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La misura dell'inatteso. Ebraismo e cultura italiana (1815-1988) PDF

273 Pages·2022·1.478 MB·Italian
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Alberto Cavaglion La misura dell’inatteso Ebraismo e cultura italiana (1815-1988) VIELLA La storia. Temi 100 Alberto Cavaglion La misura dell’inatteso Ebraismo e cultura italiana (1815-1988) viella Copyright © 2022 - Viella s.r.l. Tutti i diritti riservati Prima edizione: maggio 2022 ISBN 978-88-3313-835-0 ISBN 979-12-5469-037-6 ebook-pdf CAVAGLION, Alberto La misura dell’inatteso : ebraismo e cultura italiana (1815-1988) / Alberto Cavaglion. - Roma : Viella, 2022. - 271 p. : ill.. ; 21 cm. - (La storia. Temi ; 100) Indice dei nomi: p. [261]-271 ISBN 978-88-3313-835-0 1. Ebrei - Cultura - Italia - Sec. 19.-20. 2. Antisemitismo - Italia - Sec. 19.-20. 2. Antifa- scismo - Italia - Sec. 20. 945.004924 (DDC 23.ed) Scheda bibliografica: Biblioteca Fondazione Bruno Kessler viella libreria editrice via delle Alpi, 32 I-00198 ROMA tel. 06 84 17 758 fax 06 85 35 39 60 www.viella.it Indice Introduzione 7 Parte I. Dal Risorgimento all’età giolittiana 1. Il fondaco oscuro dei ricordi 15 2. Un esempio di scrittura bambina 37 3. 1848-1998. Il lungo cammino della libertà 47 4. I vecchi e i giovani 55 5. Sillabari e grammatiche 65 6. Dante e la cultura ebraico-italiana fra Otto e Novecento 69 7. Tendenze nazionali e albori sionistici 87 8. Il modernismo ebraico 103 9. Cenobitismo 117 Parte II. Fascismo e antifascismo 10. Ebrei e antifascismo 127 11. «Il mio poeta». Eugenio Colorni, Umberto Saba e la psicoanalisi 139 12. In qualsiasi luogo 149 13. «Libero» esercizio del culto o «comunità isolata»? L’opinione di Piero Sraffa 155 14. Camillo Berneri e il «delirio razzista» 169 6 La misura dell’inatteso Parte III. Fare i conti con il fascismo 15. L’Italia della razza s’è desta 183 16. Gli ebrei e l’occupazione italiana della Francia meridionale (1940-1943) 189 17. Il sole dei poveri 201 18. Giorgio Bassani e la storia 209 19. Arnaldo Momigliano e «la misura dell’inatteso» 221 Appendice Dodici lettere di Arnaldo Momigliano (1982-1986) 243 Nota ai testi 257 Indice dei nomi 261 Introduzione Venti anni sono passati dall’uscita di Ebrei senza saperlo, il libro cui sono più affezionato. Un periodo troppo lungo per giustificare una ripre- sa: «Noi studiamo il mutamento perché siamo mutevoli», raccomandava il grande storico dell’età classica Arnaldo Momigliano, cui è dedicato adesso un saggio lungo e impegnativo, dal quale ho tratto il titolo per questa mia nuova raccolta di saggi: «A causa del mutamento la nostra conoscenza non sarà mai definitiva: la misura dell’inatteso è infinita». «L’esperienza mutevole» ha lasciato un segno anche in «un agente classificante» assai modesto, quale penso di essere. Così, a vent’anni di distanza, in una fase della vita in cui s’inizia a compilare qualche bilancio, sono ripartito dalle premesse di allora, rielaborandole con il supporto di successive ricerche. Diverso e inconsueto l’arco cronologico esaminato. Non si parte dal 1848 o dal 1861, come di solito accade, ma dal 1815, l’anno della Restau- razione, che reprime il sogno di libertà favorito dalla parentesi napoleoni- ca. Attraverso due fonti inusuali, e con due metodologie distanti fra loro, sono risalito alle origini del problema. Da un lato mi sono appoggiato alla cronaca di alcune vicende e carte famigliari, dall’altro sono partito da una fonte apparentemente marginale: la scrittura bambina, il giornale di un adolescente che nel 1822 racconta dal suo punto di vista la trasfor- mazione in atto. L’analisi sul lungo periodo dovrebbe consentire di vedere meglio quel- lo che di norma non si dice. Il rapporto fra ebrei e cultura italiana possiede un’inquietante circolarità: dal vecchio (le interdizioni delle Regie Patenti) si passa al nuovo (la prima emancipazione napoleonica) per ritornare al vecchio (la Restaurazione di Carlo Felice); segue una nuova risalita (lo 8 La misura dell’inatteso Statuto di Carlo Alberto) e nemmeno un secolo dopo si assiste al ritorno dell’antico (le interdizioni del duce) per risalire infine a riveder le stelle il 25 aprile 1945. Questo processo altalenante – il torto di essere ebrei diven- ta diritto e torna due volte a diventare un torto – spero risulti chiaro dalla prima sezione del libro, che include, non per caso, un saggio sulla fortuna di Dante nell’ebraismo otto-novecentesco: la Commedia è stata infatti la più fedele e riverita guida nelle alterne fasi di ascesa verso la libertà e di discesa agli inferi. Come punto di approdo, per la terza sezione, non ho scelto, come ac- cade di solito, il 25 aprile 1945, ma ho prolungato lo sguardo al 1988, cinquantenario delle leggi razziali, data che secondo me segna una svolta radicale. Vent’anni fa lo avevo vagamente intuito, oggi il cambiamento mi sembra davanti agli occhi di tutti. Sarebbe forse più opportuno indicare il triennio che va dal 1987, anno di morte sia di Primo Levi sia di Arnaldo Momigliano, al 1989: la caduta del muro di Berlino ha spazzato via le strutture e sovrastrutture della precedente stagione storiografica segnando un’inattesa, quanto impetuosa e in parte anche sospetta rinascita di interes- si intorno al mondo ebraico e all’antisemitismo fascista. I saggi ruotano intorno ad alcuni momenti storici precisi: il liberali- smo dell’Ottocento e le sue aporie; la solidarietà fra le culture osservata attraverso la lotta contro ogni «separazione» portata innanzi attraverso la conoscenza della lingua ebraica (nelle grammatiche e nei sillabari) e le traduzioni (della Commedia in ebraico e, viceversa, dell’eleganza scrittu- rale trasposta in lingua italiana). Una sosta più lunga ha richiesto l’inda- gine sui grandi tornanti del dialogo ebraico-italiano: il primo sionismo, il modernismo, l’antifascismo nei suoi risvolti meno conosciuti, la battaglia per la libertà religiosa prima e dopo il Concordato. Infine, ultimo tema, il più rovente: l’esigenza, avvertita come indispensabile da molti, del «fare i conti con il fascismo». Largo spazio è riservato a figure minori o minime. Le figure eminenti ci sono, ma sono osservate da una prospettiva diversa (è il caso del saggio su Bassani storico). L’ipotesi formulata è che il dialogo fra ebraismo e cul- tura italiana sveli parecchi punti deboli. Il libro cerca di individuarli, spie- gando le ragioni per cui il reciproco riconoscimento è stato interrotto o non sia giunto a piena maturazione. Lo sguardo non esclude, accadeva già in Ebrei senza saperlo, le responsabilità interne al mondo ebraico: la distanza tra i vertici comunitari (la classe dirigente spesso divisa al suo interno, le élites) e la vitalità di alcuni individui isolati e fuori-schema si è fatta, con Introduzione 9 il trascorrere dei decenni, sempre più palpabile. Un contrasto a tratti duro, destinato a implodere nella seconda metà degli anni Trenta. Di qui il rilievo che assumono, in un paesaggio che è stato di rovine, i pochi Don Chisciotte impegnati su un terreno come questo, convinti che una battaglia perduta sia comunque migliore cosa di una battaglia non combattuta. Presentando Ebrei senza saperlo, nel 2001, raccontavo come fossi sta- to costretto, nel periodo della mia formazione, a cercarmi maestri anziani (i «grandi vecchi» dell’Ottocento adesso li ho messi al centro di uno dei sag- gi della prima sezione). Ora che vecchio, non certo grande sto diventando pure io, l’affetto per loro rimane invariato. Altri momenti del rapporto fra ebraismo e cultura italiana me li porto dietro si può dire da quando avevo vent’anni e il lettore non faticherà a ritrovarli nelle nuove pagine su Felice e Arnaldo Momigliano o in quelle sull’occupazione italiana della Francia meridionale. Come «agente classificatore» conosco i miei limiti, ma un dettaglio vorrei qui per la prima volta svelare. Credo non siano stati molti gli studenti universitari arrivati a pubblica- re un libro prima di laurearsi. Quel mio lavoro sugli ebrei di Saint-Martin- Vésubie (1981), cui accenno in un saggio della terza sezione, ha per me il valore romantico dei primi amori: recava una prefazione di uno dei grandi vecchi che mi stavano aiutando a crescere, Alessandro Galante Garrone. La prefazione si concludeva così: «Questo giovane andrà lontano». Vero. Appena laureato, vinsi una cattedra nelle medie inferiori a Fene- strelle. Ogni mattina partivo all’alba da Torino per raggiungere quei ragaz- zini infreddoliti ma pieni di entusiasmo; andando verso la scuola vedevo da lontano il sole illuminare il Monviso, le parole di Galante mi risuona- vano nelle orecchie non certo per lamentarmi dell’ironia di un destino che le inverava, ma per incitarmi a pensieri più alti, in breve a non smettere di studiare. Resta sicuro che sono stati gli anni in cui ho celebrato la parte migliore di me stesso. Quanto al fatto di aver pubblicato un libro che poi ha avuto un certo successo mentre frequentavo il penultimo anno di univer- sità, sia chiaro, ho poco di che vantarmi. Chiunque abbia vissuto in quegli anni ricorderà che nel 1981 nessun professore di storia contemporanea in Italia avrebbe accettato una tesi su un campo di concentramento italiano istituito a Borgo San Dalmazzo, così come era introvabile un relatore per una tesi sulle leggi razziali o sul rapporto fra ebrei e cultura italiana o su Felice Momigliano. Basti qui ricordare, a dimostrazione di quanto sto di- cendo, che una primissima versione del saggio su Camillo Berneri fu rifiu-

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