere le mani in pasta. Uno degli italiani di Amburgo era un tirapiedi mafioso venuto a saggiare il terreno, secondo l'i- dea che se ne era fatta Reeves, mentre l'altro apparteneva forse a un'altra famiglia. Eliminando uno o entrambi gli intrusi, Reeves intendeva scorag- giare nuove interferenze mafiose e nello stesso tempo attirare l'attenzione della polizia amburghese su una possibile minaccia da parte della mafia, indurla a intervenire e lasciare che si occupasse di tutto il resto, vale a dire far sì che la polizia li buttasse tutti fuori. «Questi ragazzi di Amburgo sono gente perbene,» aveva dichiarato Reeves con convinzione. «Forse quel che fanno è illegale, un paio di bische o cose del genere, ma i loro locali sono in regola e ne ricavano profitti equi. Non è come a Las Vegas, dove tutta la città è corrotta, gestita dalla mafia, e proprio sotto il naso della polizia a- mericana!» Tom, con l'attizzatoio, raccolse in un mucchietto i tizzoni su cui posò un nuovo piccolo ceppo. Mancava poco alle sei. Quasi ora di bere qualcosa. E perché non subito? «Che ne diresti...» La signora Annette, governante di casa Ripley, arrivò proprio allora dal- la cucina. «Perdonatemi, Messieurs. Desidera che serva adesso da bere, Monsieur Tom, visto che il signore non ha voluto il tè?» «Sì, grazie, Madame Annette. Ci stavo appunto pensando. E vuol dire alla signora Heloise di raggiungerci?» Tom desiderava che Heloise ralle- grasse un po' l'atmosfera. Prima di andare a Orly alle tre a prendere Reeves l'aveva avvertita che l'ospite veniva apposta per parlare con lui; perciò He- loise aveva passato il pomeriggio prima a occuparsi del giardino, e poi al piano di sopra, da sola. Reeves fece un ultimo tentativo, con rinnovato impeto e speranza. «Non vorresti occupartene tu?» chiese. «Tu non sei del giro, capisci, ed è proprio quel che vogliamo. Non ci sono rischi. E poi ci sono i soldi, novantaseimi- la non sono pochi.» Tom scrollò la testa. «Non sono nel giro ma conosco te.» Che diamine, aveva fatto qualche lavoretto per Reeves Minot, come piazzare qualche piccolo articolo rubato, o recuperare certi cosucci, forse microfilm, che Reeves aveva nascosto nella pasta dentifricia di partite consegnate da fat- torini ignari. «Quanto credi che io riesca a star fuori da questa faccenda da cappa e spada? Ho una reputazione da difendere, sai.» Tom sentì il deside- rio di sorridere alla propria battuta, ma allo stesso tempo una punta di au- tentico orgoglio gli accelerò i battiti del cuore, al pensiero della bella casa in cui viveva, della sua esistenza tranquilla e sicura, ora, a sei mesi di di- stanza dall'affare Derwatt, quasi una catastrofe dalla quale era uscito con solo il velo di un fugace sospetto. Ghiaccio sottile, certo, ma comunque non si era rotto. Tom aveva accompagnato l'ispettore britannico Webster e un paio di medici legali nei boschi di Salisburgo dove aveva cremato il presunto corpo del pittore Derwatt. La polizia voleva sapere perché gli a- veva fracassato il cranio. A ripensarci, Tom provava ancora l'impulso a una smorfia. L'aveva fatto per cercar di far scomparire l'arcata dentaria su- periore del cadavere. La mandibola era venuta via facilmente e l'aveva sep- pellita altrove. Ma i denti superiori... alcuni erano stati raccolti da uno dei medici, ma non si era trovato dentista a Londra che avesse lo stampo dei denti di Derwatt, che si credeva fosse vissuto in Messico, negli ultimi sei anni. «Mi sembrava logico per una cremazione, serviva a riciurlo total- mente in ceneri,» aveva risposto Tom. Il corpo cremato era di Bernard. Tom rabbrividiva ancora, sia per il pericolo del momento, sia per l'orrore di quanto aveva fatto, quando aveva lasciato cadere la pietra sul cranio carbonizzato. Ma almeno, lui, Bernard non l'aveva ucciso. Bernard Tufts si era suicidato. Tom disse: «Con tutta la gente che conosci, sono sicuro che sai trovare qualcuno che ti faccia il lavoro.» «Sì, ma ci sarebbe una relazione, più che con te. La gente che conosco io è nota, come dire,» spiegò Reeves con voce intristita di delusione. «Tu co- nosci molta gente rispettabile, Tom, gente assolutamente pulita, al di là di ogni sospetto.» Tom rise. «E come vorresti arrivarci, a gente così? Ogni tanto mi sembri matto, Reeves.» «No! Sai cosa voglio dire. Qualcuno che lo faccia per i soldi, solo per i soldi. Non c'è bisogno che sia un professionista. Gli prepariamo noi il ter- reno. Sarà... come assassinii pubblici. Ci vuole qualcuno che anche se in- terrogato dia l'impressione di essere assolutamente incapace di una cosa simile.» Madame Annette entrò con il carrello delle bevande. Il secchiello d'ar- gento brillava. Il carrello cigolava un po'. Già da settimane Tom aveva in mente di metterci un po' d'olio. Avrebbe potuto continuare a discutere con Reeves perché la signora Annette, che Dio l'abbia in gloria, non capiva l'inglese, ma era stufo di quell'argomento e salutò con sollievo l'interruzio- ne della governante. Madame Annette era originaria della Normandia, a- veva superato i sessanta, era di corporatura solida e tratti piacevoli; ed era un gioiello di governante. Tom non riusciva a immaginare «Belle Ombre» senza di lei. Poi entrò Heloise dal giardino e Reeves si alzò in piedi. Heloise indos- sava dungarees scampanati a strisce verticali rosa e rosse con la scritta Le- vi ripetuta in ogni striscia. Aveva i capelli biondi sciolti. Tom ne apprezzò la lucentezza e pensò, «Che purezza, a confronto di quanto abbiamo detto finora!» La luce dei capelli di Heloise era però dorata, cosa che lo indusse a pensare ai soldi. In verità non aveva proprio bisogno di altro denaro, an- che se la vendita dei quadri di Derwatt su cui riscuoteva una percentuale si sarebbe presto esaurita per mancanza di altre opere. Tom incassava anche una percentuale sui profitti della ditta di articoli artistici di Derwatt e quel- l'entrata avrebbe continuato a esistere. Poi c'erano gli interessi, ora modesti ma in crescendo, delle obbligazioni Greenleaf che aveva ereditato grazie a un testamento falsificato da lui stesso. Senza contare la generosa rendita assicurata a Heloise dal padre di lei. Non era il caso di lasciarsi prendere dalla voracità. Tom detestava gli omicidi, a meno che fosse strettamente necessario ricorrervi. «È stata una buona chiacchierata?» chiese Heloise in inglese, lasciandosi andare con grazia sul divano giallo. «Sì, grazie,» rispose Reeves. Il resto della conversazione continuò in francese, perché Heloise faceva un po' di fatica in inglese. Reeves non conosceva bene il francese ma se la cavò lo stesso, e poi non si parlava di niente di veramente importante: il giardino, l'inverno mite che ormai era proprio finito, visto che lì, agli inizi di marzo, gli asfodeli sbocciavano già. Tom versò a Heloise dello champa- gne da una delle bottigliette sul carrello. «Com'è Amburgo?» azzardò di nuovo in inglese Heloise. Tom notò una vena di divertimento nei suoi occhi mentre Reeves si arrabattava a confe- zionare una risposta convenzionale in francese. Nemmeno a Amburgo faceva molto freddo; poi Reeves aggiunse che anche lui aveva un giardino, poiché la sua «petite maison» si trovava sul- l'Alster che era acqua, cioè una sorta di baia dove molta gente aveva casa con giardino e acqua accessibile, cioè si poteva tenere una piccola imbar- cazione, volendo. Tom sapeva che Heloise aveva in antipatia Reeves Minot, che non si fi- dava di lui, che lo considerava una delle persone da evitare con maggior cura. Pensò allora con soddisfazione che quella sera avrebbe potuto dirle in tutta onestà di aver declinato l'invito di Reeves a collaborare con lui. He- loise era sempre preoccupata di quel che avrebbe potuto dire suo padre. Suo padre, Jacques Plisson, era un industriale farmaceutico milionario, un gollista, l'essenza stessa della rispettabilità francese. E Tom non gli era mai andato giù. «La tolleranza di mio padre ha dei limiti!» l'ammoniva spesso Heloise. Ma Tom sapeva che Heloise era preoccupata più per la sua vita che per la rendita di suo padre, il quale - a sentir lei - minacciava a ripeti- zione di tagliare i rifornimenti. Andava a pranzo dai suoi genitori nella lo- ro residenza di Chantilly una volta alla settimana, di solito il venerdì. Se suo padre avesse davvero sospeso quell'entrata, non ce l'avrebbero fatta più a «Belle Ombre», e questo Tom lo sapeva. Il menù della cena prevedeva médaillons de bœuf, preceduti da carciofi freddi in una salsa speciale di Madame Annette. Heloise si era cambiata per indossare un vestito celeste di taglio semplice. Secondo Tom aveva già intuito che Reeves non aveva ottenuto quel che era venuto a cercare. Prima che tutti si ritirassero, Tom si assicurò che Reeves avesse tutto quello di cui aveva bisogno e gli chiese a che ora voleva che gli fosse servito il caffè o il tè. Caffè alle otto, aveva risposto Reeves. A Reeves era riservata la camera per gli ospiti, sulla sinistra, cui era annesso il bagno di Heloise; ma Madame Annette si era già preoccupata di trasferire lo spazzolino da denti di Heloise nel bagno attiguo alla camera di Tom. «Sono contenta che se ne vada domani. Perché è così nervoso?» chiese Heloise mentre si lavava i denti. «È sempre nervoso.» Tom serrò il rubinetto della doccia, ne uscì e si av- volse subito in un grande asciugamano giallo. «È per questo che è magro, forse.» Parlavano inglese perché Heloise non sentiva imbarazzo a parlarlo con Tom. «Come l'hai conosciuto?» Tom non se lo ricordava. Quando? Cinque, sei anni fa, forse. A Roma? Di chi era amico Reeves? Tom era troppo stanco per volersi concentrare e poi non era importante. Conosceva cinque o sei persone di quel genere e gli sarebbe stato assai difficile dire dove aveva conosciuto ognuno di loro. «Cosa voleva da te?» Tom le cinse la vita con un braccio, premendole contro il corpo il tessuto leggerodella camicia da notte. Le baciò la guancia fresca. «Qualcosa di impossibile. Gli ho detto di no. Lo hai visto da te. È deluso.» Quella sera c'era una civetta, una civetta solitaria che chiamava qualcuno tra i pini della foresta demaniale dietro a «Belle Ombre». Tom restò sdraia- to con il braccio sinistro sotto il collo di Heloise, a riflettere. Lei si addor- mentò e il suo respiro diventò lento e leggero. Tom sospirò e continuò a ri- flettere. Ma non pensava secondo un ordine logico e costruttivo. Il secondo caffè lo teneva sveglio. Ricordava un ricevimento di un mese prima, a Fontainebleau, una festa informale per il compleanno di Madame... chi? Era il nome del marito che interessava a Tom, un nome inglese che gli sa- rebbe tornato in mente di lì a qualche secondo. Era un uomo sui trent'anni. La coppia aveva un figlio maschio, ancora piccolo. Abitavano in una casa a tre piani, in un quartiere residenziale di Fontainebleau, con dietro un giardinetto. Il padrone di casa faceva il corniciaio e per questo Tom era stato trascinato alla festa da Pierre Gauthier, che possedeva un negozio di materiale artistico in Rue Grande, dove Tom acquistava colori e pennelli. Gauthier aveva detto: «Su, signor Ripley, venga con me, e porti anche sua moglie! Vuole che ci sia tanta gente. È un po' giù. E comunque, visto che fa cornici, lei potrebbe diventare suo cliente.» Tom sbatté le palpebre nell'oscurità e tirò un po' indietro la testa per non toccare con le ciglia la spalla di Heloise. Ricordava un inglese, alto, bion- do, ma con una punta di rancore e non poca antipatia, perché in cucina, quella tetra cucina col vecchio linoleum per terra e il soffitto di latta, affu- micato, ornato da un bassorilievo ottocentesco, gli aveva comunicato qual- cosa di spiacevole. Questo Trewbridge o Tewksbury o cos'altro gli aveva detto con un'antipatica aria allusiva: «Oh già, ho sentito parlare di lei.» Tom gli aveva detto: «Io sono Tom Ripley. Sto a Villeperce.» Aveva avuto l'intenzione di chiedergli da quanto tempo si trovava a Fontainebleau, pen- sando che forse un inglese sposato a una francese aveva desiderio di strin- gere amicizia con un americano con moglie francese che abitava vicino. Ma il suo approccio era stato accolto con maleducazione. Trevanny? Si chiamava così? Biondo, capelli lisci, un aspetto più da olandese, ma capita spesso che un inglese sembri olandese e viceversa. Comunque adesso Tom stava pensando a quel che Gauthier gli aveva detto più tardi, nel corso di quella serata. «È depresso. Non si comporta scontrosamente di proposito. Ha una malattia del sangue, leucemia, credo. Una faccenda grave. E poi, come ha potuto constatare guardando casa sua, non gli butta molto bene.» Gauthier aveva un occhio di vetro di un curioso colore giallo-verde, un tentativo fallito di accordarsi alla tinta dell'occhio buono. L'occhio finto sembrava quello di un gatto morto. Si evitava di guardarglielo, ma lo sguardo ne era ipnoticamente attratto, e così, le parole tenebrose di Gauthier, combinate con quell'occhio di vetro, avevano susci- tato nella mente di Tom una forte sensazione di morte difficilmente dimen- ticabile. Oh già, ho sentito parlare di lei. Voleva dire che questo Trevanny, o come diavolo si chiamava, lo reputava responsabile della morte di Bernard Tufts, e prima ancora di quella di Dickie Greenleaf? O quell'inglese ce l'a- veva semplicemente con tutti a causa della sua malattia? Dispeptico, come chi soffre perennemente di mal di stomaco? Ora Tom ricordava la moglie di Trevanny, non bella, ma certamente interessante, con capelli castani, modi di fare cortesi e alla mano. Aveva fatto del suo meglio per il buon andamento della festa, in salotto e in cucina, dove nessuno si era seduto sulle poche sedie disponibili. Tom pensava: un uomo così accetterebbe un contratto del tipo di quello che offriva Reeves? Tom aveva già pensato a un modo interessante per av- vicinare Trevanny: avrebbe funzionato con chiunque, se si preparava bene il terreno, e in questo caso il terreno era già spianato. Trevanny era molto preoccupato per la propria salute. L'idea di Tom non era molto più che un brutto scherzo, ma quell'uomo l'aveva trattato male e se lo meritava. Lo scherzo non sarebbe forse durato più che un giorno o due, il tempo neces- sario a Trevanny per consultare un medico. Tom si sentì divertito dai propri pensieri e scivolò un po' più lontano da Heloise così che se avesse sussultato nel reprimere una risata non avrebbe corso il rischio di svegliarla. E se Trevanny si fosse mostrato vulnerabile e avesse obbedito a Reeves come un soldato, come in sogno? Valeva la pena provare? Sì, perché Tom non aveva niente da perdere. E nemmeno Tre- vanny. Anzi, Trevanny aveva forse da guadagnarci. Anche Reeves ne a- vrebbe forse tratto un guadagno, almeno a sentir lui. Ma di questo poteva occuparsi Reeves personalmente, perché quel che voleva a Tom pareva confuso e vago non meno dei suoi traffici di microfilm, forse relativi a spionaggio internazionale. Ma i governi sapevano di queste peripezie da squilibrati di alcuni dei loro dipendenti? Di questi individui eccentrici e quasi dementi che facevano la spola tra Bucarest, Mosca e Washington con armi e microfilm, individui che con lo stesso entusiasmo sarebbero stati capaci di dedicarsi a conflitti internazionali di collezionismo filatelico o furti di piani segreti per la costruzione di trenini elettrici? 2 Così, una decina di giorni dopo, il 22 marzo, Jonathan Trevanny, che vi- veva a Fontainebleau in Rue St. Merry, ricevette una lettera curiosa dal suo buon amico Alan McNear. Alan, rappresentante a Parigi di una ditta elet- tronica inglese, aveva scritto la lettera poco prima di partire per New York in missione d'affari e, stranamente, il giorno dopo aver fatto visita ai Tre- vanny a Fontainebleau. Jonathan si era aspettato casomai un messaggio di ringraziamento per la festicciola di buon viaggio allestita in suo onore e in effetti Alan scriveva qualche parola di questo tenore; ma il paragrafo che lasciava Jonathan perplesso diceva: «Jon, sono rimasto molto male alla notizia della tua vecchia malattia del sangue, e anche adesso continuo a sperare che non sia vero. Mi è stato det- to che ne sei al corrente ma che non lo dici a alcuno dei tuoi amici. È mol- to nobile da parte tua, ma allora gli amici a che servono? Non devi pensare che ti eviteremmo o che per tema delle tue malinconie ci passerebbe la vo- glia di vederti. I tuoi amici (e io sono tra loro) sono qui, sempre. Comun- que non mi riesce di mettere per iscritto quel che vorrei dire. Andrà meglio quando ci rivedremo tra un paio di mesi, quando rimedierò qualche giorno di ferie. Perdonami quindi queste poche parole così poco adeguate.» Di cosa parlava Alan? Forse il suo medico personale, Perrier, aveva det- to qualcosa ai suoi amici, qualcosa che invece aveva preferito tacere a lui? Che gli restava poco da vivere, magari... Il dottor Perrier non era presente alla festa per Alan, ma poteva ben darsi che ne avesse parlato con qualcun altro. Forse il medico aveva confessato qualcosa a Simone. E anche Simone gli nascondeva un segreto, allora? Occupato in queste considerazioni, Jonathan sostava nel suo giardino, verso le otto e trenta del mattino, infreddolito sotto il maglione, e con le di- ta sporche di terra. Avrebbe parlato con il dottor Perrier il giorno stesso. Con Simone non valeva la pena tentare, perché era abile a recitare. Ma ca- ro, si può sapere di che stai parlando? Jonathan non era certo di saper in- tuire quando Simone recitava. E il dottor Perrier, poteva fidarsi di lui? Il dottor Perrier era uno di quei medici sempre pimpanti e sprizzanti ottimismo: il che va benissimo quan- do si è affetti da una malattia di poco conto, e infatti in questo caso ti fa sentir subito meglio, o addirittura guarito. Lui era affetto da mielosi leu- cemica, caratterizzata da un eccesso di materia gialla nel midollo osseo. Negli ultimi cinque anni aveva subito almeno quattro trasfusioni annuali. Ogni volta che si sentiva debole doveva rivolgersi al suo medico o all'o- spedale di Fontainebleau per una nuova trasfusione. Il dottor Perrier gli aveva detto (e conferma si era avuta da specialisti parigini) che sarebbe venuto il momento in cui il declino sarebbe diventato rapido e allora le tra- sfusioni sarebbero servite a poco. Jonathan aveva letto abbastanza sulla sua malattia per saperlo da sé. Nessuno aveva ancora trovato la cura per la mielosi leucemica. In media uccideva da sei a dodici anni dopo il suo in- sorgere, o anche da sei a otto. Jonathan stava allora entrando nel sesto an- no. Jonathan ripose il forcone nel casotto di mattoni che era stato un gabi- netto e che ora serviva da ripostiglio per gli utensili del giardinaggio. Si gi- rò e raggiunse i gradini dell'ingresso posteriore. Sostò col piede sul primo gradino e si riempì i polmoni di fresca aria mattutina pensando: «Per quan- te settimane ancora potrò godere mattine come queste?» Ma ricordava di aver pensato la stessa cosa la primavera scorsa. Animo, si disse, è da cin- que anni che vivi sapendo bene che probabilmente non arriverai ai trenta- cinque. Jonathan salì gli otto scalini di ferro a passi decisi, mentre riflet- teva sul fatto che erano già le 8,52 e che avrebbe dovuto trovarsi in nego- zio alle 9 o al massimo pochi minuti dopo quell'ora. Simone era andata con Georges alla «Ecole Maternelle» e la casa era vuota. Jonathan si lavò le mani nel lavello della cucina e si servì dello spazzolino per gli ortaggi, cosa che Simone non avrebbe certamente ap- provato. Ma si preoccupò di lasciare lo spazzolino pulito. L'altro lavandino di casa era nel bagno, al piano superiore. Non c'era telefono. Avrebbe chiamato il dottor Perrier dal negozio, non appena ci fosse arrivato. Jonathan andò a piedi in Rue de la Paroisse e svoltò a sinistra, poi pro- seguì fino a Rue des Sablons che l'attraversava. In negozio compose il nu- mero del medico, che conosceva a memoria. L'infermiera gli disse che il dottore era occupato tutto il giorno. Se l'a- spettava. «È urgente. Non gli ruberò molto tempo. Devo fargli solo una domanda, in fondo. Ma devo assolutamente vederlo.» «Si sente debole, signor Trevanny?» «Sì, infatti,» rispose subito Jonathan. Ottenne un appuntamento per mezzogiorno. Un'ora che aveva dell'in- quietante. Jonathan faceva il corniciaio. Tagliava stuoie e vetro, fabbricava cornici, sceglieva tra quelle già pronte le cornici per i clienti indecisi, e una volta ogni tanto, acquistando cornici vecchie alle aste o dai rigattieri, trovava un quadro di qualche interesse con relativa cornice, adatto a essere ripulito e messo in vetrina in vendita. Ma il tutto rendeva poco. Sbarcava appena il lunario. Sette anni prima aveva avuto un socio, un altro inglese di Manche- ster, col quale aveva avviato un negozio d'antiquario a Fontainebleau. Compravano per lo più merce di scarto che riattavano e mettevano in ven- dita. Ma il lavoro non rendeva abbastanza per due e Roy aveva finito con l'andarsene a fare il meccanico di auto nei pressi di Parigi. Poco tempo do- po un medico parigino disse a Jonathan quello che già gli aveva detto un altro professionista di Londra: «Lei ha tendenza all'anemia. Le conviene fare controlli frequenti, e soprattutto eviti i lavori pesanti.» Così da cante- rani e ottomane Jonathan era passato a oggetti più leggeri come vetro e cornici. Prima di sposarsi aveva voluto avvertire Simone che forse non sa- rebbe vissuto per più di sei anni. Infatti, proprio nel periodo in cui l'aveva conosciuta, due medici gli confermarono che le sue debolezze periodiche erano dovute a mielosi leucemica. Mentre molto, molto lentamente incominciava la sua giornata lavorativa, Jonathan pensava che se fosse morto Simone avrebbe potuto risposarsi. Simone lavorava cinque pomeriggi alla settimana, dalle 14,30 alle 18,30, in un negozio di calzature di Avenue Franklin Roosevelt, molto vicino alla loro abitazione. Aveva incominciato da poco, da quando cioè Georges a- veva potuto iniziare a frequentare l'asilo. Avevano bisogno dei duecento franchi settimanali che Simone portava a casa, e tuttavia Jonathan era an- sioso perché il principale di sua moglie, Brezard, era un libertino, a cui piaceva dar pizzicotti alle natiche delle commesse e tentar la sorte nel re- trobottega, dove c'era il magazzino. Simone era una donna sposata, come Brezard sapeva perfettamente, e questo poneva forse dei limiti al suo com- portamento con lei; tuttavia Jonathan sapeva anche che tipi della sua risma non si arrendono mai. Simone dal canto suo non era certo una civetta; era anzi timida, nel modo in cui lo è una donna che non si considera attraente. Era quello un aspetto della sua personalità che era piaciuto a Jonathan. Per lui, Simone era invece superdotata di sex appeal, ma di un genere poco ap- pariscente per la maggioranza degli uomini. Ecco, quel che lo seccava di più era il pensiero che quel maiale allo stato brado di Brezard si fosse ac- corto di questo personalissimo fascino di Simone e desiderasse assaggiarne il sapore. Non che Simone parlasse molto di Brezard. Solo una volta gli aveva detto che al principale piaceva tentare con le sue commesse, tre in tutto con lei. Per un istante, quel mattino, consegnando un acquerello in- corniciato a una cliente, Jonathan immaginò Simone che, dopo un dovero- so intervallo, soccombeva all'odioso Brezard, scapolo e certamente in una

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