Giulio Guidorizzi insegna Teatro e Drammaturgia dell'Antichità presso l'Università di Torino. Tra le sue opere più recente oltre a numerosi saggi sulla letteratura greca e sull'antropologia del mondo antico, si possono citare le edizioni delle Baccanti di Euripide (Venezia, 1989), della Biblioteca di Apollodoro (Milano, 1995) e delle Nuvole di Aristofane (Milano, 2002), le traduzioni dello Ione di Euripide (Milano, 2000) e dei Miti di Igino (Milano, 2000). È autore anche di una Letteratura greca (Milano, 2002). Il teatro greco, prima e fondamentale radice del teatro occidentale, è un fenomeno assolutamente particolare per lo straordinario intreccio di elementi poetici, rituali, sociali e politici che in esso si realizza. Il poeta è chiamato a comporre un'opera che ha nel pubblico cittadino il committente e il primo destinatario. Sulle gradinate del teatro di Dioniso, nell'Atene del V secolo a.C., sedeva tutta la popolazione per assistere non a un semplice spettacolo ma a un rituale cittadino in cui ogni anno la polis rinnovava la propria identità collettiva. Senza comprendere questa dimensione sociale e antropologica, è impossibile avvicinarsi alla meraviglia del dramma antico, alle sue trame così lontane da quelle del teatro occidentale successivo, al suo valore quasi religioso, alla forza dei suoi testi che rispecchiano la cultura dell'epoca d'oro della Grecia. La raccolta di saggi che qui si presenta, a cura di Giulio Guidorizzi, guida il lettore attraverso le nozioni teoriche fondanti del teatro classico ateniese, le sue realizzazioni sceniche (costumi, maschere, danza e musica), nonché la drammaturgia di tragedia e commedia. SOMMARIO (1. Caratteri generali del teatro greco) (2. Lo spettacolo teatrale) (3. La tr igedia) (4. La commedia) isbn 88-882-4209-0 Prezzo al pubblico Euro 10,30 azimut sezione umanistica diretta da eva cantarella e giulio guidorizzi simone beta giulio guidorizzi silvia romani roberta sevieri introduzione al teatro greco a cura di giulio guidorizzi © 2003 Mondadori Università Edumond Le Monnier S.p.A. Tutti i diritti riservati Prima edizione: marzo 2003 Edizioni 1 2 3 4 5 6 7 8 2003 2004 2005 2006 Stampato in Italia - Printed in Italy Stampa Grafica Dieci. Città di Castello (PG) Copertina di Luisa Conte 1. Caratteri generali del teatro greco di Giulio Guidorizzi 1.1 II teatro, un rituale cittadino Il teatro greco ha una data di nascita: nell'anno 535 a.C. il tiranno Lisistrato riorganizzò le feste pubbliche in Atene e diede spazio a una forma di poesia ancora assolutamente sperimentale, la tragedia, per cui istituì appositi concorsi destinando a questo scopo il recinto sacro di Dioniso Eleutereo ("Liberatore") ai piedi dell'Acropoli. Secondo la notizia dei cronachisti antichi (come il redattore del Marmor Parium), il primo vincitore ai concorsi fu Tespi del demo attico d'Icaria, che durante la sessantunesima Olimpiade (536-533 a.C.) «per primo recitò e mise in scena in città un dramma: il premio era un capro». Tespi è un personaggio semileggendario a cui gli antichi attribuivano varie innovazioni, tutte fantasiose: si diceva che avesse inventato il trucco tingendosi la faccia con biacca e poi avesse introdotto la maschera e anche che vagasse con la sua compagnia di attori di villaggio in villaggio sopra un carro (il "carro di Tespi" di Orazio, Ars poetica, 276). Il carro di Tespi di cui favoleggiavano gli antichi è forse il ricordo di pratiche rituali: era usanza portare le statue processionali di Dioniso sopra carri o barche semoventi montate su ruote e restano anche confuse memorie di elementari performance mimetiche con sfilate di carri durante le feste dell'anno agricolo (gli «scherzi dal carro» di cui parla il bizantino Lessico Suda). Di Tespi si conservano i titoli di quattro tragedie e una manciata di frammenti, ma il tutto è probabilmente un falso di epoca posteriore; è noto che il peripetetico Eraclide Pontico, nel secolo iv a.C., compose drammi e li fece circolare attribuendoli a Tespi. Che cosa fosse la tragedia in quei primissimi anni della sua storia non possiamo saperlo con precisione. Gli eruditi antichi amavano immaginare una sorta di antropologia teatrale primitiva: un rustico ambiente contadino, semplici compensi in natura per gli artisti, attori che si truccano il viso con biacca o mosto d'uva, un carro che vaga col suo carico di rudimentali costumi di scena, ossia lo spaccato di una comunità autosufficiente la cui vocazione è vendere illusioni a persone semplici, come la compagnia di attori girovaghi raffigurata da Ingmar Bergman ne Il settimo sigillo. La realtà fu ben diversa: il teatro greco non è il prodotto di un marginale ambiente contadino, ma un fenomeno centrale nella vita della città ed è solo apparentemente paradossale il fatto che gli spettacoli drammatici, patrocinati in origine da un tiranno, siano poi diventati l'espressione più significativa della civiltà democratica ateniese del secolo v a.C., l'epoca più alta e creativa della cultura greca. Il dramma greco non nasce nell'ambito degli attori che lo improvvisano; nasce dall'opera consapevole di un poeta che compone per un pubblico cittadino, il quale è, in un certo senso, il vero padrone del testo, in quanto suo committente e destinatario. Il teatro greco fu un fenomeno politico, vale a dire una manifestazione collettiva della polis, la città intesa come comunità di individui con pari facoltà di parola (isegoría) e pari diritti davanti alle leggi (isonomía): non un giocattolo di lusso per l'aristocrazia, come il teatro di corte europeo, e neppure un evento cultural-mondano come il teatro borghese, ma un rituale collettivo che coinvolgeva migliaia di spettatori, in sostanza tutti i cittadini maschi di Atene (è discusso se e in che misura vi partecipassero anche donne, bambini, schiavi). Una delle caratteristiche fondamentali del teatro greco è appunto di mettere al suo centro la città; per usare una bella formulazione di J.-P. Vernant, in Grecia è la città stessa che si fa teatro ponendosi sulla scena davanti ai cittadini, e di questa operazione il poeta, tragico o comico, è chiamato a fare da mediatore. Questo è evidente per la commedia, che tratta di eventi e personaggi di attualità, ma è altrettanto vero per la tragedia, nella quale il mito tradizionale viene tradotto in termini familiari alla cultura del pubblico di Atene e diventa materia di teatro solo in quanto perde il suo arcaico carattere tribale per diventare qualcosa di completamente nuovo. Dovunque la scena di una tragedia sia ambientata, a Tebe come a Troia, dietro il tessuto del dramma s'intravede Atene col suo universo cittadino, dove le vicende degli eroi mitici vengono reinterpretate. La vicenda tragica non si può comprendere davvero se non all'interno delle dinamiche profonde della vita cittadina: il potere, le leggi, le istituzioni sociali, il conflitto tra individuo e società o, ancora, la vendetta all'interno del clan, la crisi dei rapporti familiari, la ribellione della donna all'autorità della famiglia. Quella dell'eroe sulla scena non è mai - salvo forse in alcuni drammi di Euripide, l'autore in cui Nietzsche identificò 1'"assassino" della tragedia - una storia privata, così come manca nella tragedia greca il dramma d'amore che diverrà così centrale nella tragedia europea moderna: inevitabilmente la vicenda si dilata sulla società, il solo ambito, nella prospettiva dei greci, che dia un senso all'esistenza di quello che Aristotele definiva r«animale politico», l'uomo. La dimensione sociale del teatro greco è perfettamente espressa da un elemento caratteristico della sua drammaturgia: l'azione si svolge all'esterno, in uno spazio pubblico, sotto gli occhi di tutti e in presenza di un coro che assiste alle vicende e ai conflitti dei personaggi; le scene d'interno sono escluse nel dramma greco dove anche ciò che è intimo e privato deve diventare pubblico e collettivo. L'interno - lo spazio in cui sovente avvengono le azioni decisive di un dramma, come l'accecamento di Edipo o l'assassinio di Agamennone - per gli spettatori greci è un esterno, vale a dire uno spazio dove lo sguardo non può penetrare: lì l'azione scenica, il dràma, non arriva e le cose che vi accadono possono essere soltanto riferite. In Atene il teatro era un servizio pubblico (liturgia) la cui organizzazione veniva diretta e controllata dallo stato. L'autore era quindi esentato dalla necessità di andarsi a cercare un pubblico e i mezzi economici per sostenere lo spettacolo: a questo e a ogni altro aspetto organizzativo provvedeva infatti la polis, che d'altra parte si preoccupava di consentire a ogni cittadino di assistere agli eventi teatrali elargendo un contributo (theorikón) ai meno abbienti perché potessero pagarsi il biglietto. Il poeta deve quindi rispondere al pubblico della città nel suo complesso, non a un'élite, e deve farlo procurandogli il dolceamaro piacere di emozioni forti, «pietà e terrore» (come scriveva Aristotele); deve appassionarlo e commuoverlo, talvolta provocarlo e ammonirlo; deve celebrare la grandezza di Atene e della sua democrazia riproponendone sulla scena i valori; in definitiva, deve tradurre in termini teatrali il sistema culturale degli spettatori e il loro immaginario collettivo. Il teatro greco era il momento culminante di un rituale cittadino in cui, all'inizio della primavera, si celebrava il dio Dioniso e con esso l'anno nuovo che riprende a fiorire. Il rapporto di Dioniso col teatro è ambiguo e complesso. Dioniso era un dio della natura vegetale e in particolare della vite e della vinificazione; presiedeva inoltre a culti orgiastici praticati soprattutto da donne, che comprendevano musica e manifestazioni di trance ed erano effettivamente praticati in alcune zone della Grecia anche in epoca storica. Di questi riti le Baccanti di Euripide offrono una descrizione affascinante e terribile. Non è del tutto chiaro il motivo storico per cui Dioniso divenne il patrono degli spettacoli teatrali in Atene; una delle ragioni fu probabilmente la connessione delle manifestazioni teatrali primitive con feste agricole della vegetazione, durante le quali si praticavano forme mimetiche con finalità rituali. L'ipotesi ritualistica sull'origine del teatro greco, per quanto non dimostrabile con certezza, conserva la sua forza; del resto il più antico rappresentante di questa teoria fu Aristotele, che collegava la nascita della commedia a feste contadine della fecondità (le «falloforie»). Peraltro Dioniso, appunto in quanto patrono di manifestazioni psicologiche estreme come l'ebbrezza e la follia, nel pantheon greco era il più adatto a rappresentare l'illusione teatrale, che è fondata su una sospensione della nozione di identità e sulla volontà del pubblico di accettare il gioco scenico e farsi coinvolgere nella finzione drammatica. La prima definizione dell'implicito patto che si stabilisce tra scena e pubblico, senza il quale non è nemmeno pensabile il teatro, risale al sofista Gorgia, che negli ultimi decenni del secolo v, parlando della tragedia, scrisse che «in essa il più saggio è colui che più si lascia ingannare», ossia coinvolgere nell'illusione che gli attori sulla scena costruiscono alla fantasia degli spettatori. La presenza di un aspetto visionario e della volontà di illudere e di autoilludersi è tanto più rilevante in quanto il teatro greco non fu naturalistico, ma fortemente convenzionale: più che le azioni, erano le parole degli attori a generare nella fantasia degli spettatori non solo le emozioni ma anche gli spazi e i tempi dell'azione, mediante quella che si definisce scenografia verbale. Dal punto di vista della psicologia della comunicazione, l'atteggiamento del pubblico ateniese era condizionato da un'abitudine secolare all'ascolto collettivo. La letteratura greca infatti fu sin dalle origini orale, concepita quindi per essere recitata da un esecutore in una pubblica performance e non fruita nell'isolamento della lettura. La rappresentazione teatrale non fa altro che amplificare il modello comunicativo praticato dai rapsodi che si esibivano declamando episodi di Omero. Il pubblico ateniese trasferì sul teatro la sua abitudine all'ascolto e alla visualizzazione del testo; e per questo motivo il dramma greco non ha bisogno di tanti strumenti per funzionare: a visualizzare la suggestione di un paesaggio, la violenza di un gesto, persino l'atteggiamento di un viso che piange o ride (che agli spettatori resta invisibile, coperto com'è dalla maschera) bastano le parole dell'attore. Il dio della follia e dell'ebbrezza, quel Dioniso grazie al quale i contorni della personalità si dilatano, è lo stesso che presiede all'illusione che si delinea quando ci si abbandona al fascino della finzione scenica; nel teatro greco quest'ambigua nozione di identità era ancor più esaltata dall'uso della maschera. La maschera è lo strumento che consente a una persona di alienarsi da sé per assumere provvisoriamente una differente personalità attraverso il cambiamento del primo e fondamentale elemento di riconoscimento, vale a dire il volto; è un mezzo nello stesso tempo profilattico (perché protegge la persona che la indossa dall'assalto di forze maligne) e magico (perché favorisce l'ingresso in un'altra personalità), e infatti la maschera è universalmente impiegata con questo scopo nei rituali e nelle danze di ogni popolazione. L'uso della maschera ha inoltre importanti conseguenze sul piano dell'estetica teatrale: neutralizzando il viso, essa crea un diaframma nel processo d'identificazione tra spettatore e attore ed esalta altri aspetti della rappresentazione (in particolare la voce e la gestualità). L'impiego della maschera nel teatro si collega a un sottofondo magico- rituale: in Grecia il suo uso è testimoniato nel culto di varie divinità (come Artemide Ortia a Sparta), come elemento di compene-it 11/ione tra il dio e il fedele. Anche Dioniso era venerato talvolta in l'orma ili maschera appesa a un albero e nelle processioni dionisiache il mascheramento era di rigore. 1.2 La tragedia La natura e la storia della tragedia pongono una serie di problemi attorno ai quali la critica non ha cessato di interrogarsi, a partire dalla Poetica di Aristotele che rappresenta il primo capitolo di un dibattito più che millenario. Aristotele aveva una concezione evolutiva della letteratura, perciò, n suo parere, la tragedia era il punto terminale di un processo iniziato con la forma di poesia più antica, l'epica: l'arte poetica fu dapprincipio narrazione, poi l'èpos divenne dràma, azione, e nacque il teatro. Per certi aspetti, Aristotele aveva ragione. Quasi tutti gli strumenti utilizzati nel dramma si trovano già nella poesia precedente: la danza, il coro, la musica, il canto, la metrica, le trame. La tragedia riorganizza tutto questo in forme che le sono proprie per elaborare un linguaggio che è nello stesso tempo nuovo e tradizionale, lavorando con lo stesso materiale della poesia epica, vale a dire il mito. Il poeta non ha bisogno di ideare trame e personaggi poiché li trova già presenti nella memoria collettiva; il suo compito non è inventare nuovi racconti, ma fare qualcosa di nuovo con quelli che già esistono, passando dal mito-racconto al mito-dramma. Il caso di trame inventate è eccezionale: abbiamo vaghe notizie di una tragedia del poeta Agatone, l'Anteo, in cui tutti i personaggi erano fittizi. Solo un po' meno eccezionali erano i casi in cui il poeta metteva in scena eventi storici; lo si fece soprattutto ai primordi del genere tragico, come nel caso di Frinico, autore di una Presa di Mileto e di Fenicie che trattavano le vicende della guerra dei greci contro i persiani. Questi drammi sono andati perduti, mentre si sono conservati i Persiani di Eschilo che parlano dello stesso argomento e sono anzi il più antico testo del teatro mondiale (472 a.C.). L'interesse per vicende storiche sembra essersi riaffacciato nella tragedia postclassica del secolo iv a.C.; si ha notizia di un Mausolo (il re di Caria) del tragico Teodette, di un Temistocle di Moschione e del dramma satiresco Agen di Pitone di Catania, che derideva il potente tesoriere di Alessandro Magno, Arpalo, e fu rappresentato alla presenza dello stesso re macedone. Nella tragedia greca la libertà ideativa del poeta è dunque limitata dalla tradizione, dato che il dramma altro non fa che trattare e ritrattare le vicende degli stessi eroi di cui parlavano le saghe di Omero e degli altri poeti epici, a cui i tragediografi erano vincolati: «non è possibile disfare i racconti tramandati (scrive Aristotele in Poetica 1553b), per esempio quello secondo cui Oreste uccide Clitemnestra e Alcmeone Enfile, ma il poeta deve trovare modo di usare bene la tradizione». Questo non significa che le trame delle tragedie siano ripetitive. È caratteristica congenita del mito quella di essere un racconto fluido, capace di assumere forme diverse ogni volta che viene rinarrato; tale caratteristica è tanto più esaltata dal teatro, nel quale una delle scommesse dell'autore è di misurarsi con i testi dei predecessori, facendo emergere dal racconto tradizionale aspetti sempre nuovi attraverso la dialettica dei personaggi. Entro certi limiti il poeta è anzi tenuto a presentare al pubblico una faccia nuova del mito, pur mantenendo immutato il quadro di fondo. L'Antigone di Sofocle, in cui la protagonista si sacrifica nobilmente per riaffermare i valori fondamentali della legge familiare, era ben diversa dall'omonima (e perduta) tragedia di Euripide, scritta vari anni più tardi, che presentava un intreccio pieno di colpi di scena nel quale Antigone sposava il fidanzato Emone e dava alla luce un figlio; la cupa Elettra di Eschilo è profondamente diversa da quella di Sofocle, animata da un tenace e violento odio verso la madre, e ancora di più da quella di Euripide, che s'inventa l'idea di un matrimonio tra l'infelice principessa e un oscuro contadino e fa comparire Elettra sulla scena come una donnetta del popolo, mentre si avvia con una brocca sulla testa ad attingere acqua a una sorgente. La tragedia greca non vive della novità delle trame, ma del potere del mito di essere uno e molteplice e della sua capacità di raggiungere strati profondi dell'esperienza umana. Rispetto al mito narrato dall'epica la tragedia apporta però una straordinaria innovazione: i personaggi si staccano dal racconto per agire autonomamente sulla scena e non sono descritti da un narratore esterno, ma compaiono davanti agli occhi del pubblico come individualità distinte, ciascuna provvista di una propria vita psicologica. L'epica è una narrazione (èpos, «parola»), il teatro è un'azione (dràma, «dramma», da drào, «agire»). Sotto certi punti di vista il teatro sembra perdere alcune possibilità espressive rispetto all'epica: il passaggio dal racconto all'azione impedisce, infatti, l'incalzante serie di eventi che rendono a tratti travolgente il racconto di Omero, nel quale i tempi della narrazione possono essere condensati o allentati. La tragedia è obbligata invece a selezionare un solo momento del racconto e a collocarlo in un tempo e in uno spazio rappresentabili sulla scena, con le oggettive restrizioni che questo comporta. I limiti della rappresentazione rispetto alla narrazione sono però compensati da un fatto veramente rivoluzionario, vale a dire la possibilità di scavare nei personaggi, nella loro psicologia, nelle loro motivazioni, in sostanza di dare profondità alle figure del mito. Nel momento in cui un personaggio (Achille, Aiace o Agamennone) esce dal racconto per essere impersonato da un attore che agisce sulla scena davanti al pubblico, avviene un altro passaggio decisivo: questo personaggio assume un'autonomia psicologica e artistica del tutto impensabile rispetto ai mezzi espressivi della poesia recitata. Gli eroi tragici mostrano ciascuno un proprio volto al pubblico, acquistano spessore, discutono, lottano, si amano, si odiano, avviluppali da una trama di emozioni, idee, passioni che riducono immensamente lo spazio tra il mondo lontano del mito e l'attualità degli spettatori. La tragedia, quindi, traduce il mito in termini assai vicini all'esperienza degli spettatori e nello stesso tempo lo trasforma profondamente, fino a renderlo molto più complesso e profondo rispetto a quello che era slato nella cultura tradizionale. La psicologia degli eroi mitici si amplia e si approfondisce via via, col raffinarsi del linguaggio tragico, passando dai rigidi personaggi di Eschilo a quelli decisamente moderni di Euripide: nel teatro trova espressione la scoperta della profondità della mente e delle emozioni, senza le quali nessuna forma di rappresentazione è pensabile. L'azione tragica non mostra quindi soltanto personaggi che agiscono, ma ne mostra il carattere - éthos, come diceva Aristotele - che emerge e si plasma attraverso l'azione e la relazione con altri personaggi. Dal punto di vista della comunicazione, dunque, la tragedia sviluppa mezzi espressivi completamente nuovi. È uno spettacolo (théatron, da theàomai, «guardare») assai complesso: c'è un coro che canta, e attori che recitano e declamano, ma talvolta accade che il coro reciti e l'attore canti in monodie o in alternanza al coro; in altri momenti il coro danza, mentre un flautista e altri musici accompagnano i momenti della rappresentazione. Il cuore della tragedia è il testo, ma un testo di tipo particolare, che si fa intreccio e azione; quello greco fu infatti (come abbiamo detto) un teatro della parola, e questo per noi è tanto più vero in quanto gli altri elementi dell'esecuzione (musica, danza, canto) non ci sono più accessibili e possono essere restaurati solo in via ipotetica. Anche Aristotele del resto, distinguendo nella tragedia sei elementi (intreccio, caratteri dei personaggi, stile, ideazione, musica, spettacolo), attribuì al mythos o intreccio il ruolo fondamentale, più ancora che alla caratterizzazione dei personaggi: «il fine della tragedia sono i fatti e l'azione: senza azione non può esserci tragedia, senza caratteri sì» (Poetica 1450a). La centralità del testo rispetto agli altri aspetti della rappresentazione emerge anche dalla grande elaborazione stilistica del linguaggio tragico, un linguaggio «alto» (lo stile tragico è per eccellenza elevato e sublime, mentre lo stile della commedia è più vicino alla lingua d'uso) che nei canti corali diviene fastoso e solenne. La solennità dello stile e dello spettacolo è il dato formale più caratteristico che la tragedia greca trasmette alla teoria letteraria successiva, per arrivare allo stile tragico del classicismo europeo. Gli spettatori antichi percepivano questo stile come intrinsecamente connaturato allo spettacolo tragico: quando nelle Rane Aristofane mette in scena la decadenza della tragedia, il punto su cui batte in particolare è la contrapposizione tra il linguaggio elevato del padre del dramma, Eschilo, e quello del grande provocatore Euripide, nelle cui opere lo stile tende ad assumere forme meno solenni: «io - dice l'Euripide di Aristofane (vv. 940 sgg.) - ho ricevuto da Eschilo un'arte gonfia di pomposità e paroloni e l'ho assottigliata togliendole peso con parolette e ideuzze». Sarà però Eschilo, alla fine di questa gara, a riportare la vittoria su un rivale accusato di aver depauperato la tragedia semplificandone il linguaggio. I teorici antichi parlavano della tragedia come di un perfetto esempio di mimesi o imitazione della realtà; questa mimesi avviene all'interno di un sistema di codici e di convenzioni, patti non scritti ma rispettati tra scena e pubblico. La struttura drammaturgica tipica della tragedia è la forma chiusa. Una forma chiusa tende alla concentrazione, con un intreccio semplice e l'emergere di poche figure-chiave attorno a cui ruota un'azione unitaria; la forma aperta al contrario dilata l'azione, aumenta il numero dei personaggi e contemporaneamente diminuisce il loro approfondimento psicologico e il loro peso sul corso degli eventi, complicando per converso gli intrecci. La tragedia greca adotta generalmente il primo schema, ma mostra verso la fine della sua evoluzione (specialmente col tardo Euripide) una certa tendenza verso il secondo. Tragedie come Medea o Edipo Re, focalizzate su un solo personaggio, sono esempi di forma chiusa; Fenicie e Oreste di forma aperta. La necessità di rendere organica la trama della tragedia è generalmente nota come «unità d'azione», un concetto reso canonico ancora una volta dalla Poetica di Aristotele, che dal Rinascimento in poi divenne il punto di riferimento fondamentale per la drammaturgia tragica: «come nelle altre arti mimetiche la mimesi è una se uno solo è il suo oggetto, cosi occorre che anche la trama [della tragedia], che è mimesi di un'azione, lo sia di un'azione unica e completa e che le parti di una storia si compongano in modo tale che se una parte viene eliminata, cambi e si disgreghi il tutto» (Poetica, 1451a). Le altre due unità su cui si fondava l'estetica teatrale del classicismo europeo, vale a dire quelle di tempo e di azione, non sono enunciate da Aristotele - la loro prima formulazione risale al commentario alla Poetica di Ludovico Castelvetro, del 1570 - ma appaiono generalmente rispettate nelle tragedie che ci sono rimaste, nelle quali l'azione tende a concentrarsi in uno stesso luogo e ad essere circoscritta nell'arco di un solo giorno, sebbene con varie eccezioni, come le Eumenidi di Eschilo, che iniziano a Delfi e terminano ad Atene. Quanto al tempo, l'Agamennone dello stesso poeta inizia nella notte della presa di Troia ma prosegue di giorno, e anzi presuppone una certa estensione temporale, dato che sulla scena compare lo stesso Agamennone con le spoglie della città da lui conquistata. Il problema del tempo scenico viene risolto empiricamente: quando l'azione dei personaggi è sospesa (per esempio, da un canto del coro) si presuppone che la divaricazione tra il tempo reale e il tempo interno dell'azione teatrale sia variabile, e il tempo scorra più o meno velocemente a seconda delle esigenze della vicenda. Il teatro tragico greco presenta un aspetto difficile da tradurre in termini performativi agli occhi di un pubblico moderno, vale a dire la presenza di un coro. Per il pubblico ateniese invece la presenza del coro sulla scena non era un impaccio ma un elemento ovvio: la tragedia, anzi, ebbe origine dal canto corale. La danza e il canto (giacché queste sono le funzioni specifiche del coro) rendevano la tragedia qualcosa di simile all'opera in musica moderna, la quale del resto fu inventata a tavolino in epoca rinascimentale proprio assumendo come modello la tragedia greca; la fastosità del canto e la suggestione delle danze corali esaltavano l'azione drammatica. Musica e danza in Grecia erano linguaggi evoluti, frutto di una lunga abitudine che risaliva alle origini della letteratura greca, ed erano le basi stesse dell'educazione; la tragedia consentiva di vedere il loro effetto moltiplicato sulla scena dall'intreccio col testo recitato. Peraltro, il coro tragico non è un semplice «spettatore ideale» (la definizione è di Schlegel), come suggeriva l'estetica romantica, che gli attribuiva la sola funzione di commentare l'azione, ma tende a essere uno spettatore-attore che talvolta agisce, talvolta si limita a commentare o compiangere. Da un certo punto di vista, può essere vero che il coro è la proiezione del pubblico sulla scena: ne rappresenta infatti il punto di vista, se non altro perché si fa portavoce di un sistema di valori condiviso dall'uditorio. Tuttavia il coro può anche agire come un vero e proprio personaggio, il che appare evidente nella fase più arcaica della tragedia, anche se successivamente il suo ruolo tende a ridursi vistosamente. «Il coro - osservava Aristotele (Poetica, 1556a) - deve assumere la parte dell'attore e partecipare all'azione come fa in Sofocle, e non come in Euripide». Le fonti antiche parlano di una forte compenetrazione emotiva tra pubblico e attori, e del resto anche Aristotele riteneva che il fine della tragedia fosse quello di produrre nella mente dello spettatore una fortissima emozione psicologica: «la tragedia attraverso la pietà e il terrore produce la purificazione (katharsis, "catarsi") da simili emozioni» (Poetica I449b). Il fine della tragedia non è dunque solo spettacolare; sostanzialmente, il pubblico deve uscire da teatro diverso da come ne era entrato, e il teatro diviene l'occasione per una specie di psicodramma collettivo in cui tutta la città è coinvolta. Sul significato del concetto di «catarsi» è stato versato molto inchiostro e non si può dire che il significato di questa famosa formulazione aristotelica sia stato perfettamente chiarito; nel termine katharsis confluiscono un valore magico- rituale (purificazione da una contaminazione), uno psicologico (la liberazione da un surplus di emotività) e uno medico (guarigione, eliminando gli umori che inquinano un corpo). Poiché Aristotele pensava che i comportamenti irrazionali allontanassero un uomo dalla sua vera natura, è possibile che accentuasse il valore catartico della tragedia, intendendola come un mezzo capace di ricondurre gli spettatori alla loro piena razionalità, e quindi umanità: in sostanza, si trattava di una sorta di medicina collettiva che aprendo l'accesso a stati d'animo marginali ne facilitava il superamento, nel corso di uno spettacolo-rito vissuto con possente partecipazione emotiva. 1.3 L'origine della tragedia L'origine della tragedia costituisce uno dei problemi tradizionali della letteratura greca, su cui è stato versato molto - forse troppo - inchiostro: in definitiva (per usare le parole di P. Vidal Naquet) «la tragedia greca non ha altra origine che se stessa». Tuttavia, indagare sulla sua preistoria significa anche prendere coscienza degli aspetti sia formali sia antropologici, che operano in profondità nell'elaborazione e nello sviluppo del genere tragico. Ogni possibile interpretazione parte dalla Poetica di Aristotele, il primo che abbia formulato una teoria complessiva sul genere tragico, raccogliendo una documentazione - a noi inaccessibile - sulle fasi più antiche del dramma. «La tragedia - scrive Aristotele (Poetica, 1449a) - nasce da origini improvvisate» ed esattamente «da coloro che intonano il ditirambo (apó tón exarchónton tón dithyrambon)», vale a dire il canto in onore di Dioniso. Poco dopo, il filosofo aggiunge che le prime manifestazioni tragiche erano brevi e in linguaggio semiserio, perché contenevano un «elemento satiresco» (satyrikón) e la poesia era condizionata dalla danza; successivamente il linguaggio assunse un tono elevato (aposemnythe, «divenne serio»), il metro fu modificato (dal tetrametro trocaico al trimetro giambico) e la tragedia raggiunse la sua forma definitiva. Il nucleo dell'azione tragica sarebbe da individuare nel corifeo (ovvero capocoro), che a un certo punto si stacca dal gruppo dei coreuti e inizia a dialogare con loro, sinché diventa un vero e proprio personaggio e non soltanto un narratore. Un indizio di questo sviluppo sembra suggerito da una delle più antiche tragedie di Eschilo, le Supplici, in cui il protagonista collettivo è appunto il coro, formato da un gruppo di ragazze che fugge ad Argo e chiede asilo al re di quella città per evitare le nozze indesiderate con i cugini, gli egizi, che le stanno inseguendo. Qui troviamo tre scene (vv. 348 sgg., 734 sgg., 882 sgg.) nelle quali sezioni declamate da un attore seguono un canto del coro (secondo uno schema denominato epírrema): questo potrebbe essere un esempio di tragedia legata a modelli arcaici, dove il dramma è costituito da uno scambio di battute tra coro e attore. La teoria della derivazione dal ditirambo giustificherebbe il fatto che ad Atene gli spettacoli tragici avvenivano durante feste in onore di Dioniso e il largo spazio occupato dal coro nella fase più antica del dramma (specialmente in Eschilo), spazio che in seguito va progressivamente riducendosi. Restano però vari punti oscuri: come avvenne che il canto in onore di Dioniso iniziò a celebrare le imprese di altri eroi? In effetti la tragedia poco in comune ha con Dioniso, per quanto riguarda il contenuto, dato che tratta i miti degli eroi e non la storia sacra del dio: al punto che l'espressione «non ha nulla a che vedere con Dioniso» (che secondo la tradizione il pubblico ateniese gridò una volta, dopo avere constatato che le tragedie trattavano tutt' altro argomento) divenne un proverbio usato per definire situazioni incongrue. A un certo punto della storia del ditirambo si dovette verificare un ampliamento dei temi trattati e un intreccio tra il culto di Dioniso e quello degli eroi. Una fase di questo sviluppo si può forse intravedere da un passo di Erodoto (5,67), dal quale apprendiamo che il tiranno distene di Sicione, nella seconda metà del secolo vi a.C., impose una vera e propria censura sulle pubbliche feste della sua città, vietando di onorare Adrasto perché era l'eroe della città nemica di Argo; prosegue Erodoto: «gli abitanti di Sicione gli attribuivano molti onori e celebravano in cori tragici (tragikóisi choróisi) le sue tristi vicende... ebbene, distene restituì a Dioniso i cori tragici». Sembra quindi di dedurre che in questi «cori tragici» di Sicione si narrassero le vicende mitiche di eroi locali e che questa festa fosse stata poi riassorbita nell'ambito del culto di Dioniso. È difficile identificare esattamente che cosa fossero i cori tragici di cui parla Erodoto e a che cosa si riferisse Aristotele quando parlava di «elemento satiresco» come caratteristica della tragedia primitiva: non certo al dramma satiresco che nacque dopo la tragedia seguendone il modello. Possiamo ipotizzare che si trattasse di una forma serio-comica di dramma, a carattere rituale, forse affidata a un coro di demoni animaleschi della fertilità (i satiri), che facevano parte del corteo dionisiaco, e che queste danze avessero stretti legami con cerimonie della vegetazione. D'altra parte, il rapporto tra tragedia e ditirambo risulta anch'esso oscuro, in considerazione del fatto che niente o quasi degli antichi ditirambi si è conservato; per intero ne possediamo due soltanto, entrambi di Bacchilide, attivo quando già la tragedia aveva assunto la sua forma e che quindi dalla tragedia poteva essere stato influenzato. Essi trattano non un mito dionisiaco ma quello di Teseo, il grande eroe ateniese; uno dei due (il ditirambo intitolato Teseo) è dialogato e comporta uno scambio di battute tra due semicori (oppure tra un messaggero e il coro), secondo un modello che può essere accostato a quello della tragedia primitiva. Forse in epoca arcaica si sviluppò un ditirambo non limitato al culto dionisiaco. Un personaggio significativo, in questo campo, fu Arione di Lesbo, un famoso poeta del secolo vi a.C. a cui Erodoto fa riferimento (1,23) come all'inventore del ditirambo: ne fu invece uno degli innovatori, e sembra (se dobbiamo dare credito al bizantino Lessico Suda) che in questi ditirambi avesse introdotto cori di satiri. Oscura è anche l'etimologia di «tragedia»; si distinguono chiaramente le radici di «canto» (ode) e «capro» (tràgos), quindi la parola significherebbe «canto del capro». Gli antichi stessi ignoravano il valore dell'espressione e fantasticavano che volesse dire «il canto del capro», ossia dei satiri camuffati da demoni caprini (ma i satiri appaiono nelle raffigurazioni antiche come mezzi uomini e mezzi cavalli!) oppure «il canto per il capro» che sarebbe il premio attribuito al vincitore in quanto animale sacrificale a Dioniso. È probabile, dopo tutto questo, che si possa giungere a una conclusione: la tragedia non ha una sola origine, ma nasce dal confluire di suggestioni e forme diverse. Ogni traccia, comunque, porta a uno spettacolo a sfondo rituale che mantiene connessioni con l'antica civiltà agraria. 1.4 Eroi ed eroine Non tutto il mito era argomento di tragedia: generalmente dal teatro resta esclusa la storia sacra degli dei (con l'eccezione del Prometeo di Eschilo). Va peraltro considerato che la civiltà greca non ebbe libri sacri o una teologia ufficiale elaborata da una casta sacerdotale; se è vero che la tragedia fu un rituale collettivo della città, è però tutt'altro che una sacra rappresentazione. Al centro della tragedia sta un eroe. Questa è una categoria non solo letteraria ma soprattutto culturale: con la parola «eroe» (héros) i greci designavano personaggi semidivini le cui vicende erano conservate nella memoria collettiva, i quali ricevevano onori di culto ed erano considerati gli antenati mitici delle famiglie aristocratiche. Ciò che distingue un eroe da un dio è l'origine (gli eroi discendono, in via diretta o indiretta, da una divinità e da un essere mortale) e il fatto di essere soggetto al destino di morte che accomuna tutti gli uomini; da un lato gli eroi sono vicini agli dei poiché come loro vivono nel venerabile tempo-senza tempo delle origini, ma dall'altro sono vicini all'umanità del pubblico per le loro vicende e le loro sofferenze. Le figure eroiche furono di enorme importanza, oltre che per la religione, anche per la letteratura greca: attorno a loro infatti si sviluppò, da epoca antichissima, un sistema di miti confluiti poi nei poemi epici e nella poesia successiva. Il mito eroico fu un serbatoio di racconti capace di offrire alla tradizione letteraria dei greci inesauribile materia di poesia. Ma vi è un altro aspetto di queste figure che occorre sottolineare, poiché influenza in modo decisivo la loro trattazione nella tragedia: l'eroe greco non solo possiede una doppia natura, divina e mortale, ma è caratterizzato da una profonda ambivalenza morale e anzi lo si potrebbe definire premorale, proprio perché riflette gli schemi di comportamento della società tribale e arcaica in cui il mito eroico si formò. Un eroe dunque può presentare caratteri riprovevoli (la violenza sanguinaria, la doppiezza) e comunque non è giusto e nobile nel senso etico della parola, e tanto meno può essere considerato il campione del bene che si batte contro il male. Benché i poeti tragici, elaborando il mito, si preoccupino di dare un carattere più alto e complesso ai loro personaggi, la materia della tragedia rimane ancorata a quella primigenia e selvaggia del mito tribale; non troveremo dunque nella tragedia greca un netto confine tra bene e male, né uno scontro tra la virtù e il vizio. Il bene e il male, l'impurità e la virtù, il trionfo e la sconfitta, sono così intimamente mescolati negli eroi tragici da impedire una chiara distinzione tra personaggi positivi e negativi. Aristotele parla di una hamartia, «colpa» (Poetica, 1452b), che l'eroe commette e che è la causa delle sue sofferenze. Talvolta questa colpa sembra evidente: è il caso di Clitemnestra che assassina in modo efferato il marito. Ma qual è la colpa di Edipo che inconsapevolmente commette atti orribili rendendo veri gli imperscrutabili responsi di un oracolo, o di Fedra resa folle d'amore senza sua colpa, o di Filottete relegato su un'isola deserta e consumato per dieci anni da una putrida piaga che lo ha trasformato in un miserabile più vicino a un animale che a un uomo? Hamartia, la colpa dell'eroe tragico, non significa necessariamente colpa morale, vale a dire consapevole volontà di operare il male (tra l'altro, la parola assume questo valore nella lingua greca solo tardi, a partire dal Nuovo Testamento). Talvolta l'impulso che conduce l'eroe a comportamenti aberranti può sembrare piuttosto una colpa intellettuale, un errore di valutazione o l'emergere di un lato oscuro del suo carattere (il cosiddetto tragic flaw, «difetto tragico»): è il caso della gelosia parossistica di Medea nella tragedia di Euripide e di Deianira nelle Trachinie di Sofocle, o della rigidezza altezzosa di Aiace e di Prometeo negli omonimi drammi. La tragedia offre un vasto campionario di «colpe»: violazione di leggi divine, infrazioni a comportamenti sociali, maledizioni ereditarie trasmesse come una lue da padre in figlio (è questa una visione tipica del teatro di Eschilo), atti sconsiderati e sanguinari commessi per impulso o desiderio di vendetta; del resto, anche la
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