GUIDA ALLA LETTURA DELLA BIBBIA E LA PAROLA SI FA VITA di CARLO MARIA MARTINI La sensibilità postconciliare ci porta tutti, pastori e fedeli, a riaccostare la Sacra Scrittura. Non solo per l'abbondanza dell'uso liturgico offerto dalla Chiesa ma anche per quella lettura corale e personale della Parola che va oltre la semplice riflessione, divenendo nutrimento del cuore. La tradizione cristiana, per esprimere questo atteggiamento spirituale di fronte al testo sacro, ha coniato un'espressione forte, pre- gnante: lectio divina. Il nostro introdurci nel mondo della Scrittura ha senso se si arriva a questa dimensione, altrimenti rimane arida conoscenza, erudizione, studio infruttùoso per il nostro «sentire» cristiano. Naturalmente la conoscenza, sia pur elementare, è necessaria. A questo fine, ogni mezzo, ogni sussidio, come questa sintesi di guida biblica, storica, letteraria, geografica, teologica, è oltremodo utile per passare dalla conoscenza al vissuto. La Sacra Scrittura deve, infatti, diventare fonte di vita per l'uomo d'oggi come lo è stata per le generazioni passate, in particolare per i primi cristiani. «La scrittura è la lettera che il Padre Eterno ci ha inviato», scriveva don Giacomo Alberione negli anni venti. «Non andiamo al tribunale di Dio senza aver letto tutta la lettera del Padre Celeste, perché ci dirà: non hai avuto né rispetto né amore per quello che ti ho scritto!». Queste forti parole di un profeta del nostro tempo ci sono di sprone per intendere prima «materialmente» e poi «spiritualmente» la parola di Dio. Come pastore vorrei invitare al passo successivo alla lettura e alla prima conoscenza, cioè «gustare» il suono della voce del Padre - come dice l'Alberione - e tradurlo in ricco nutrimento per la mente e per il cuore, affinché diventi vita, terreno fertile che produce «ora il novanta, ora il sessanta, ora il trenta». Ecco perché, più che riflessioni di carattere generale sul libro sacro, preferisco spiegare al lettore che cosa si intende con questa concisa espressione: lectio divina. Per questo occorre rileggere la costituzione del concilio Vaticano Il Dei Verbum al capitolo VI, n. 25. In questo passo troviamo cinque diverse menzioni di questa attività dello Spirito. «È necessario che tutti i chierici - affermano i padri conciliari - principalmente i sacerdoti e quanti, come i diaconi o i catechisti, attendono legittimamente al ministero della Parola, conservino un contatto continuo con le Scritture (in Scripturis haerere)». L'espressione latina in Scripturis haerere significa «starci dentro, abitare nelle Scritture». Per ottenere tale scopo, viene raccomandata l'assidua lectio sacra, una lettura costante, perseverante. E insieme un exquisitum studium, cioè uno studio particolarmente coltivato, penetrante. La seconda menzione riguarda tutti i fedeli: «Parimenti il santo concilio esorta tutti i fedeli ad apprendere "la sublime scienza di Gesù Cristo" con la frequente lettura delle divine Scritture». L'espressione «assidua lectio sacra» viene ora ripresa come «frequente lettura delle divine Scritture», ed è raccomandata perché, mediante essa, si giunge ad apprendere «la sublime scienza di Gesù Cristo». La terza menzione: «Si accostino volentieri al sacro testo, sia per mezzo della sacra liturgia ricca di parole divine, sia mediante la pia lettura, sia per mezzo delle iniziative adatte a tale scopo e di altri sussidi». La quarta menzione, importantissima, è quella che spiega perché parliamo di lectio divina: «Si ricordino però che la lettura della Sacra Scrittura dev'essere accompagnata dalla preghiera, affinché possa svolgersi il colloquio tra Dio e l'uomo; poiché "quando preghiamo, parliamo con Lui; Lui ascoltiamo quando 2 leggiamo gli oracoli divini"». La quinta menzione riguarda i sussidi: «I vescovi devono aiutare i fedeli all'uso retto dei libri divini, in modo particolare del Nuovo Testamento e soprattutto dei vangeli, con traduzioni dei sacri testi che devono essere corredate di note necessarie e veramente sufficienti, affinché i figli della Chiesa familiarizzino con sicurezza e utilità con le sacre Scritture e si imbevano del loro spirito». Mettendo insieme le cinque menzioni, possiamo tentare una descrizione complessiva di ciò che il Vaticano Il intende: una lettura assidua, non occasionale, della Bibbia; un accesso diretto al testo; uno stare dentro la Scrittura; un conversare familiare con le pagine bibliche; un imbeversi dello spirito della Scrittura; il tutto accompagnato dalla preghiera in modo che la lectio si trasformi in un colloquio tra Dio e l'uomo, diventi un ascoltare Dio per rispondergli. L'espressione sintetica lectio divina, che è giunta a noi dall'antica tradizione monastica, comprende tutte le caratteristiche indicate dalla Dei Verbum: non è semplicemente una lettura, ma una lectio, una lezione, fatta con familiarità orante, che ci fa entrare nello spirito dei sacri testi e ci permette di entrare in essi come in casa nostra. Questa lezione orante, questa familiarità assidua è necessaria non solo a chiunque svolge un servizio della Parola, ma è raccomandata con forza e insistenza a tutti i fedeli. Le parole della Dei Verbum sono forti e anche nuove rispetto a quanto si viveva in epoche precedenti. Infatti, nella Chiesa cattolica la Scrittura veniva letta in latino e poi spiegata ai fedeli che si limitavano quindi ad ascoltare. Tra l'altro erano poche le persone che sapevano leggere e che potevano perciò accostare direttamente i testi sacri. I vescovi oggi, tenendo conto della nuova situazione culturale dell'umanità, hanno sentito il bisogno di esortare tutti i fedeli, senza eccezione, ad accostare la Bibbia, stimolandoli all'esercizio della lectio divina. Ricordo che non appena giunsi a Milano come vescovo, compresi che per familiarizzare i cristiani col mistero di Dio rivelato storicamente in Gesù Cristo attraverso il cammino della storia della salvezza, non bastavano semplicemente prov- vedimenti settoriali, bensì occorreva elaborare programmi pastorali diocesani che si ispirassero a questa dinamica fondamentale. Programmi che partissero dallo «stupore» contemplativo, cioè dal sottolineare quegli atteggiamenti contemplativi che sono previ alla lettura del testo sacro: riverenza, ascolto, silenzio, adorazione di fronte al mistero divino. Dallo «stupore» contemplativo bisognava sviluppare un progetto di comunità fondato sulla Parola quale riferimento primario, promuovendo iniziative concrete capaci di mettere la lectio divina, a poco a poco, alla portata di tutti. È un ideale da cui siamo ancora molto lontani e sul quale vorrei tanto confrontarmi con i miei fratelli vescovi e con tante Chiese del mondo. Auspico il giorno in cui si possa celebrare un sinodo universale semplicemente su questa domanda: come abbiamo applicato la costituzione conciliare Dei Verbum, là dove parla della Scrittura da mettere nel cuore e nella mente di tutti i cristiani attraverso la lectio divina? Una simile lettura della Scrittura, raccomandata a tutti i cristiani, non può essere né occasionale né frammentaria e nemmeno discontinua. È tendenzialmente una lectio continua e globale, che tiene cioè conto di tutti i libri sacri e del contesto generale della Bibbia. Il concilio afferma che l'accostamento alla Bibbia può avvenire sia per mezzo della liturgia, ricca di parole divine, sia mediante la pia lettura. La sacra liturgia ci offre oggi, appunto, una lectio continua della Scrittura, mediante il biennio delle letture feriali e il triennio di quelle festive. Un altro accenno al bisogno di una lettura globale lo troviamo al n. 12 della Dei Verbum: «Per ricavare con esattezza il contenuto dei sacri testi, si deve badare al contenuto e all'unità di tutta la Scrittura». Bisogna dunque tendenzialmente conoscerla tutta. E ancora, al n. 16, viene ricordato che i libri dell'Antico Testamento, «integralmente assunti nella predicazione evangelica, acquistano e manifestano il loro completo significato nel Nuovo Testamento e, a loro volta, lo illuminano e lo spiegano». Mi piace qui citare un esperto: «Lectio divina non è qualunque lettura della Bibbia che si svolga secondo il metodo e i canoni propri di qùella che usano chiamare "esegesi scientifica". E nemmeno qualunque modo di accostare Bibbia e preghiera. Lectio divina non è nemmeno qualunque excursus dall'uno all'altro Testamento, o qualunque 3 attualizzazione tentata a partire dalla parola di Dio. Lectio divina è la lettura continua di tutte le Scritture, in cui ogni libro e ogni sua sezione viene successivamente letta, studiata e meditata, compresa e gustata, mediante il ricorso al conte-sto di tutta la rivelazione biblica, Antico e Nuovo Testamento». Questo è ciò che la Chiesa chiede a tutti i cristiani. Rispettando l'intero testo biblico, la lectio divina pone l'uomo in stato di ascolto umile della Parola. Potremmo allora dire che la lectio divina è l'unico approccio serio alla Bibbia, perché ci conduce nel mondo di Dio come in un tutto coerente. Essa produce in noi una solida inculturazione. Prima di parlare di inculturazione nelle culture umane, il cristiano deve inculturarsi in quel mondo di Dio che gli è rivelato attraverso il cammino che ci viene proposto nelle Scritture. Solo in seguito le altre inculturazioni potranno essere non tentativi velleitari, ma semi fecondi gettati nelle culture umane. Purtroppo questa visuale non è molto comune. Se, dal Vaticano Il fino a oggi, la Chiesa ha compiuto ogni sforzo per accostare i fedeli alla Scrittura, tuttavia si è fatto pochissimo per aiutare a introdurli in una lectio continua e globale, in spirito di preghiera. Forse proprio per questo non tutte le letture bibliche, tentate in questi venticinque anni, sono state felici; talvolta hanno provocato dei cortocircuiti, si sono arenate, hanno addirittura stancato la gente. Se non arriviamo a esigere questa lectio continua e globale, almeno tendenzialmente, rischiamo di limitarci ad alcuni brani estrapolati dal contesto, o addirittura di appropriarci indebitamente e settariamente della Scrittura. È possibile fare della lectio una realtà popolare, traducibile nella vita della comunità, nel vissuto del popolo di Dio? Non ho una risposta a questo interrogativo. Quando rileggo i capitoli della Dei Verbum mi sento messo in questione e capisco che abbiamo un lungo cammino da percorrere. D'altra parte avverto che se oggi un cristiano adulto non ha familiarità col mondo di Dio, non riuscirà a resistere in questa nostra situazione di frammentazione culturale e di Babele di linguaggi. Da parte mia posso solo comunicare alcuni tentativi, alcune esperienze. Li espongo con semplicità anche per mostrare che non esiste un cammino prefissato, ma è necessario scrutare continuamente i segni dei tempi per capire, nel contesto in cui si vive, in quale maniera lo Spirito ci guida a compiere delle decisioni serie di fede. La Scuola della Parola: questa iniziativa è nata senza alcuna pretesa. Alcuni giovani, anni fa, mi hanno chiesto di insegnare loro a pregare con la Bibbia e, dopo una mia breve istruzione, hanno sentito l'esigenza di esempi pratici di lectio. Così ho incominciato a proporre, nel 1980, la Scuola della Parola in Duomo, e dalle poche centinaia di giovani presenti la prima sera siamo rapidamente passati a diverse migliaia, fino a che l'appuntamento mensile divenne familiare a moltissimi giovani e ragazze. A un certo punto il loro numero superava la capienza del Duomo. Ricordo con quanto impegno, con quanto silenzio quei giovani ascoltavano e meditavano la Parola. Io insistevo che la vera lectio incomincia quando, terminata la spiegazione del brano, si passa al silenzio meditativo, senza canti e senza musica. Era commovente constatare il profondo silenzio adorante di tanti giovani riuniti insieme. Dopo cinque anni in Duomo, poiché il numero dei partecipanti continuava a crescere, abbiamo designato venticinque grandi chiese della diocesi, collegandoci via radio. Io tenevo la lectio attraverso l'emittente diocesana e i giovani, nei diversi punti di ascolto, si radunavano per ascoltare e pregare. I frutti sono stati consolanti: circa tredicimila gio- vani hanno seguito la Scuola. Successivamente, nel desiderio di un ulteriore allargamento dell'esperienza, abbiamo esteso la Scuola della Parola all'intero territorio diocesano. Perfezionando gradualmente il metodo, abbiamo aggiunto, ai classici momenti di lectio-meditatio-oratio-contemplatio, quello dell'actio, cioè di un'azione simbolica che dà concretezza all'agire derivante dall'ascolto della Parola. Esercizi serali biblici: tra le tante possibili iniziative, questa mi è sembrata utile particolarmente per gli adulti. Gli Esercizi si tengono per sei sere consecutive proponendo la lectio di un brano. Io li ho proposti in Duomo, più volte: un anno leggendo per un'intera settimana il brano della moltiplicazione dei pani (Gv 6); un altro anno leggendo la pagina della lavanda dei piedi (Gv 13); un altro anno leggendo l'episodio del miracolo di Cana (Gv 2). Sono centinaia ormai le parrocchie che hanno 4 fatto e ripetono l'esperienza degli Esercizi serali. La gente, anche la più semplice, si reca in chiesa con la Bibbia, prende gusto ad accostare i testi sacri, a passare momenti di preghiera e di silenzio. L'importante è di non approfittare del tempo degli Esercizi per una predica o un'omelia in più. Termino citando alcune parole scritte da Giovanni Paolo Il in una lettera inviata al presidente della Federazione mondiale cattolica per l'apostolato biblico. Esse esprimono molto bene il senso di quanto ho tentato di dire: «Dando la Bibbia a uomini e donne, voi date Cristo stesso, che riempie coloro che hanno fame e sete della parola di Dio, sazia coloro che hanno fame e sete di libertà, di giustizia... Le mura dell'odio e dell'egoismo, che ancora dividono uomini e donne e li fanno ostili e indifferenti alle necessità dei loro fratelli e sorelle, cadranno come le mura di Gerico, al suono della parola della grazia e della misericordia di Dio». Allargando lo sguardo, il papa aggiungeva: «La Bibbia è anche un tesoro che in larga parte è venerato in comune con il popolo ebralco, a cui la Chiesa è unita da uno speciale vincolo spirituale fin dai suoi inizi. E finalmente questo Libro santo, a cui in un certo modo si riferiscono anche i popoli dell'Islam, può ispirare ogni dialogo interreligioso tra popoli che credono in Dio e, in questo modo, contribuisce a creare, attraverso una preghiera universale e accettabile a Dio, la pace dei cuori per tutti». ABBREVIAZIONI DEI LIBRI BIBLICI Ab Abacuc Abd Abdia Ag Aggeo Am Amos Ap Apocalisse At Atti degli Apostoli Bar Baruc Col Colossesi 1Cor Corinti (I Lettera) 2Cor Corinti (Il Lettera) 1Cr Cronache (I Libro) 2Cr Cronache (Il Libro) Ct Cantico dei Cantici Dn Daniele Dt Deuteronomio Eb Ebrei Ef Efesini Es Esodo Esd Esdra Est Ester Ez Ezechiele Fil Filippesi Fm Filemone Gal Galati Gb Giobbe Gc Giacomo Gd Giuda Gdc Giudici Gdt Giuditta Ger Geremia 5 Gio Giona Gì Gioele Gn Genesi Gs Giosuè Gv Giovanni (Vangelo) ìGv Giovanni (I Lettera) 2Gv Giovanni (Il Lettera) 3Gv Giovanni (III Lettera) Is Isaia Lam Lamentazioni Lc Luca Lv Levitico ìMac Maccabei (I Libro) 2Mac Maccabei (Il Libro) Mc Marco Mic Michea Ml Malachia Mt Matteo Na Naum Ne Neemia Nm Numeri Os Osea Pr Proverbi i Pt Pietro (I Lettera) 2Pt Pietro (Il Lettera) Qo Qohèlet i Re Re (I Libro) 2Re Re (Il Libro) Rm Romani Rt Rut Sai Salmi I Sam Samuele (I Libro) 2Sam Samuele (Il Libro) Sap Sapienza Sir Siracide Sof Sofonia Tb Tobia ìTm Timoteo (I Lettera) 2Tm Timoteo (Il Lettera) ìTs Tessalonicesi (I Lettera) 2Ts Tessalonicesi (Il Lettera) Tt Tito Zc Zaccaria PARTE I GUIDA ALLA LETTURA DELL'ANTICO TESTAMENTO PROFILO INTRODUTTIVO ALLA PRIMA ALLEANZA LA PRIMA ALLEANZA È UN RAPPORTO D'AMORE di GIANFRANCO RAVASI 6 «Come chi, messosi in mare su di una barchetta, viene preso da immensa angoscia nell'affidare un piccolo legno all'immensità delle onde, così anche noi soffriamo mentre osiamo inoltrarci in un così vasto mare di misteri». Origene, il celebre maestro della scuola alessandrina del III secolo, sta per entrare con la fragile imbarcazione della sua esegesi e della sua meditazione nell'oceano vasto e misterioso della Genesi e, quindi, dell'Antico Testamento. È un'avventura che si ripete anche per noi ogni volta che tentiamo di percorrere l'intero testo biblico che raccoglie un arco storico di quasi due millenni e un arco letterario di un millennio. Alla base di quest'avventura c'è una Parola che risuona nella notte del nulla: «Mentre un quieto silenzio avvolgeva tutte le cose e la notte era a metà del suo corso, la tua parola onnipotente dal cielo, dai troni regali... si slanciò in mezzo alla terra» (Sap 18,14-15). La prima pagina della Bibbia, infatti, si apre col canto della Parola efficace e creatrice: «Dio... ordinò: "Vi sia luce". E vi fu luce» (Gn 1,3). E un profeta anonimo, il cosiddetto Secondo Isaia, approfondirà questo tema attraverso un simbolismo caro all'orizzonte palestinese sempre assetato, assolato e aspro: «Come la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano più, senza aver irrigato la terra, fecondata e fatta germogliare, in modo da fornire il seme al seminatore e il pane a chi mangia, così sarà della mia parola che esce dalla mia bocca: non ritornerà a me senza effetto, senza aver realizzato quanto volevo e compiuto ciò per cui l'ho inviata» (Is 55,10-11). Come Origene, anche il cristiano di oggi è invitato a questa esplorazione del messaggio di Dio, è invitato da Cristo stesso che è il perfetto «esegeta» (cioè interprete) del Padre, come dice il prologo del vangelo di Giovanni (1,18). Infatti, ai discepoli che, tristi, camminano nel groviglio spesso mestricabile delle strade della storia, egli, «cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro quanto lo riguardava in tutte le Scritture» (Lc 24,27). Certo, per il cristiano Cristo è colui che «ricapitola» la Bibbia e la sua economia di salvezza, secondo la nota immagine di Ef 1,10: il punto di partenza della metafora paolina è il «capitolo», cioè l'asta attorno a cui veniva avvolto il rotolo di pergamena che costituiva appunto il «volume». Come attorno a quell'asse converge e ruota l'intero messaggio del volume, così il Cristo è il centro di unità, di intelligibilità e di sintesi di questo volume dai molti capitoli che è la Bibbia. Nasce così la «lettura cristiana» dell'intera Sacra Scrittura, esaltata dalla liturgia e dalla teologia classica. Tuttavia, proprio perché la Bibbia è un dialogo tra Dio e l'uomo, proprio perché è, per usare una famosa immagine di Gregorio Magno, «la lettera indirizzata a te dal Re del cielo, il Signore degli uomini e degli angeli», è indispensabile cogliere non solo la battuta finale, la frase decisiva ma anche tutto lo snodarsi del discorso e dello scritto. Perciò la lettura autonoma, fedele e appassionata dell'Antico Testamento, deve avere la stessa dignità e qualità di quella evangelica: non per nulla nella liturgia anche l'Antico Testamento è proclamato come «parola di Dio» dallo stesso ambone usato per annunziare il Nuovo. È per questo che ora si preferisce adottare l'espressione Prima Alleanza invece di «Antica Alleanza», proprio per togliere alle Sacre Scritture ebraiche bibliche ogni sospetto di «inutilità», quasi fossero «vecchio» materiale da relegare negli archivi storici e non anch'esse parola di Dio. Tenteremo ora, sia pure attraverso un' ovvia semplificazione, di cogliere la trama su cui si distende questo pri- mo, fondamentale dialogo tra Dio e l'uomo. Jhwh, il liberatore Duemila anni prima di Cristo, nel lembo orientale di quella che è stata definita la «Mezzaluna Fertile», in Mesopotamia, un poeta anonimo componeva un inno a Enlil, dio dei Sumeri: «Enlil, le tue molte perfezioni fanno restare attoniti: la loro natura segreta è come matassa arruffata che nessuno sa dipanare, è arruffio di fili di cui non si vede il bandolo». «Allah è l'inaccessibile», ripeterà, secoli dopo, la professione di fede musulmana: tra Dio e l'uomo si stende un baratro invalicabile, sfera divina e sfera umana sono separate da una distanza insormontabile per cui il peccato più grande per un credente di questa religione è l'«associare» a Dio una qualità, un'azione, una fisionomia in qualche modo umana. 7 Molto differente è la proposta biblica. Diversamente dall'Islam che celebra innanzitutto lo splendore di un Dio supremo e trascendente, di un «Distante», come dice uno dei cosiddetti «99 bellissimi nomi» di Allah usati litanicamente dal fedele musulmano, la religione biblica vede nella storia il centro in cui si incrociano le due coordinate di Dio e dell'uomo. È legittimo perciò lo stupore del libro del Deutero- nomio: «Qual è quella grande nazione che abbia gli dèi così vicini, come Jhwh nostro Dio è vicino a noi quando lo invochiamo?» (4,7). Attorno al 1200 a.C. nella valle verdeggiante di Sichem, ai piedi dei monti Garizim ed Ebai, Israele, appena uscito dal «crogiuolo di ferro» (Dt 4,20) della schiavitù d'Egitto, si trova all'alba di una nuova epoca di libertà nella terra della promessa divina, la Palestina. Davanti al Dio liberatore Israele professa la sua fede in un «credo» che, lungi dall'essere un elenco di qualifiche astratte e misteriose di Jhwh, è appunto «memoriale» e celebrazione degli interventi di Dio sperimentabili nella storia umana. Un esemplare di questo «credo», ambientato a Sichem, il centro in cui le dodici tribù ritrovavano la loro unità nazionale, è conservato in una pagina piuttosto recente a livello redazionale, il cap. 24 del libro di Giosuè. In essa, quasi in miniatura, è tracciata l'intera trama del Pentateuco, i primi cinque grandi libri della Bibbia, la Torah, i cui rotoli sono ancor oggi posti al centro delle sinagoghe. I primi tredici versetti di questo capitolo enunciano con linearità gli articoli di fede composti da altrettanti interventi di Dio nella storia e scanditi dall'Io personale di Dio: la storia per la Bibbia non è un movimento cieco di destini imponderabili, né una nomenclatura esteriore di date e di eventi neutri; essa è condotta dalla volontà e dalla libertà di un Dio-persona. Un Dio che è, certo, «totalmente Altro» da noi nella sua intoccabile trascendenza, ma che è soprattutto Emmanuele, cioè colui che sceglie di essere con l'uomo percorrendo le sue stesse strade, inserendosi nel tracciato fragile e sofferto del tempo. La Rivelazione biblica non è quindi un florilegio di verità astratte e atemporali o di teoremi teologici perfetti, ma è la celebrazione della scoperta del volto immutabile di Dio attraverso il dinamismo della sua presenza accanto all'uomo (2Sam 7) e nel cosmo (1Re 8). Alleanza, il dialogo tra Dio e l'uomo Le tappe fondamentali del «credo» di Israele, rintracciabile anche in un frammento molto arcalco della liturgia delle prinnzie primaverili in Dt 26,5-90 nella libera variante culticopoetica della monumentale litania del Sal 136, sono tre: la vocazione alla fede dei patriarchi, la libertà nell'esodo, la salvezza e la felicità nella terra promessa dopo il pellegrinaggio nel deserto. Sotto l'involucro contingente delle vicende, delle politiche e dell'agitarsi umano, sotto le pagine della Bibbia spesso striate di sangue e di pianto, c'è uno spessore più profondo, è la Parola incarnata di un Dio che, intervenendo nello scenario del mondo, svela lentamente il suo volto mi- sterioso e ignoto. È una rivelazione che è anche appello a una risposta. La religione biblica vuole infatti trasformarsi in dialogo: al gesto di Dio che costruisce la trama della storia della salvezza succede la risposta gioiosa, libera e responsabile dell'uomo. Essa è espressa nel testo citato di Gs 24 col verbo servire che risuona per ben 14 volte (il numero simbolico della perfezione e della pienezza). «Servire» è aderire al vero Dio abban- donando gli idoli morti, è seguire solo il suo cammino, è accettare energicamente solo la sua proposta, è amarlo «con tutto il cuore, con tutta l'anima, con tutta la forza» (Dt 6,5), è credere in lui, ponendo la nostra sicurezza su di lui che èla roccia (Sal 18,3; Mt 7,24-25). Il dialogo che si stabilisce tra Dio e l'uomo è definito nella Bibbia col termine ebraico berit, «alleanza» o, meglio, «impegno» di Dio, «giuramento», essendo primaria l'iniziativa amorosa e gratuita di Dio. Forse, per costruire in modo com- prensibile questa misteriosa relazione di grazia e di fede, la Bibbia ha usato alcuni modelli della diplomazia orientale, cioè i cosiddetti «trattati vassallatici», stipulati tra un Gran Re e un principe di rango inferiore. Dio considera l'uomo una potenza con cui intrecciare un rapporto di collaborazione per attuare un progetto nell'universo. 8 È in questa luce che si interpretano tutti i momenti essenziali della storia d'Israele. Al Sinai, Dio offre il suo gesto di liberazione: «Io sono Jhwh, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dalla terra d'Egitto, da una casa di schiavitù» (Es 20,2); l'uomo, se vuole avere Dio come suo compagno di viaggio, dovrà rispondere col Decalogo che è impegno esistenziale nella dimensione verticale (Es 20,3-11: i diritti di Dio) e in quella orizzontale (Es 20,12-17: il prossimo). Anche il patriarca Abramo aveva vissuto la stessa esperienza, descritta dalle varie tradizioni che hanno costruito i racconti patriarcali della Genesi. Al Signore che nella promessasi era vincolato al dono della terra e della discendenza (Gn 15,4.8-21; 17,4-8) Abramo aveva risposto con l'offerta della sua fede pura (Gn 15,6; 22) e della circoncisione (Gn 17,9-14), sigillo impresso nella carne di ogni ebreo come segno vivo dell'alleanza. Successivamente il profetismo cercherà di esprimere con maggiore profondità questo legame che unisce Dio e l'uomo. Al rapporto fra due forze che si coalizzano nel reciproco rispetto della loro grandezza si sostituirà la tenerissima relazione d'amore tra i due fidanzati che si cercano nella gioia e nell'intimità. L'amore umano diventa, così, il paradigma dell'amore di Dio per l'uomo e della risposta umana a Dio. Lo splendido carme di Osea 2, l'affascinante panorama di colori, di profumi, di canti, di emozioni estatiche del Cantico dei Cantici, il capolavoro simbolico del canto della vigna amata di Isaia (5,1-7), le pagine tardive di Isaia 54 e 62 potrebbero costituire un'ideale antologia per la definizione di questa nuova impostazione. Ma, nella gioiosa atmosfera dell'amore, un'ombra spesso si introduce e sembra infrangere l'incanto: il tradimento che la sposa, colma di doni, compie dimenticando suo marito per inseguire l'illusione di altri amori. È la scelta idolatrica di Israele che è caratterizzata dalla Bibbia appunto come adulterio e prostituzione anche perché spesso si manifestava nei culti della fertilità cananei che sacralizzavano la sessualità umana (Os 2,4-15; Ez 16). Dio, però, rimane in attesa accanto al focolare ormal vuoto; sa che un giorno i passi della donna amata nuovamente risuoneranno ed egli la collocherà al suo posto. Le tavole vive del cuore Fiorisce, così, un nuovo modo per esprimere il rapporto tra Dio e l'uomo. È la cosiddetta nuova alleanza, cantata da Ger 31,31: «Ecco: verranno giorni... in cui stipulerò con la casa di Israele e con la casa di Giuda un patto nuovo». La novità sorprendente è posta in due componenti che nel lessico biblico sono decisive, «cuore» e «Spirito». Il primo termine non è sinonimo di sentimento ma piuttosto di coscienza, è la radicalità dell'uomo colto nella sua realtà intellettuale, volitiva, passionale, affettiva ed effettiva. Il secondo, invece, denota la realtà di Dio in quanto può comunicarsi all'uomo e trasformarlo, senza per questo perdere la sua trascendenza. La grazia trasformatrice di Dio (lo Spirito) penetra nell'uomo peccatore («il cuore di pietra») e lo rende creatura nuova, spontaneamente consacrata all'alleanza con Dio. Il processo di interiorizzazione del rapporto Dio-uomo raggiunge ora il suo vertice. Alle tavole di pietra che regolavano le relazioni tra Jhwh e Israele al Sinai subentrano le tavole vive del cuore degli uomini che ora «non si ammaestreranno più l'un l'altro a vicenda, dicendo: "Riconoscete Jhwh!", perché tutti mi riconosceranno dal più piccolo fino al più grande» (Ger 31,34). Lo stesso messaggio risuonerà anche in Ezechiele: «Vi aspergerò di acque pure e sarete purificati..., vi darò un cuore nuovo, e metterò dentro di voi uno spirito nuovo. Toglierò il cuore di pietra dal vostro corpo e vi metterò un cuore di carne. Metterò il mio spirito dentro di voi, farò sì che osserviate i miei decreti e seguiate le mie norme» Ez 36,25-27). Lo stesso messaggio sarà recuperato anche dal Cristo che, alludendo al testo di Geremia, dirà sul calice del suo sangue sacrificale le famose parole: «Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue che è sparso per voi» (Lc 22,20; cfr. 1Cor 11,25). Abbiamo scoperto nel legame tra Dio e l'uomo una delle categorie fondamentali della teologia della Prima Alleanza. Questo incontro è celebrato in pienezza nelle figure bibliche dei «servi» del Signore tra i quali il re Davide occupa una posizione privilegiata. Essa è precisata in una pagina significativa di 2Sam 7, che raccoglie il celebre e conosciuto oracolo del profeta Natan indirizzato appunto al grande re. Il desiderio di Davide di possedere un tempio nella capitale appena costituita, Gerusalemme, così da avere come concittadino del proprio regno anche Dio, il profeta 9 contrappone la scelta inattesa di Dio. Il Signore più che essere inquadrato nello spazio sacro di un tempio, edificato in concorrenza con i monumentali santuari pagani delle altre nazioni, ama essere presente nella realtà che più aderisce all'uomo, cioè nella storia espressa dalla linea dinastica davidica. Alla casa materiale che Davide vuole progettare per il suo Dio si sostituisce, allora, la casa fatta di pietre vive e di persone: «Certamente Jhwh ti farà una casa» (2Sam 7,11). L'oracolo gioca, infatti, sulla duplice accezione del vocabolo ebraico bayit che significa sia «casa» materiale che «casato» composto da individui. Al tempio, che pure sarà un segno della presenza di Dio nello spazio, il Signore preferisce il tempo in cui anche l'uomo abita con lui. Si apre così un orizzonte di luce e di speranza. E progressivamente le figure, spesso incolori e peccatrici, dei sovrani davidici lasciano intravedere un'altra figura, più limpida e perfetta. Al messia (vocabolo ebraico che significa «consacrato») concreto si sostituisce l'attesa di un Messia in cui la presenza di Dio sia piena, in cui la giustizia sia norma di vita totale e in cui lo Spirito di Dio sia effuso in ricchezza infinita. «Un rampollo uscirà dal tronco di lesse e un virgulto spunterà dalle sue radici. Riposerà sopra di lui lo spirito di Jhwh, spirito di sapienza e di discernimento, spirito di consiglio e di fortezza, spirito di conoscenza e di timore di Jhwh» (Is 11,1-2; vedi anche i Sal 2 e 110). Nella prospettiva cristiana questo Messia, considerato nell'Antico Testamento figlio adottivo di Dio («io gli sarò padre ed egli mi sarà figlio», 2Sam 7,14), ha un nome, è Gesù il Cristo (cioè il Messia), «figlio di Davide, figlio di Dio» in senso pieno e reale. In lui cielo e terra, storia ed eternità, divinità e umanità si congiungono in un'armonia perfetta e definitiva. La profezia tra fede e vita Nella linea della Torah anche il profeta biblico vuole affrontare il problema dei rapporti tra Dio e la storia umana. Anzi, egli è quasi un punto d'incontro tra Dio e l'umanità. Dev'essere perciò rivolto verso Dio nell'ascolto quotidiano e nella fedeltà alla sua Parola. Una felice definizione del profeta è quella offerta da Is 50,4-5 sotto il simbolismo dell'orecchio: «Jhwh risveglia il mio orecchio, perché io ascolti come fanno i discepoli. Il Signore Jhwh mi aprì l'orecchio, e io non sono stato ribelle, non mi sono tirato indietro». Ma, contemporaneamente, il profeta dev'essere bocca, cioè testimone davanti agli uomini della Parola che egli ha ricevuto, dev'essere il portavoce di Dio. La sua parola dev'essere come quella di Elia, «un profeta come il fuoco, la cui parola ardeva come una fiamma» (Sir 48,1). Il termine greco profeta riassume acutamente questa bivalenza del profetismo, «orecchio» e «bocca» di Dio. La radice linguistica che indica il «parlare» (phemì) è, infatti, preceduta dalla preposizione greca pro- che suggerisce la dichiarazione «in luogo di» un altro, Dio, e che indica pure la proclamazione «davanti alla» comunità. Proprio perché trasmette un messaggio vivo di Dio, il profeta è per eccellenza uomo del presente, coinvolto nelle vicende della sua storia, della sua politica, della sua società e non proiettato in un mitico futuro che egli predirebbe quasi da indovino. Il vero profeta è la coscienza critica del suo tempo (si pensi, ad esempio, al genere letterario tipicamente profetico degli «oracoli delle nazioni»: Is 13-23; Ger 46-51; Ez 25-32). Per questa sua estrema attenzione alla lezione del presente e al disegno di Dio nella storia il profeta sa intuire la logica di fondo con cui il Signore sta conducendo alla pienezza il suo piano salvifico e quindi sa intravederne gli sviluppi futuri. Ogni profeta, al di là delle tematiche comuni, ha una sua fisionomia teologica personale. Sarebbe facile tentare di escogitare delle brevi sintesi per ogni volume e raccogliere in una definizione il carattere fondamentale del pensiero di ogni singolo profeta. Amos è il profeta della giustizia; Osea il testimone dell'amore di Dio, meditato attraverso la sua tragica vicenda familiare; Isaia è il profondo interprete dei temi clas- sici della teologia di Israele (Sion, elezione, «resto d'Israele», messianismo, giustizia, storia e fede ecc.); Geremia, spettatore e giudice del crollo della nazione ebraica sotto le armate babilonesi, fa sperare nella «nuova alleanza»; Ezechiele col suo apparato barocco di simboli e di visioni è il restauratore della speranza ormai infranta degli 10 ebrei esuli a Babilonia; il Secondo Isaia (Is 40-55) e Aggeo sono i profeti della ricostruzione del focolare nazionale ebraico. Ma questi profili riassuntivi non possono mai sostituire la lunga e amorosa assuefazione alle parole vive dei singoli profeti, al loro messaggio specifico e ancor oggi provocatore. Come abbiamo notato, esistono alcune direttrici che accomunano il messaggio dei profeti e ne offrono quasi un segnale di autenticità. Tra queste è fondamentale la tesi concernente il nesso tra cullo e vita, tra fede ed esistenza. Si tratta quasi di un kerygma, cioè di un annunzio costante ed essenziale del messaggio di fondo della profezia. Il Signore vuole «l'amore, non i sacrifici, la conoscenza di Dio, non gli olo- causti» (Os 6,6). Il culto non dev'essere un alibi per sottrarsi agli impegni di fedeltà interiore e sociale; esso non basta (Is 1,11-15) quando manca la giustizia col prossimo (Is 1,16-17). Dio rifiuta la compensazione di esercizi cultuali (vittime, incenso, offerte, feste ecc.) quando manca un'attitudine religiosa vitale. Samuele aveva già ricordato a Saul: «Forse Jhwh si compiace degli olocausti e dei sacrifici come dell'obbedienza alla voce di Jhwh? Ecco, l'obbedienza è migliore del sacrificio, la docilità migliore del grasso dei montoni!» (lSam 15,22; cfr. Mic 6,6-8; Ger 6,20; 7,21-23; Sal 50). E Amos ribadirà: «Odio, respingo le vostre festività, non odorerò il profumo delle vostre adunanze solenni. Anche se mi offrirete olocausti e oblazioni, non le gradirò; a sacrifici pacifici di grasse vivande non volgerò il mio sguardo... Ma zampilli come acqua il giudizio e la giustizia come fonte perenne» (Am 5,21-24). Non si tratta certo di una negazione assoluta del culto liturgico, è invece lo sforzo di restituire alla liturgia la sua funzione di nervatura dell'intera esistenza. Il culto e la preghiera di Israele, nervatura dell'intera esistenza In questa prospettiva si muove anche l'intero sistema cultuale d'Israele. Infatti, se nella visione biblica la beneficenza e la comunione fraterna sono i sacrifici di cui Dio si compiace (cfr. Eb 13,16), è naturale che anche il complesso del calendario liturgico settimanale e annuale proposto dalla Bibbia si muova in questa direzione. Legate in Oriente al ritmo stagionale della natura, le solennità vengono invece in Israele strappate al meccanismo ciclico ed esteriore dei ritmi della campagna e dei pascoli e inseriti nella linea della storia come «memoriali» degli interventi di salvezza di Dio per l'uomo. Così la Pasqua, festa primaverile della transumanza pastorale alla ricerca di nuovi pascoli, ha come cornice l'evento esodico (Es 12-13) e si trasforma in una celebrazione del dono storico della libertà. Tutto l'antico rituale nomadico (abbigliamento da viaggio, cibi di fortuna, rito esorcistico del sangue, sacrificio di auspicio per la fertilità) si muta nel memoriale vivo e riattualizzato della liberazione e della salvezza nell'attesa della piena redenzione. Anche la seconda solennità primaverile, quella della mietitura e delle primizie, la Pentecoste, nell'epoca giudaica postesilica si trasforma in festa dell'alleanza tra Dio e Israele (2Cr 15,lOss). La solennità autunnale delle Tende o Capanne, gioiosa festa agricola della vendemmia (Gdc 9,27; 21,19-23), acquista una fisionomia storica in Dt 16,13-17 e Lv 23,33-43. Infatti le tende piantate nelle vigne si trasformano in un evocazione ideale delle tende del soggiorno di Israele nel deserto. La festa diventa, allora, un appello a partecipare all'esperienza storica dei padri pellegrini, a ricuperare i valori del deserto, tempo del fidanzamento e dell'intimità con Dio (Os 2,15), a rinnovare gli impegni di giustizia e di diritto (Is 5,1-7), a riconquistare l'unione con Dio nella tenda perfetta del tempio, segno della comunione eterna e messianica con Dio (Zc 14). Quando Israele escogiterà in modo autonomo una festa propria, quella del Kippur o dell'Espiazione, la vincolerà subito all'esistenza, cioè alla teologia del peccato e del perdono e all'impegno di conversione (Lv 16). La trasformazione da rito ciclico in segno vivo e umano è un dato visibilissimo anche alla base del sabato, la solennità settimanale. Il rischio di una sacralizzazione esteriore e quasi magica del giorno santo si è presentato spesso anche a Israele, rischio aiutato dall'osservanza materiale del tabù del riposo dai lavori «secolari» (vedi lMac 2,31-41;
Description: