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La Divina Commedia. Inferno PDF

1297 Pages·2016·6.89 MB·Italian
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Il libro L a Commedia curata da Anna Maria Chiavacci Leonardi per i Meridiani Mondadori si caratterizza per l’estrema leggibilità del commento; la curatrice colloca il dettato dantesco nel contesto culturale e storico in cui nacque, rifacendosi soprattutto agli esegeti antichi, contemporanei o di poco successivi all’autore. Ogni canto è provvisto di un’introduzione specifica, una sorta di affascinante invito alla lettura, mentre i nodi cruciali dell’esegesi vengono discussi in un’apposita sezione alla fine del canto. Dal punto di vista tecnico, nell’ebook i versi sono collegati alle note, poste in fondo al volume. È così possibile leggere il testo tutto di fila, senza che la successione narrativa delle terzine sia costantemente interrotta dalla presenza delle note, come accade nella versione cartacea. Iniziato con ogni probabilità nel 1306–07, l’Inferno è la prima delle tre cantiche che compongono la Commedia dantesca. In questi trentaquattro canti il poeta racconta l’inizio del suo viaggio ultraterreno, a partire dallo smarrimento nella «selva oscura», dove incontra il poeta latino Virgilio che sarà sua guida, giù giù per i diversi gironi, fino all’orrenda visione di Lucifero e quindi alla faticosa risalita «a riveder le stelle». Un itinerario nell’animo umano lungo il quale Dante incontra decine di indimenticabili personaggi (Paolo e Francesca, Farinata, il conte Ugolino, Ulisse…), alle cui tristi vicende egli sa guardare con fermo giudizio ma anche con una suprema pietas che è forse il maggior segno del suo profondo immedesimarsi nell’umano. Ed è proprio da questo atteggiamento di estrema modernità che deriva l’universalità dell’Inferno dantesco. Dante Alighieri La Divina Commedia INFERNO Commento di Anna Maria Chiavacci Leonardi a Maria, Lino, Elisabetta, Francesca, Emanuela «Che la vera poesia abbia sempre il carattere di un dono e che pertanto essa presupponga la dignità di chi lo riceve, questo è forse il maggior insegnamento che Dante ci abbia lasciato. Egli non è il solo che ci abbia dato questa lezione, ma fra tutti è certo il maggiore. E se è vero ch’egli volle essere poeta e nient’altro che poeta, resta quasi inspiegabile alla nostra moderna cecità il fatto che quanto più il suo mondo si allontana da noi, di tanto si accresce la nostra volontà di conoscerlo e di farlo conoscere a chi è più cieco di noi.» Eugenio Montale Introduzione Commedia è il titolo dato da Dante stesso al suo poema, in Inf. XXI 2 e Ep. XIII 28, titolo che si trova in tutta la tradizione manoscritta e nelle prime edizioni a stampa. Nel XVI secolo la tradizione a stampa aggiunse al titolo originario l’attributo, non più abbandonato fino al nostro tempo, «divina». Se Commedia è dunque il titolo dato dall’autore, e come tale il solo filologicamente corretto, Divina Commedia è il titolo dato dal lettore, e storicamente costituito, e quindi legittimamente ancora usato per designare il poema dantesco. Affrontare la Divina Commedia, misurarsi con Dante, è, come per tutte le grandi opere dell’umanità, approfondire la conoscenza di noi e della nostra storia, scoprire una dimensione dell’uomo. La visione del mondo – e in essa dell’uomo – che ci si offre dalle pagine di questo capolavoro, che si colloca al centro della storia europea, tra l’evo antico e l’evo moderno, è tra le più vaste e profonde della letteratura di ogni tempo, nella sua consapevole pretesa di abbracciare con l’umano tutta la realtà: «discriver fondo a tutto l’universo». Proponendo oggi una lettura della Divina Commedia, non si può non domandarsi quale sia questa concezione dell’uomo che essa ci propone, quale il suo senso storico, e quale sia d’altra parte il segreto, l’intima forza caratterizzante, della grande lingua poetica con cui essa ancora l’impone. Perché il nodo della questione – l’antica questione se Dante sia o no a noi ancora contemporaneo, e come tale leggibile, che sempre in vari modi si ripropone – sta proprio in questi due termini: Dante sarà leggibile finché il suo modo di intendere la realtà dell’uomo sarà ancora operante nella cultura dell’Occidente, e d’altra parte finché il suo linguaggio poetico avrà la forza, diremmo la giovinezza, per comunicarlo. Perché il mondo che egli vide, e raccontò nei suoi versi – l’uomo, la natura, la storia, la realtà divina, e il destino finale della persona –, ha una sua precisa e determinata connotazione storica: è la visione del mondo e dell’uomo che il Cristianesimo portò in Europa, nell’Europa greco-romana, trasformandone la cultura e la storia, pur mantenendo, anzi assumendo in proprio, i lineamenti razionali che il pensiero greco aveva dato una volta per tutte all’universo. Ora le radici della nostra cultura – della filosofia, dell’etica, della politica – sono ancora quelle (quelle che allora di fatto crearono l’Europa), anche se quell’idea del mondo non è più imposta da una Chiesa egemone o da un’autorità politica che se ne faccia custode. Se oggi non c’è più la cristianità – cioè il riconoscimento pubblico, a livello di istituzioni, dei valori cristiani come guida al comportamento dell’uomo, come era al tempo di Dante, quando Papato e Impero regolavano il mondo –, i valori su cui si regge l’umana convivenza sono tuttavia, anche se sotto altri nomi, pur sempre quelli che il poema ci trasmette. Le formulazioni dogmatiche, e le istituzioni che le sostengono, passano, e sono di fatto passate, ma la poesia di Dante, a differenza dei trattati, coglie e tramanda non la lettera, ma lo spirito profondo di quella cultura nella quale ancora l’Occidente attinge – anche senza saperlo – le ragioni interiori del suo stesso esistere. Il valore primario e intangibile della persona – da cui discendono tutti gli altri: la fedeltà, la pietà, il perdono, il diritto alla libertà, i «diritti umani», come si suole dire –, valore su cui si fonda oggi ogni aspetto del vivere civile, è in realtà quello che sta al centro del Cristianesimo, e che è ugualmente il nucleo ispiratore di tutta l’opera di Dante. Dante non è il teologo, né il moralista, né il politico che via via ci è stato mostrato; è anche tutto questo, ma non in via primaria. Egli ci appare soprattutto l’appassionato ricercatore – come più volte dichiara nelle sue opere – di quella che egli chiama l’umana felicità, cioè la piena realizzazione dell’uomo; felicità che la sua ansia insaziabile – l’alto disio, come egli dice – ricercò prima nel sapere (il Convivio), poi nel perfetto ordine politico (la Monarchia), e infine trovò soltanto in Dio: «E io ch’al fine di tutt’ i disii appropinquava, sì com’ io dovea, l’ardor del desiderio in me finii». E la strada percorsa da lui stesso per raggiungere quel fine è quella riproposta a tutti nel poema, in quel grande racconto poetico che è l’unica forma in cui ogni realtà della sua vita si espresse e di fatto si compì. Dante racconta all’uomo insicuro il suo destino eterno, ma non lo fa con un linguaggio religioso. Egli è un laico, non un chierico – e cioè un uomo immerso nella storia, che della storia si fa carico, e della storia conosce tutti i dolori, e dell’uomo conosce – e ne è partecipe – la miseria e la grandezza. La suprema pietà con cui egli guarda alla colpa e alla depravazione dell’uomo, che accompagna tutto il suo Inferno, è forse il maggior segno di questo suo immedesimarsi nell’umano, che è la qualità per cui soprattutto la sua opera è amata. Ogni gesto dell’uomo, ogni moto del suo animo, sembra appartenere a Dante, non essergli estraneo. Ed è tale universalità, già riconosciutagli come specifica da T.S. Eliot, che fa del suo libro un libro che può essere di tutti. Il racconto della Divina Commedia traversa di fatto l’intero universo, dal suo fondo – il centro della terra – al suo limite supremo, l’ultimo cielo dell’astronomia tolemaica, che confina con l’Empireo. Questo universo è perfettamente ordinato, armonioso e circolarmente concluso, come lo figurò il mondo greco: i suoi nove cieli concentrici sono senza tempo e senza corruzione; ma al suo interno cammina un uomo mortale, che appartiene al mondo del caduco – la terra – e quindi alla storia, e che da quel mondo uscirà, seguendo una linea verticale, e raggiungendo con il suo corpo – al di là del cristallino ultimo cielo tolemaico – il luogo dell’eterna e divina realtà. Quest’uomo storico è dotato di libertà; a lui è dato di scegliere, nel tempo, la propria condizione eterna. È questa la figura propria dell’uomo nella Divina Commedia, che ancora ci sorprende e ci attrae con una irresistibile forza di coinvolgimento. Perché il gesto terreno e quotidiano – a noi ben noto – appare qui in tutta la sua portata ultratemporale, proiettato nella dimensione eterna, che è figurata dall’«aldilà». Francesca ancora ama e si stringe a Paolo, Farinata si erge in tutta la sua statura come fece al concilio di Empoli, Ulisse ancora sogna il suo viaggio, Manfredi racconta la sua resa a Dio e il suo pianto dell’ultima ora, Buonconte chiude le braccia in croce, ferito a morte, sulla foce dell’Archiano, e Francesco prende da Cristo l’ultimo sigillo sul sasso della Verna. Il duplice aspetto del poema – l’eterno e lo storico – costituisce la sua connotazione primaria, e Dante ne era consapevole, quando lo definì «’l poema sacro / al quale ha posto mano e cielo e terra». E l’uno aspetto non è separabile dall’altro, a rischio di perdere tutto il senso e la bellezza stessa di questo grande racconto. La Commedia non è un trattato di teologia, come non è una serie di singoli commoventi fatti storici. Non si può studiarla, e comprenderla, come tale. È un grande testo poetico, la cui novità, e unicità, è nell’invenzione del tutto singolare che prescelse la storia come portatrice di valori eterni. Ed ecco un poema epico che non ha per soggetto il mito o la leggenda, né per protagonisti degli eroi, ma narra gli eventi di tutti i giorni, con personaggi in genere ignoti o oscuri, personaggi, per di più, in buona parte conoscenti o amici o perfino parenti dell’autore. Ma ognuno di loro, anche nella sua oscurità – si pensi a Ciacco, o a Forese –, ha una rilevanza unica; ognuno chiude in sé una dignità assoluta, quella dignità che è propria dell’individuo, della persona, in tutto il mondo dantesco, in quanto la persona umana è fatta a immagine di Dio. Se si pensa agli antichi poemi dell’età classica, ci si rende conto della profonda novità di quello dantesco. In Omero la storia non esiste, ma solo la natura, cioè il presente, dove l’uomo è solo e impotente di fronte al fato e alla morte. Ettore alle porte Scee è ben consapevole della sua sorte mortale, e della sua impotenza di fronte a essa. Così Achille nella sua tenda – alla chiusa dell’Iliade – piange con Priamo la morte di Ettore da lui ucciso, pensando alla propria simile sorte, che neppure la dea madre potrà evitare. In Virgilio, che pure già annuncia un fine di felicità collettiva nella storia – l’Impero di Augusto come una nuova età dell’oro – e che in questo presagisce il nuovo ordine cristiano, l’evento narrato è tuttavia mitico e leggendario e il destino del singolo è ugualmente, incomprensibilmente tragico: i giovani virgiliani sono tutti destinati a morte prematura – simbolica del comune destino dell’uomo – e non c’è per loro nessuna possibile speranza. Nel poema di Dante irrompono le date storiche e le indicazioni geografiche: di ogni personaggio che appare sulla scena si dice la città di origine, gli anni in cui visse, la famiglia, spesso la parte politica. Nessuna leggendaria epicità li connota, se non in rari casi emblematici, ma nello stesso tempo ognuno di loro ha un sicuro destino nell’eternità, destino che egli stesso ha il supremo potere di scegliersi. La libertà dell’uomo, che Dante sempre afferma e onora – tutti ricordano la frase con cui egli definisce se stesso, all’ingresso del Purgatorio: «libertà va cercando, ch’è sì cara, / come sa chi per lei vita rifiuta»; meno nota la grande dichiarazione del Paradiso, per cui il maggior dono fatto da Dio creatore «fu de la volontà la libertate» –, è centrale nella Commedia, come ben s’intende: come potrebbe infatti parlarsi di pena o di premio, se l’uomo non fosse libero di scegliere i propri atti? E lungo tutto il poema questa idea della scelta, libera e sovrana, supremo rischio e supremo onore, segna le storie dei singoli individui, che hanno ora per sempre ciò che con essa vollero. Valore dell’individuo, storicità, libertà: questi elementi fondanti della Commedia, impensabili nel mondo antico, sono ben riconoscibili come quelli che il Cristianesimo portò, con forza di sconvolgimento, nell’universo culturale greco-romano. Il poema di Dante, così nuovo allora e così fortemente insolito ancora, è in realtà la più alta voce poetica – forse la sola – che esprima in tutta la sua profondità l’idea cristiana dell’uomo. Nel Cristianesimo infatti l’individuo storico – nella sua peculiarità specifica, tale quale egli è – viene assunto nell’eternità divina (è

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