PHILIP ROTH La lezione di anatomia Bompiani Titolo originale: THE ANATOMY LESSON © 1983 by Philip Roth. Pubblicato nel 1983 da Farrar, Straus and Giroux, New York. Le citazioni dal Textbook of Orthopaedic Medicine di James Cyriax (1978 by Ballière Tindall) sono pubblicate per gentile concessione di Ballière Tindall. Traduzione dall'inglese di Pier Francesco Paolini. © 1986 Gruppo Editoriale Fabbri, Bompiani, Sonzogno, Etas S.p.A. Via Mecenate 91 - 20138 Milano I edizione Bompiani gennaio 1986 a Richard Stern SCANSIONE DI SERENELLA Lo scrittore Nathan Zuckerman cade vittima di una misteriosa malattia: un inspiegabile dolore che incomincia dal collo e dalle spalle, pervade il corpo e condiziona tutta la sua vita. Per Zuckerman scrivere è vivere, ma il male gli rende impossibile buttar giù anche una sola riga. I vari medici interpellati - dall'ortopedico all'osteologo, dal neurologo allo psichiatra - non sono riusciti a trovare la causa del tormento né tantomeno un rimedio efficace. Così inizia La lezione di anatomia, il nuovo romanzo di Philip Roth in cui troviamo un Nathan Zuckerman quarantenne, turbato dal suo malanno fisico e dal dubbio atroce di aver finora sbagliato tutto, compresa la carriera di scrittore. Non sa più cosa fare, disorientato sia dal suo persistente cruccio sia dalla sua professione che lo tiene isolato dal mondo nonostante un vero e proprio "harem di crocerossine": Gloria, la moglie selvaggiamente materna del suo commercialista; Jaga, la triste emigrata polacca che lavora alla Clinica Tricologica Anton (in aggiunta ai suoi guai, infatti, Zuckerman sta anche diventando calvo); Diana, la giovane ereditiera del Finch College; e Jenny, una seducentemente equilibrata pittrice. Per evitare che i suoi dubbi si trasformino in incubo, Zuckerman cerca di identificarne le cause in qualcosa di reale e concreto: suo fratello Henry, per esempio, che lo accusa di aver provocato la morte prematura dei loro genitori con la pubblicazione del suo acrimonioso best seller Carnovsky, oppure il critico Milton Appel, un tempo suo ispiratore e mentore e ora suo fustigatore dalle colonne del mensile di cultura ebraica Inquiry. Alla fine Zuckerman evade dalla prigione da invalido del suo appartamento di Manhattan e s'imbarca in un viaggio verso una nuova esistenza: convinto che la professione del medico abbia tutto ciò che manca a quella del letterato, egli vola a iscriversi alla facoltà di medicina dell'Università di Chicago. Benché i guai che incontra qui siano anche peggiori di quelli da cui fugge, la sua sensazionale ricerca di una seconda vita costituisce una delle scene più divertenti dell'intera produzione letteraria di Roth. Con la seria allegria e lo strampalato andamento tipici delle sue opere, Roth fa di questo libro il sorprendente contraltare della Montagna incantata: La lezione di anatomia è una grande "commedia" della malattia e nello stesso tempo un capolavoro beffardo, un brillante "terzo atto" dopo Lo scrittore fantasma e Zuckerman scatenato. Philip Roth è nato a Newark (New Jersey) nel 1933. Conseguito il Master's Degree in letteratura inglese, ha insegnato all'Università di Chicago dal 1956 al 1958 e si è poi dedicato esclusivamente alla letteratura. Ha esordito con Goodbye, Columbus, Addio, Columbus, Bompiani 1960) che ha ottenuto il National Book Award, massimo premio letterario americano. Seguono Letting Go Lasciarsi andare, Bompiani 1965), When She Was Good, Portnoy's Complaint Lamento di Portnoy, Bompiani 1970), Our Gang Cosa Bianca Nostra, Bompiani 1972), The Breast La mammella, Bompiani 1973), My Life as a Man La mia vita di uomo, Bompiani 1976), The Professor of Desire Professore di desiderio, Bompiani 1978), The Ghost Wrighter Lo scrittore fantasma, Bompiani 1980), Zuckerman Unbound Zuckerman scatenato, Bompiani 1981) e The Anatomy Lesson La lezione di anatomia, Bompiani 1986). Ha inoltre scritto un libro di saggi critici: Reading Myself and Others. Presso Bompiani è anche uscito La ragazza di Tony, il romanzo breve che compariva con altri cinque racconti in Addio, Columbus. In sopraccoperta: Self-portrait in Studio, di Gregory Gillespie (Collection: Forum Gallery, New York). Sul retro: fotografia di Philip Roth 1985 by Nancy Crampton). A RICHARD STERN Il principale ostacolo a una diagnosi corretta, nelle forme dolorose, consiste nel fatto che, spesso, il sintomo viene avvertito a una certa distanza dalla fonte di esso. Manuale di Medicina Ortopedica del dottor JAMES CYRIAX CAPITOLO 1. IL COLLARE Quando è malato, ogni uomo ha bisogno di sua madre; se non c'è nei paraggi, un'altra donna dovrà supplire a lei. Zuckerman si avvaleva della supplenza di quattro altre donne. Non aveva mai avuto tante donne contemporaneamente, né tanti dottori, né aveva mai bevuto tanta vodka, né lavorato tanto poco, né conosciuto una disperazione altrettanto selvaggia e sconfinata. Eppure aveva, a quanto pare, una malattia che nessun altro avrebbe preso sul serio. A parte il dolore: al collo, alle braccia, alle spalle, un dolore che gli rendeva faticoso camminare per più di qualche centinaio di passi e penoso anche star fermo a lungo nello stesso posto. Il semplice fatto di avere un collo, braccia e spalle era come trasportare qua e là un'altra persona. Se andava a far la spesa, dopo dieci minuti gli toccava tornar a casa di corsa e stendersi. Né poteva portare più d'una sporta leggera per viaggio, e anche questo peso doveva tenerselo abbracciato al petto, come un ottuagenario. Regger la sporta penzola dal braccio non faceva che peggiorare i dolori. Doloroso era anche piegarsi per rifare il letto. Non meno doloroso era stare in piedi davanti ai fornelli, ad aspettare (senza niente di più pesante d'una forchetta in mano) che un uovo al tegamino si cuocesse. Non riusciva ad aprire una finestra, se ciò richiedeva un minimo d'energia. Quindi, erano le donne a spalancare le finestre per lui: gli aprivano le finestre, gli friggevano le uova, andavano a fare la spesa e, senza fatica, virilmente, gli portavano a casa i pesi. Una donna, da sola, avrebbe sbrigato tutte le faccende in un paio d'ore; ma Zuckerman non ce l'aveva più, una donna. Ecco com'era arrivato ad averne quattro. Per star seduto a leggere in poltrona portava un collare ortopedico: un manicotto bianco, costolato, rivestito di spugna, che gli cingeva il collo per tener allineate le vertebre cervicali e impedire bruschi movimenti alla testa, e sostenerla. Tale sostegno e tale impedimento avevano l'ufficio di lenire il dolore che, da dietro l'orecchia destra, scendeva diritto nel collo e poi si diramava, sotto la scapola, come i sette bracci di una menorah capovolta. A volte il collare giovava, a volte no, ma portarlo era, in sé, tanto esasperante quanto il dolore stesso. Non riusciva a concentrarsi su nient'altro tranne che su se stesso dentro quel collare. Il volume che aveva in mano adesso risaliva ai tempi di quand'era studente: un'antologia di poeti inglesi del Seicento. Sul risvolto della copertina, oltre alla firma e alla data in inchiostro blu, c'era una nota vergata a matita con la sua grafia del 1949, un aperçu da studentello che recitava: "I poeti metafisici passano con disinvoltura dal banale al sublime." Ora, per la prima volta dopo ventiquattro anni, egli tornava a posare lo sguardo sulle poesie di George Herbert. Aveva tirato giù quel libro dalla scansia proprio per leggere "Il Collare", nella speranza di trovare in quei versi qualcosa che lo aiutasse a sopportare il suo. Si ritiene comunemente che sia appunto questa una delle funzioni della grande letteratura: far da antidoto alla sofferenza mediante l'evocazione di un destino comune a noi tutti. Il dolore (come Zuckerman andava verificando su di sé) può renderti terribilmente primitivo se non è controbilanciato da dosi, costanti e regolari, di pensiero filosofico. Forse, da Herbert si poteva imparare qualcosa. ...Sarò ancor io alla cerca? Non avrò altra vendemmia che una spina per versar sangue, e non recuperare quel che perdetti coi cordiali frutti? Certo c'era del vino pria che i sospiri miei lo prosciugassero; e grano v'era pria che le lagrime mie lo annegassero. E persa l'annata per me? Non v'ha fronda d'alloro a coronarla? Né fiori, né gaie ghirlande? Tutto, tutto sciupato e distrutto?... Ma mentre sempre più deliro e aumenta il mio furore ad ogni motto, parmi udire una voce: Figliolo! Allora rispondo: Signore1. Come meglio poté, col braccio dolorante, Zuckerman scagliò quel libro contro la parete. Assolutamente, no. Egli si rifiutava di fare del suo collare, o della pena che questo era designato ad alleviare, una metafora per qualcosa di grandioso. I poeti metafisici potevano passare con disinvoltura dal banale al sublime ma, sulla scorta della propria esperienza negli ultimi diciotto mesi, Zuckerman aveva l'impressione di procedere, semmai, nell'opposta direzione. Scrivere l'ultima pagina di un libro era il punto più prossimo al sublime cui egli fosse mai giunto, e questo non accadeva ormai da quattro anni. Nemmeno ricordava da quanto tempo non scrivesse più una pagina leggibile. Anche quando portava il collare, lo spasmo al trapezio superiore e le contratture a carico della spina dorsale gli rendevano difficile battere a macchina non foss'altro che l'indirizzo su una busta. Quando un ortopedico del Mount Sinai Hospital aveva attribuito i suoi disturbi a un ventennio di sgobbo su una portatile a tastiera normale, egli era corso subito a comprarsi una macchina per scrivere elettrica, la IBM Selectric Il. Però, non appena si accinse al lavoro con essa, si accorse di dolorare tanto sulla nuova, inconsueta tastiera IBM quanto già sull'ultima delle sue piccole Olivetti. Gli bastò un'occhiata alla Olivetti, riposta nel suo astuccio ammaccato in fondo all'armadio a muro in camera da letto, per cader preda della depressione - e alla stessa nostalgia che avrà provato Bojangles Robinson nel contemplare le sue vecchie scarpette da ballo. Com'era semplice, ai tempi della buona salute, scansarla per far posto sulla scrivania alla merenda, o a un libro da leggere, o agli appunti da consultare, o alla posta da spulciare! Quanto le aveva strapazzate, quelle sue pazienti e silenti compagne! Con che gusto aveva picchiato sulle loro tastiere fin da quando aveva vent'anni! Una di loro era sempre presente quando gli toccava pagare gli alimenti a una ex moglie o rispondere ai fans; era presso di lei che si accasciava o si esaltava rileggendo le cose belle o orrende che aveva testé composto; testimone, lei, d'ogni pagina d'ogni stesura dei suoi quattro romanzi editi e dei tre ripudiati... Se le Olivetti potessero parlare, avresti il romanziere messo a nudo. Invece, dalla IBM prescritta dal primo ortopedico non otterresti nulla; solo il sussiegoso, puritano, efficiente ronzio che decanta lei stessa e le sue alte virtù: "Io sono una Selectric Il, scrivo e correggo da me. Non sbaglio mai. Chi sia costui, non ne ho idea. E, a occhio e croce, non lo sa neanche lui." Scrivere a mano era peggio che andar di notte. Anche ai vecchi bei tempi, a chi lo vedeva scrivere con la sinistra faceva l'effetto di uno che, coscienziosamente, impara a usare un arto artificiale. Eppoi, non era mica facile decifrare la sua scrittura. Non era mai tanto goffo e maldestro come quando scriveva a mano. Più bravo a ballare la rumba che a vergare parole su un foglio. La teneva troppo stretta, la penna. Digrignava i denti e faceva facce strane, agonizzanti. Sporgeva il gomito in fuori come se nuotasse a rana, e poi ruotava il polso in senso inverso, per tracciare le lettere partendo dall'alto anziché dal basso: una tecnica da contorsionista, grazie alla quale più d'un ragazzo mancino imparava a non sbaffare le parole via via che procedeva sul foglio da sinistra a destra, nell'era dei calamai. Un osteologo di grido si era spinto persino a dedurre che la fonte dei problemi di Zuckerman fosse proprio questa: lo zelante scolaretto mancino che si sforza di aggirare l'inconveniente dell'inchiostro fresco e che in tal modo comincia, microscopicamente, a torcere la spina dorsale dello scrittore, deviandola dall'asse verticale fino a renderla poi strabica dalla cervice all'osso sacro. La sua cassa toracica era sguincia. La clavicola sbilenca. La scapola sinistra spuntava fuori, in basso, come l'aluccia d'un pollo. Persino il suo omero calettava malamente nella spalla, e la giuntura era difettosa. Per quanto all'occhio profano egli potesse apparire più o meno simmetrico e decentemente proporzionato, in realtà, dentro, era tanto deforme quanto Riccardo III. Stando al suddetto osteologo, Zuckerman era venuto deformando se stesso, a ritmo costante, fin dall'età di sette anni. Partendo dai compiti in classe. Partendo dal primo dei suoi componimenti sulla vita nel New Jersey. "Nel 1666, il governatore Carteret fornì a Robert Treat un interprete, nonché una guida, per risalire il fiume Hackensack e recarsi a trattare con un emissario di Oraton, l'anziano capo degli indiani Hackensack. Robert Treat doveva far sapere a Oraton che i coloni bianchi volevano solo la pace." Partendo insomma, a dieci anni, da Robert Treat di Newark e da una prosa con pretese di eufonia, piena di paroloni, per arrivare a Gilbert Carnovsky, di Newark anche lui, e a una prosa pullulante di spigolosi bisillabi come "cazzo" e "fica". Era quello l'Hackensack che lo scrittore aveva risalito, pagaiando, solo per approdare al porto del dolore. Quando sedere eretto alla macchina per scrivere divenne troppo doloroso, Zuckerman provò ad adagiarsi in poltrona e a fare del suo meglio con la brutta calligrafia di cui disponeva. Aveva il collare a reggergli il collo, aveva lo schienale non imbottito della poltrona a sostenergli la spina dorsale e aveva una tavoletta di fibra, sagomata su misura, che poggiando sui braccioli gli faceva da scrittoio. La sua casa era tanto silenziosa da consentirgli la massima concentrazione. Alle grandi finestre dello studio aveva fatto mettere i doppi vetri, sicché vi si infrangevano le musiche moleste provenienti da televisori e fonografi del caseggiato dirimpetto, eppoi il soffitto era acusticamente isolato, sicché non lo molestavano i raspii dei due pechinesi dell'inquilino di sopra. Il pavimento dello studio era rivestito da una pesante moquette color bruno-rame, e le finestre ulteriormente protette da tende di velluto color panna. Era insomma una stanza molto intima, calda, tranquilla, foderata di libri. Egli aveva trascorso la metà della sua vita imbozzolato in stanze come quella. Sopra il mobiletto contenente la sua vodka e il bicchiere, c'erano le vecchie foto predilette in cornici di plexiglas: i defunti genitori, sposi novelli nel giardino dei nonni; ex mogli che crepano di salute a Nantucket; l'estraniato fratello che, in tocco e toga, consegue la laurea magna cum laude alla Cornell University nel 1957. Se durante il giorno egli parlava, eran solo distratte parole rivolte a quelle fotografie; per il resto, tanto di quel silenzio da soddisfare persino Proust. Egli aveva dunque silenzio, comodità, tempo e denaro, ma scrivere a mano scatenava tali fitte dolorose al braccio che, ben presto, gli veniva mal di stomaco. Si massaggiava il muscolo con la mano destra, e la sinistra seguitava a scrivere. Cercava di non pensarci. Faceva conto che non fosse il suo, ma il braccio di qualcun altro a dolere così. Oppure cercava di giocare d'astuzia, scrivendo a piccole tappe: fermarsi e ripartire. Le pause giovavano al dolore muscolare ma nuocevano alla scrittura: alla decima fermata non gli restava più niente da scrivere. E senza niente da scrivere, lui non aveva ragione di essere. Quando si toglieva il collare per andare a sdraiarsi, il rumore di tela lacerata prodotto dall'allacciatura che veniva slacciata avrebbe potuto esser emesso dalle sue budella. Ogni suo pensiero e sensazione, intrappolati dall'egoismo del dolore. In un negozio di arredamento per bambini sulla 57a Strada aveva comprato un soffice materassino, chiamato giocomat, rivestito di plastica rossa che, nel suo studio, stava steso in permanenza fra la scrivania e la poltrona. Quando non ce la faceva proprio più a star seduto, si sdraiava supino sul giocomat posando la nuca sul Thesaurus of English Words and Phrases di Peter Mark Roget. Era arrivato al punto di sbrigare buona parte delle sue attività diurne giacendo sul giocomat. Di lì infatti, senza il basto del torso né la soma da quindici libbre della testa, egli faceva le telefonate, riceveva le visite e seguiva il caso Watergate alla televisione. Anziché gli occhiali consueti, ne inforcava un paio con le lenti a prisma che gli consentivano di guardare di lato senza girare il collo. Erano state escogitate apposta per le persone immobilizzate a letto da un ottico di New York, cui l'aveva indirizzato il suo fisioterapista. Attraverso quelle lenti prismatiche egli seguiva sul teleschermo i raggiri di Nixon: quei gesti da pupo, quei sudori satanici, quelle sbilenche abbaglianti bugie. Gli faceva quasi pena: era l'unico altro americano che vedesse ogni giorno, e sembrava patire quanto lui. Steso sul pavimento, Zuckerman poteva altresì vedere la donna di turno seduta sul sofà. Quel che la donna vedeva era il rovescio opaco delle lenti mentre Zuckerman, rivolto al soffitto, meditava su Nixon. Dal giocomat aveva tentato di dettare la sua prosa narrativa a una stenografa, ma non era un sistema a lui congeniale, e talvolta passava un'ora intera senza neanche una parola. Non riusciva a scrivere senza vedere lo scritto; sebbene riuscisse a raffigurarsi quel che le frasi raffiguravano, non riusciva a raffigurarsi le frasi a meno di non vederle svolgersi e agganciarsi l'una all'altra. La stenografa aveva soltanto vent'anni e, specie durante i primi giorni, si lasciava facilmente contagiare dall'angoscia di lui. Quelle sedute erano una tortura per entrambi, e in genere finivano con la segretaria distesa anche lei sul giocomat. Fornicatio, fellatio e cunnilingus erano cose che lui riusciva a sopportare, più o meno, senza dolore, purché restasse supino e tenesse il Thesaurus sotto la testa per cuscino. Quel volume aveva lo spessore giusto, atto a impedire che la nuca gli cadesse al di sotto della linea delle spalle e scatenasse il dolore al collo. Sul frontespizio del prezioso lessico c'era la dedica "da papà - che in te ripone tutta la fiducia" e la data "24 giugno 1946". Un libro, dunque, destinato ad arricchire il suo tesoro di vocaboli, dopo la licenza delle medie. A giacere con lui sul giocomat ne venivano quattro, di donne. Esse erano tutta la vita vibrante che egli aveva: gli facevano da cuoche, confidenti, segretarie, governanti e dame di compagnia. A parte le dosi di sofferenza nixoniana, erano il suo unico intrattenimento. Steso lungo sulla schiena, gli pareva di essere la loro meretrice: pagava in natura, lui, chi gli portava il latte e il giornale. Loro gli raccontavano i guai loro, si spogliavano e porgevano a Zuckerman i loro orifizi perché lui li riempisse. Senza una particolare vocazione né una prognosi promettente, egli era in loro balia, potevano far di lui quello che gli pareva. Più era cospicua l'invalidità di lui, e più sfacciato si faceva il loro desiderio. Poi scappavano via. Si lavavano, bevevano un caffè, si inginocchiavano a dargli un bacetto e via, si dileguavano nella vita reale. Lasciando Zuckerman supino, in attesa del successivo squillo alla porta d'ingresso. Quando stava bene e lavorava, non aveva mai avuto tempo per relazioni di quel tipo, neanche quando era stato tentato. Troppe mogli in troppi pochi anni, per potersi permettere un consorzio di amanti. Il coniugio era stato per lui un baluardo contro i turbamenti e le distrazioni che le donne procurano. Si era sposato per amore dell'ordine, dell'intimità, della solidarietà cameratesca, della routine e regolarità della vita monogamica; si era sposato per non andarsi a sprecare in un'altra avventura, ad annoiare a un'altra festa, per non passare la serata da solo in salotto dopo aver trascorso la giornata da solo nel suo studio. Restar solo in casa ogni sera, e concentrarsi su quelle letture di cui aveva bisogno per predisporsi al solitario lavoro di scrittura dell'indomani, era troppo persino per un monomaniaco come Zuckerman, e quindi egli aveva allettato entro quella voluttuosa austerità una donna, una sola alla volta, una donna tranquilla, seria, premurosa, colta, autosufficiente, che non chiedesse di venir condotta ai divertimenti ma che fosse contenta, dopocena, di passare la serata a leggere in silenzio, dirimpetto a lui immerso in un altro libro. Dopo ogni divorzio, tornava a scoprire che l'uomo smogliato deve condurre le donne a divertirsi: fuori a cena, a passeggiare nel parco, al museo, al teatro dell'opera, al cinema... e non basta vederli, i film, bisogna anche discuterne dopo. Se diventavano amanti, c'era il problema di sganciarsi di prima mattina, quando lui aveva la mente fresca per mettersi al lavoro. Certe donne s'aspettavano che lui facesse colazione con loro, persino che conversasse con loro durante la colazione, come esseri umani qualsiasi. Certe volte volevano persino tornare a letto. E anche lui ne aveva voglia, di tornarci. Era certo più fattivo rimettersi a letto che rimettersi alla macchina per scrivere, col libro. Molto meno frustrante, anche. Potevi portare a termine il tuo compito, a letto, senza dieci false partenze e sedici brutte copie e senza tutto quel camminare intorno alla stanza. Quindi lui abbassava la guardia... e l'intera mattina andava persa. Nessuna tentazione del genere, con le mogli. Finché durava. Ma, adesso, il dolore aveva cambiato ogni cosa. Quella che passava con lui la notte veniva invitata a restare non solo a colazione, ma anche a pranzo, se era libera (e se lui non attendeva un'altra donna). S'infilava una borsa di ghiaccio e un cencio umido sotto l'accappatoio, per calmare l'infiammazione del trapezio, e, col collare ortopedico a sostegno della testa, si assestava sulla poltrona di velluto rosso e porgeva ascolto. Aveva sempre avuto il fatale pallino di sposarsi con donne di mente elevata, allorché pensava solo al suo lavoro; adesso l'immobilità forzata gli offriva un'eccellente opportunità per scandagliare delle donne meno prevedibilmente rette e virtuose delle sue tre ex mogli. Forse avrebbe imparato qualcosa, forse no, ma almeno l'avrebbero aiutato a distrarsi e, stando al reumatologo della New York University, la distrazione, ricercata dal paziente con reale persistenza, è in grado di ridurre anche il peggior dolore a livelli tollerabili. Lo psicanalista che adesso consultava aveva avanzato un'ipotesi opposta: si era chiesto ad alta voce se Zuckerman non avesse rinunciato a lottare contro la malattia allo scopo di conservare (senza troppi rimorsi di coscienza) quel suo "harem di crocerossine". Zuckerman si offese tanto a questa battuta che fu lì lì per pigliare cappello. Rinunciato alla lotta? Cos'altro poteva fare o escogitare? Quale altro rimedio non era disposto a tentare? Da quando i dolori gli eran cominciati di brutto, diciotto mesi innanzi, egli aveva soggiornato, aspettando il suo turno, nell'anticamera di tre ortopedici, due neurologi, un fisioterapista, un reumatologo, un radiologo, un osteologo, uno specialista in vitamine, un agopunturista e, adesso, uno psicanalista. L'agopunturista gli aveva conficcato nella cute dodici aghi in quindici puntate, in tutto centottanta aghi, nessuno dei quali aveva fatto alcunché. Zuckerman sedeva, scamiciato, in uno degli otto cubicoli dell'agopunturista, irto di aghi, a leggere il New York Times; sedeva obbediente per quindici minuti, poi pagava i suoi venticinque dollari e se ne tornava a casa in taxi, con una smorfia di dolore a ogni buca del selciato. Lo specialista in vitamine gli aveva prescritto cinque iniezioni di B12. L'osteologo gli aveva squassato la cassa toracica, stirato le braccia, torto il collo di qua e di là. Il fisioterapista gli aveva ordinato impacchi caldi, ultrasuoni e massaggi. Il primo ortopedico gli aveva fatto punture locali e consigliato di buttare l'Olivetti e comprarsi l'IBM; il secondo, dopo averlo informato che anche lui era autore di romanzi, sia pure non best seller, lo aveva esaminato in piedi, sdraiato e piegato e, dopo che Zuckerman si era rivestito, accompagnandolo all'uscita aveva detto all'infermiera che lui, per quella settimana almeno, non aveva più tempo da perdere con ipocondriaci. Il terzo ortopedico gli aveva consigliato un bagno caldo ogni mattina, per venti minuti, dopodiché Zuckerman doveva eseguire una serie di esercizi ginnici. I bagni erano gradevoli - dalla vasca ascoltava Mahler attraverso la porta aperta - ma le flessioni, per semplici che fossero, non facevano che esacerbare i dolori al punto che, dopo una settimana, lui era tornato di corsa dal primo ortopedico, il quale gli aveva fatto un'altra serie di punture locali che non erano servite a niente. Il radiologo gli aveva radiografato torace, schiena, collo, cranio, spalle e braccia. Il primo neurologo, dopo aver dato un'occhiata alle lastre, aveva detto che magari lui avesse avuto la spina dorsale in così buone condizioni; il secondo gli aveva consigliato il ricovero in ospedale, due settimane di trazione al collo onde alleviare la pressione su un disco cervicale. E questa, se non la peggiore esperienza di Zuckerman in vita sua, certo era stata la più umiliante. Non gli andava neanche di pensarci, e in genere non c'erano cose tanto brutte, fra quante gliene eran capitate, alle quali non gli andasse invece di ripensare. Lo sgomentava la sua codardia. Persino i sedativi, anziché aiutarlo, rendevano quell'impotenza vieppiù angosciosa e opprimente. Capì che avrebbe dato di matto fin dal momento in cui attaccarono i pesi ai finimenti che gli reggevano la testa. L'ottava mattina, benché non potesse sentirlo nessuno, si mise a gridare dal letto cui era inchiodato: "Scioglietemi! Lasciatemi andare!" In capo a quindici minuti si era bell'e rivestito ed era passato alla cassa a saldare il conto. Solo quando fu al sicuro per la strada, chiamando un taxi, pensò: "E se ti succedesse qualcosa di veramente terribile? Cosa faresti allora?" Jenny era venuta dalla campagna per aiutarlo durante la degenza ospedaliera che sarebbe dovuta durare due settimane. La mattina lei faceva il giro delle gallerie e dei musei, poi, dopopranzo, veniva da lui in ospedale e per due ore stava lì a leggergli La montagna incantata. Sembrava un libro adeguato alle circostanze ma Zuckerman, inerte, imbracato su quel lettuccio, provava una crescente irritazione nei confronti di Hans Castorp e delle dinamiche occasioni di crescita che a lui la tubercolosi offriva. Né la vita nella stanza 611 del New York Hospital poteva commisurarsi agli splendori e al lusso di un sanatorio svizzero agli inizi del Novecento, neppure se quella stanza costava 1500 dollari la settimana. "Mi fa tanto l'effetto," disse a Jenny, "di un incrocio fra i corsi di studio di Salisburgo e la vecchia gloriosa Queen Mary. Cinque abbondanti pasti al giorno e, fra l'uno e l'altro, tediose conferenze di intellettuali europei, con contorno di celie erudite. Tutta quella filosofia. E tutta quella neve. Mi rammenta l'Università di Chicago." Aveva conosciuto Jenny quand'era andato a trovare certi amici in un loro rifugio in montagna, fra i boschi, presso il villaggio di Bearsville, a monte dell'Hudson. Era la figlia d'un maestro elementare di provincia, aveva frequentato il liceo artistico a Cooper Union e poi trascorso tre anni da sola, zaino in spalla, in Europa; adesso, tornata al paesello, abitava sola soletta in una baracca col gatto, la sua pittura e una stufa a legna. Aveva ventotto anni, era robusta, solitaria, schietta, di pelle rosea, con una smagliante dentatura, capelli carota finissimi, stupefacenti muscoli alle braccia. Non le esili dita tentatrici di Diana, la sua segretaria: no, costei aveva un paio di manacce. "Un giorno, se ti va," disse a Zuckerman, "ti racconto la storia dei mestieri che ho fatto: 'Come ho sviluppato i miei bicipiti'." Prima di ritornare a New York, lui era passato da lei, nella baracca, con la scusa di ammirare i suoi paesaggi. Cieli, alberi, colline e strade - schietti come lei. Van Gogh senza il sole vibrante. Accanto al cavalletto c'erano appiccicate citazioni dalle lettere di Van Gogh a suo fratello mentre una copia francese del suo epistolario - la stessa che Jenny aveva portato con sé nello zaino in Europa - giaceva squinternata accanto al tettuccio su una pila di libri di pittura. Alle pareti rivestite di fibra erano appesi disegni a matita di mucche, cavalli, maiali, nidi, fiori, ortaggi, che proclamavano con affascinante schiettezza: "Siamo qui e siamo reali." Passeggiarono per un frutteto devastato dietro la baracca, assaggiandone i frutti bitorzoluti. Jenny gli chiese: "Perché porti continuamente la mano alla spalla?" Zuckerman non se n'era neanche accorto; il dolore, a quello stadio, interessava solo circa un quarto della sua esistenza, e lui lo avvertiva ancora come una macchia sulla giacca che bastava spazzolar via. Tuttavia, per quanto forte spazzolasse, la macchia non se n'andava. "Un nervo accavallato," le rispose. "A furia di far braccio di ferro coi critici?" fece lei. E lui: "Più che altro, a far braccio di ferro con me stesso. Ma che fai, tutta sola, quassù?" "Dipingo molto, faccio molto giardinaggio e mi masturbo molto. Dev'essere bello aver soldi e comprar cose. Qual è la cosa più stravagante che tu abbia mai fatto?" La più stravagante, la più sciocca, la più vile, la più eccitante: gliele raccontò tutte; e poi lei a lui. Domande e risposte, per ore, ma, per un pezzo, non più in là di là. "Il nostro bel rapporto asessuale", lo chiamava lei quando facevano lunghe chiacchierate per telefono la notte. "Sorte dura per me, forse, ma non voglio essere una delle tue ragazze. Me la cavo meglio col martello. Ora sto rifacendo il pavimento." "Come hai imparato a fare pavimenti?" "E' facile." Una notte, a mezzanotte, gli telefonò per dirgli che era andata nell'orto a raccogliere ortaggi al chiardiluna. "M'hanno avvertita, quelli di qui, che gelerà fra alcune ore. Verrò a Lemno, a guardarti leccar le ferite." "Lemno? Non mi ricordo di Lemno." "Dove i greci relegarono Filottete, per via del piede." A Lemno si trattenne tre giorni. Gli frizionava il collo con cloruro d'etile, anestetizzante; gli si metteva nuda a cavalcioni sulla schiena annodata e lo massaggiava fra le scapole; cucinava per lui coq au vin e cassoulet - piatti che sapevano tanto di lardo - assieme agli ortaggi che aveva raccolto prima della gelata; gli raccontava della Francia e delle sue avventure colà, con uomini e donne. Una sera, uscendo dal bagno, la sorprese presso la scrivania a ficcar il naso nella sua agenda. "Stranamente furtiva," le disse, "per essere una così aperta." Lei rise, semplicemente, e disse: "Non potresti scrivere, tu, se non facessi di peggio. Chi è 'D'? Chi è 'G'? A quante assommiamo, tutte assieme?" "Perché? Ti piacerebbe incontrare qualcuna delle altre?" "No, grazie. Non voglio ricascarci. E giusto quello da cui pensavo di tirarmi fuori, su in cima ai monti." Alla fine di quel primo soggiorno lui voleva regalarle qualcosa. Non il solito libro; per tutta la vita aveva regalato libri alle donne (con accompagnamento di pistolotti). A Jenny diede dieci biglietti da cento dollari. "Per cosa sono?" gli domandò lei. "Mi dicevi che non ti va di andar in giro come una burina. Eppoi, il discorso sulla stravaganza. Van Gogh aveva suo fratello, tu hai me. Prendili." Ritornò, tre ore dopo, con un mantello di kashmir scarlatto, stivaletti alla borgognona e un flacone di Bal à Versailles. "Sono stata da Bergdorf," disse, un po' timidamente, ma con orgoglio, "eccoti il resto," e gli consegnò un mezzo dollaro, un decino e tre soldi. Si tolse gli abiti da burina e indossò la cappa e gli stivaletti, soltanto. "Lo sai?" disse, guardandosi allo specchio. "Mi sento carina." "Sei carina." Stappò il flacone e si tamponò col tappo; si profumò anche la punta della lingua. Poi di nuovo si guardò allo specchio, a lungo. "Mi sento alta." Non lo era, né mai lo sarebbe stata. Quella sera gli telefonò dalla campagna per raccontargli come aveva reagito sua madre quand'era arrivata in cappa magna e profumo francese, e le aveva detto che era il regalo di un uomo. "Mi fa: 'Chissà cosa dirà la tua nonna, di quel paltò.'" Mah, un harem è un harem, pensò Zuckerman. "Fammi sapere la taglia di tua nonna, e gliene compro uno pure a lei." Durante la degenza in ospedale Jenny gli leggeva La montagna incantata al pomeriggio, poi, la sera, in casa sua, eseguiva degli schizzi su un album: disegnava la sua scrivania, la sua poltrona, le sue librerie, i suoi vestiti; quindi affiggeva questi disegni alle pareti della stanza d'ospedale, l'indomani, quando tornava a trovarlo. Ogni giorno, inoltre, gli disegnava un tipico ricamo americano vecchiostile con, al centro, come s'usava, una massima edificante a punto croce, e appiccicava anche questi fogli alla parete dirimpetto. "Per approfondire la tua prospettiva," gli diceva. L'unico antidoto, contro la sofferenza spirituale, è il dolore fisico. KARL MARX Non si ama meno un luogo per il fatto di avervi sofferto. JANE AUSTEN Se uno è tanto forte da resistere a certe scosse, da risolvere difficoltà materiali più o meno complicate, allora fra i quaranta e i cinquant'anni verrà a trovarsi di nuovo su un piano relativamente normale. V. VAN GOGH Il pomeriggio dell'ottavo giorno, quando Jenny arrivò con l'album da disegno sottobraccio alla stanza 611, Zuckeman se n'era andato; lo trovò a casa, disteso sul giocomat, mezzo sbronzo. "Troppa introspezione per poter avere una prospettiva," le disse. "Troppo omniavvolgente. Troppo isolante. Ho rotto." "Oh," disse lei, con levità. "Non credo che sia stato un grave crollo. Io, per me, non avrei resistito neanche un'ora." "La vita via via sempre più piccola, sempre più piccola. Svegliarsi pensando al collo. Addormentarsi pensando al collo. Unico pensiero: a quale dottore rivolgersi se il collo non migliora. Ero lì per guarire e invece peggioravo. Hans Castorp era molto più bravo di me, Jennifer, a questo riguardo. Niente, in quel letto, tranne me stesso, Nient'altro che un collo che pensa pensieri da collo. Nessun Settembrini, nessun Naphta, niente neve. Nessun meraviglioso viaggio intellettuale. Cercar la via d'uscita e, invece, addentrarsi sempre più. Sconfitto. E pieno di vergogna." Era inoltre arrabbiato da urlare. "No, il problema ero io." Gli versò un altro drink. "Fossi più brava a intrattenerti. Non fossi questo broccolo che sono. Mah, lasciamo perdere. Ci abbiamo provato... non ha funzionato." Lui sedeva al tavolo, in cucina, centellinando vodka mentre lei cucinava un lardoso stufato di abbacchio. Non la voleva tener lontana dagli occhi. Jenny, assennata Jenny, sciogliamo un inno alla noia domestica... Vieni a vivere con me, e sii il mio dolce broccolo. Era appunto lì lì per chiederle di trasferirsi da lui. "Mi dicevo fra me e me, su quel