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La filosofia politica di Schelling PDF

251 Pages·1969·5.83 MB·Italian
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i Claudio Cesa La filosofia politica di Schelling Editori Laterza Bari 1969 Proprietà letteraria riservata Casa editrice Gius. Laterza & Figli, Bari, via Dante 51 Alla cara memoria di Delio Cantimori Introduzione Nella abbondante letteratura su Schelling pochissimi sono gli studi dedicati al suo pensiero morale, e ancor meno quelli sulla sua filosofia politica. Se ci si limita ad una valutazione del tutto estrinseca, delle circa 10 000 pagine delle opere e delle lettere del filosofo solo una parte piuttosto modesta è dedicata espressamente a quella problematica. Se poi si fa, come è non solo inevitabile, ma anche legittimo, un paragone tra Schelling e i pensatori suoi contemporanei, di quello straordinario periodo della cultura tedesca che va dalla Aufklàrung alla rivoluzione del 1848, e si pensa alle grandi opere morali, politiche e giu­ ridiche di Kant, di Fichte e di Hegel, e poi di Schleiermacher e di F. Schlegel, di Górres e di A. Muller — per non parlare del filone democratico e socialista: Marx ed Engels! — non sembrerà ingiustificato che la storiografia abbia veduto in Schelling un filosofo e un intellettuale puro, e lo abbia studiato come il più illustre esponente della filosofia della natura, il continua­ tore e il critico dell’idealismo trascendentale di Fichte, il rin­ novatore dello spinozismo sotto la forma della filosofia dell’iden­ tità: uno dei più acuti studiosi ha parlato di « intermezzi » per quegli scritti che hanno affrontato una tematica morale, e giu- ridico-politica. Sono in molti ad aver scritto che soltanto dopo la svolta teistica (all’ingrosso: 1809) Schelling si dedicò ai pro­ blemi morali, stimolato da quella consapevolezza della crisi del pensiero europeo che è un tratto comune a quasi tutti i pensa­ tori dell’età della restaurazione. Come conseguenza di questa impostazione la personalità del filosofo è risultata impoverita, e spostata fuori dalle correnti più impegnate della cultura della fine del XVIII, e dei primi anni del XIX secolo; il che, tra l’altro, ha reso quasi incom­ prensibili alcuni dei suoi scritti, ed ha portato a lasciar cadere 7 I spunti e trattazioni che si trovano in altri. Non è soltanto dopo il 1809 che Schelling volle portare il suo contributo alla grande discussione sulla natura ed il destino dell’uomo, questo essere che vive sì nella natura, ma anche nella società e nella storia: anzi, è proprio nel periodo della sua precoce, ma faticosa e con­ torta formazione, e in quello nel quale egli brillò come il nuovo astro filosofico della Germania, l’erede e il superatore di Kant e di Fichte, che egli sentì, come suo ufficio, di studiare cosa te­ nesse insieme le società e ne promuovesse lo sviluppo, se fosse o no legittimata, dalla stessa natura, la diseguaglianza tra gli uomini, e come si potesse assicurare « un eguale sviluppo di tutte le forze ». Due autori della sua gioventù, Herder e Schiller, gli avevano dato spunti importanti sulla situazione dell’uomo in una società che stava diventando « borghese », e che aspirava al be­ nessere fisico e ad un ordine « meccanico », che non negava la religione, ma voleva renderla ragionevole ed utile, che era con­ vinta di esser tanto superiore alle epoche passate. Ed egli al­ l’inizio pensò, da buon razionalista quale era, che il modo mi­ gliore per uscire da quello stato così insoddisfacente fosse acce­ lerare i tempi, e utilizzare a fondo la funzione critica della ra­ gione: all’adesione al metodo « storico-critico », e, subito dopo, alla « rivoluzione filosofica » di Kant e di Fichte, corrisponde l’entusiasmo per la rivoluzione francese, di cui egli coglie non tanto le precise dimensioni politiche quanto il significato storico­ universale: essa è una lotta contro il dispotismo « che opprime gli spiriti », è volta, come la nuova cultura tedesca, a liberare l’uomo dal « cieco tremore » di fronte all’autorità, sia terrena che ultraterrena, ad aprire la strada ad una riconciliazione con la natura. Le grandi rivoluzioni, politiche e religiose, che hanno segnato la storia d’Europa hanno spesso suscitato l’idea che esse prelu­ dessero ad una trasformazione totale dell’uomo, alla instaurazione di una nuova dimensione culturale e morale del genere umano. E non è un caso che proprio nello scritto di Schelling nel quale si trovano i più radicali propositi politici si parli dell’esigenza di elaborare una « fisica in grande », che sappia soddisfare « uno spirito creatore come il nostro »; la vecchia fisica, tutta volta a stabilire le leggi eterne del cosmo, presentava un ordine defini­ tivo, nel quale l’uomo non poteva che inserirsi: ma come poteva considerarsi libero un uomo che fosse angustiato dall’incubo della necessità naturale? Sono queste preoccupazioni — e non una pre- 8 tesa tradizione di filosofia « sveva » — che spinsero Schelling ad occuparsi di filosofia della natura. Egli mise la « vita » e « l’organismo » al posto della tradi­ zionale concezione meccanica: ma quanto più approfondiva quei temi, tanto più ne derivavano risultati che erano in contrasto con l’aspirazione da cui era partito, di promuovere, per quella via, la libertà di tutti gli uomini; o, almeno, la rettificavano sensibilmente. Il movimento della vita si articola in generi e individui, ciascuno dei quali ha un proprio « egoismo » che lo stimola a farsi valere contro tutti gli altri. È una continua alter­ nanza di azione e reazione, nella quale ogni essere conquista quel tanto di spazio vitale che è compatibile con la sua natura. E quando si arriva alla più alta categoria degli esseri, la specie umana, anche qui, in ciascuno degli individui che la compongono, si nota lo stesso fenomeno: c’è chi (il « genio ») è dotato di un « istinto superiore », e c’è chi non ha questo istinto, ed è del tutto impossibile pretendere di comunicarglielo. Sarà un caso, ma c’è una significativa coincidenza tra l’avanzamento degli studi di filosofia della natura, e il raffreddarsi delle simpatie di Schel­ ling per gli ideali della rivoluzione francese. È comune a gran parte del pensiero controrivoluzionario eu­ ropeo di richiamarsi al ritmo della natura, e alla naturale diversità degli uomini, in opposizione alla pretesa di regolare con l’intel­ letto l’organizzazione della società. Dovettero passare molti anni, però, perché Schelling si trasferisse senza riserve su queste po­ sizioni. E si capisce benissimo il perché: le convulsioni che, in Francia, avevano accompagnato l’ultimo periodo del Direttorio, e poi il colpo di Stato del 18 brumaio, avevano chiuso la rivo­ luzione: per chi, come Schelling, la guardava, come si è detto, da una prospettiva « culturale », quelle vicende erano la prova del fallimento di un tentativo di liberare gli uomini che era partito da premesse teoriche sbagliate, e si era sviluppato in con­ seguenza. Si era abbattuto il dispotismo monarchico per met­ terne al suo posto un altro, quello della legge, o di una virtù che doveva essere inculcata a tutti; e poi era tornato un dispo­ tismo personale. Tutto ciò indicava che un’altra era la strada da battere — non la reazione, ma l’andare al di là di quei princìpi teorici ed etici che avevano retto la rivoluzione francese, l’affidarsi all’operare delle forze dell’individuo, un operare che at- tinga da se stesso, dalla sua « analogia » con le immani forze che plasmano la natura, il suo stimolo e la sua giustificazione. 9 ì Ma presto questo attivismo naturalistico ebbe una correzione. Era una vecchia idea schellinghiana quella che tra la natura e l'uomo fosse necessaria la mediazione della cultura, anzi, della « mitologia ». E il terreno naturale dal quale può nascere la nuova mitologia è il popolo organizzato in Stato. È in questo quadro, ormai, che l’individuo deve disporsi ad operare, senza aspettare compenso che non sia l’azione stessa, sentendosi al­ l’unisono con un tutto cui egli dà il suo contributo ma che, d’altra parte, ne arricchisce infinitamente le forze. L’edificazione di uno Stato che renda possibile tutto questo è la « vera rivo­ luzione ». In maniera non molto dissimile da Fichte dopo il 1800, Schelling sostiene che per introdurre l’epoca nuova del genere umano non bisogna incominciare con la trasformazione delle strut­ ture esterne del vivere sociale, ma, al contrario, con un rinno­ vamento interiore dell’uomo. Il resto sarebbe venuto come con­ seguenza. Su questo tema, del rinnovamento interiore, il filosofo con­ tinuò ad insistere anche dopo la svolta del 1809: ma ormai l’at­ tivismo aveva ceduto il campo al quietismo, perché l’assoluto al quale l’uomo aspirava non era più un « ideale » presente nella storia, remoto eppure visibile, come potevano essere l’umanità o lo Stato, ma lo stesso Iddio. È per questa ragione che ritengo di poter affermare che lo Schelling che ha una dimensione « politica » non è il più tardo filosofo della mitologia e della storia, ma colui che, accanto a Fichte, e con maggior energia di lui, levò l’agire al di sopra dello speculare. E non mancano, a sostenere questa interpretazione, significative testimonianze di contemporanei. Basterà citarne due, di un amico e discepolo, e di un avversario. Il primo è E. Steffens, che udì le lezioni di Schelling a Jena, e, più di quarant’anni dopo, assistette all’esordio berlinese del- l’ormai anziano filosofo. Steffens, che si era impegnato attiva­ mente nella lotta contro Napoleone, si incontrò, proprio nel 1813, col più autorevole dei « riformatori » prussiani, il barone von Stein, e dovette sorbirsi, da parte di questi, una tirata contro l’inattività degli intellettuali tedeschi, che si comportavano come spettatori nel dramma della loro patria; Steffens rifiutò questo giudizio, e fece notare che ad animare tanti patrioti era proprio la cultura nuova; e aggiunse: « Se Schelling domina questa pro­ fonda tendenza nazionale è perché, come tutti i dominatori, egli è uscito da lei ». 10 Una ventina di anni dopo E. Heine, passando in rassegna quale contributo le teorie filosofiche avrebbero potuto portare ad una rivoluzione tedesca, scriveva: « Ma più terribili di tutti sarebbero i filosofi della natura, che si identificherebbero anche con l’opera di distruzione Il filosofo della natura sa en­ trare in contatto con le potenze primordiali, sa evocare le forze demoniache del panteismo dei germani antichi [...]. Il cristia­ nesimo — questo è il suo più notevole merito — ha in certo modo addolcito la brutale smania di combattere dei germani, ma non riuscì a distruggerla, e se mai un giorno andrà in pezzi quel talismano addomesticatore che è la croce, allora si udrà di nuovo il frastuono della barbaiie degli antichi guerrieri [...] ». Questo passo, come tante altre pagine di Heine, ha un tono di ironica esagerazione che non va ignorato. Ma contiene pur sempre ca­ ratteristiche e sostanzialmente esatte indicazioni. Soltanto la croce (cioè la religiosità teistico-cristiana di Schelling, e della maggior parte dei suoi discepoli) aveva potuto addomesticare un attivismo che era fine a se stesso. Esso non era specificamente « nazionale », ma col suo appello a modelli tedeschi — la fede piuttosto che le opere, Keplero piuttosto che Newton, la « reli­ gione » e la « mistica » piuttosto che il raisonnìren — aveva gettato le basi per una contrapposizione radicale tra la cultura « idealistica » e quella del razionalismo, e (molto al di là delle stesse intenzioni di Schelling) tra la Germania e le altre nazioni europee. Heine vide giusto anche su un altro punto: nell’addi- tare, cioè, il carattere « distruttivo » di questo atteggiamento; il che può sembrare strano se si pensa che, a partire almeno dal 1802, Schelling criticò i suoi predecessori per aver soltanto « ne­ gato », e si propose il compito di additare lo sbocco « positivo » del travaglio dello spirito moderno. Ma si tenga presente che l’appello all’impegno individuale, un impegno col quale il sin­ golo attinge direttamente l’assoluto, fa sparire tutte le strutture ed i programmi intermedi. Il filosofo, personalmente, amava l’ordine, ed era per soluzioni moderate, quando non conserva­ trici. Ma non lasciò dubbi sul suo disprezzo per i programmi politici dell’epoca, e per gli uomini che li volevano realizzare, fossero essi progressisti o reazionari. Egli vagheggiava qualche cosa di radicalmente nuovo, e che fosse, insieme, un « ritorno » a quei valori originari che si erano via via corrotti col trascorrere delle epoche. La genericità stessa del proposito faceva sì che esso fosse incompatibile con ogni forma « empirica »: di qui quella 11

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