Relatore: prof. Valerio Castronovo Il rapporto Bordiga-Gramsci di fronte alla strategia dei consigli La pietra che i costruttori hanno scartata è diventata testata d'angolo. Chi cadrà sopra questa pietra sarà sfracellato e qualora essa cadrà su qualcuno lo stritolerà. (dal Vangelo di Matteo) Premessa Il presente lavoro si incentra sulla teorizzazione gramsciana dei consigli che della sua matu- razione politica rappresenta il compimento e vuole mostrare come, al di là delle differenziazioni fenomeniche e di una formulazione dialettica più precisa (diciamo dialettica benché talora alcu- ni passaggi la rinneghino, ma che rimane tuttavia di stampo puramente idealistico), essa, teoriz- zazione gramsciana, compendi con compiutezza una precisa corrente critica del materialismo marxista, quello anarco-sindacalista e, con essa, anche la concezione gradualista del divenire storico. A tal fine, per mostrare l'ambito in cui, con quella, si situa la concezione marxista fatta pro- prio dalla corrente che, dal suo rappresentante di maggior spicco, si chiamò, e continua ad esse- re chiamata, bordighiana, si è tracciato il percorso del socialismo italiano a partire dalla sua stessa costituzione in partito. E alle deficienze proprie di questo socialismo, nelle sue correnti ri- formistiche derivate dal revisionismo secondinternazionalistico e massimalistiche impotenti, ciascuno secondo la sua visione della realtà e dei processi storici, da entrambi rivendicata come aderente alla teoria rivoluzionaria del proletariato, si contrappose. In questo quadro il rapporto Bordiga-Gramsci, poiché il marxismo riconosce operanti sulla scena storica non degli individui ma delle forze materiali che anche attraverso questi si espri- mono, diventa necessariamente il rapporto di Gramsci con la critica al gramscismo. Questo lavoro non assume i caratteri di quella asettica "obiettività" che pensiamo propri di lavori di questo genere; gli è che, di contro, si rivendica l'obiettività che sola può nascere da una precisa posizione di parte. Quella poggia sulla pretesa che in qualche sfera possa esistere una conciliazione di interessi di parte, opposti e irrimediabilmente contrapponentisi e corrisponde esattamente alla pretesa universalità politica compiutasi con la borghesia. Essa si rivela incapa- ce, chiusa nell'immediatezza della pura fattualità, a pervenire alla sua stessa fondazione, alla to- talità della storia come forza reale che sopprime la stessa particolarità dei fatti, per sostituirvi un principio di conoscenza che porta alla concettualizzazione della immediatezza e con ciò alla e- strernizzazione di questa struttura senza la quale questa stessa apprensione vien meno. La riesposizione della concezione gramsciana che qui è stata fatta parte del suo concetto di capitalismo per giungere alla caratterizzazione del proletariato come produttore e quindi della sua essenza rivoluzionaria discendente da queste determinazioni e si è voluto mostrare come: 1) sia errata la visione che Gramsci ha del capitalismo, 2) sia errata la conduzione del proletariato alla sua esistenza come produttore e infine 3) sia errata la concezione della rivoluzionarietà del proletariato discendente dalle determi- nazioni positive assunte nel processo di produzione poiché, al contrario, è la negatività del se- condo momento triadico che provoca il suo superamento e quindi la sua scomparsa come nega- zione. Il compito propostici è arduo; si presume, non per opera o merito (o demerito) proprio per- ché, invece, si rivendica la soggezione completa a una teoria formulata e compiuta, di essere pervenuti, non alla sua definizione, bensì soltanto alla sua posizione come problema. Ci si è soffermati sul padre terreno, Sorel, e si è tralasciato il Padre celeste, Proudhon, men- tre sarebbe stato indispensabile mostrare come, dopo la sua vita terrena, il Verbo sia ritornato al Padre. Se ciò non è stato fatto lo si deve alla insorta necessità di seguire alcuni momenti della incarnazione che ha assorbito tutto il tempo avaramente concessoci. Sarebbe stato inoltre necessario collegare tutta quanta l'analisi fatta al movimento consiliari- sta tedesco e olandese e collegarla altresì alla discussione sul controllo operaio svoltasi nella Russia sovietica, ma la limitatezza stessa del presente lavoro ce l'ha impedito. Introduzione Lo sviluppo capitalistico in Italia nei primi decenni del secolo Con i primi anni del Novecento inizia la fase espansiva dello sviluppo industriale d'Italia, dapprima favorito soprattutto da capitali stranieri, che ebbe un'espressione politica, il giolitti- smo, caratterizzata da un maggior intervento dello Stato nella vita economica nazionale, manife- stazione del progressivo allargarsi dell'economia fino ad abbracciare sfere che fino allora non dominava direttamente. Fatti salienti di questo sviluppo sono da un lato la meccanizzazione agricola che porta sia a una concentrazione della proprietà fondiaria e quindi alla "liberazione" di braccia proletarie sia ad un aumento delle produttività agricola che queste braccia appunto permette di muovere e dall'altro la rapida urbanizzazione derivante dall'aumentata industrializzazione. In tal modo si viene accentuando la separazione tra città e campagna che è tra le condizioni e i caratteri del si- stema di produzione capitalistico. Necessariamente questo inurbamento non interessa solo i pic- coli proprietari liberati dal possesso della terra ad opera della concentrazione della proprietà fondiaria ma anche quelle popolazioni dedite ad attività agricole o pastorizie montane la cui mi- serabile vita costringeva al lavoro salariato nell'industria in espansione. Assistiamo infatti all'emigrazione interna dalli valli del Nord mentre continua l'emigrazione all'estero della popolazione soprattutto meridionale. Gli stessi problemi insoluti di oggi – a dimostrazione della incapacità del capitalismo di por- vi rimedio – si erano presentati nell'Italia giolittiana: "i problemi legati all'aumento degli affitti e all'espansione della rendita fondiaria accompagnano ogni passo dell'urbanizzazione, del risana- mento edilizio, della realizzazione di nuove opere pubbliche".1 A nulla valse l'attività legislativa promossa da Giolitti tendente a un ridimensionamento della rendita fondiaria: essa non riuscì a "bloccare la spirale del costo delle aree, né ad attirare (…) nuovi capitali privati nell'edilizia a favore delle categorie meno abbienti".2 I poli dello sviluppo industriale nell'età giolittiana furono le vecchie industrie tessili con cui si era iniziato il processo di produzione industriale e le industrie agricole-alimentari da un lato, le produzioni siderurgiche, meccaniche, metallurgiche, chimiche dall'altro. È alle industrie tessi- li e agricolo-alimentari cui si deve in maggior parte la ripresa: più della metà del valore com- plessivamente prodotto, ancora nel 1913, proveniva da queste; va notato che, data la bassa pro- duttività di questi settori a causa della bassa composizione organica di capitale ivi esistente, no- nostante i notevoli investimenti operati agli inizi del secolo nell'ammodernamento della filatura soprattutto cotoniera, tutto ciò poteva accadere solamente con una forte compressione dei salari. La maggior parte degli investimenti si indirizzò verso il settore delle nuove attività manifat- turiere e fu essenzialmente operato dal capitale finanziario in cui la presenza straniera, special- mente tedesca, era predominante. Al decollo industriale dell'età giolittiana contribuì potentemente il potenziamento delle nuo- ve fonti di energia idroelettrica che liberava l'Italia dalla subordinazione al carbone straniero: al- la industria elettrica e alla elettrificazione del paese occorsero una massa enormi di capitali. 1 V. CASTRONOVO, La storia economica, in Storia d'Italia Einaudi, vol. 4°, Dall'Unità a oggi, t. III, Einaudi, Torino 1975, p. 148 2 Ibidem. Poiché l'industrializzazione italiana era cominciata in ritardo rispetto alle nazioni europee e poiché essa assumeva tutte le caratteristiche della produzione industriale già sviluppata, al suo sviluppo concorse in misura preponderante il capitale finanziario operante tramite le grandi ban- che, tra le altre, la Commerciale e il Credito italiano; la sperequazione tra esigenze di espansio- ne e bisogno di mezzi finanziari fu risolto dal loro intervento caratterizzato da un forte immobi- lizzo che poteva reggere solo fintantoché la spinta allo sviluppo perdurasse. Di qui la necessità di operare una sempre maggiore concentrazione tendente a controllare la produzione sia verti- calmente sia orizzontalmente e quindi alla formazione di monopoli aventi la possibilità di con- trollare i prezzi e di ritenere un sovrapprofitto di monopolio. Questa industrializzazione se consentì all'Italia di entrare tra le potenze industriali partiva pe- rò da una situazione di tale arretratezza che poneva il paese in coda a queste potenze. Inoltre: maggiori prezzi dei prodotti rispetto a quelli dell'industria inglese e tedesca costringevano ad accrescere la concentrazione onde evitare la dispersione di mezzi finanziari e produttivi; sorge, tra gli altri, il colosso siderurgico dell'Ilva ai cui stabilimenti di Bagnoli sono legati alcuni dei più importanti scioperi del napoletano. A rafforzare il settore siderurgico contribuì il sistema di protezionismo doganale e furono poi il settore siderurgico come per quello cantieristico e di materiale ferroviario indispensabili le sovvenzioni statali e le commesse, a prezzi di favore, dell'amministrazione pubblica. La composizione organica di capitale più alta la troviamo però nelle nascenti industrie chi- miche e meccaniche. Il protezionismo, se da un lato favorì lo sviluppo della siderurgia, dall'altro limitava la produzione meccanica al mercato interno il quale però, in un primo momento, fu ba- stevole per consentirle un rapido sviluppo. La dipendenza dall'estero non si manifestava solo nel controllo tedesco del capitale finanziario – specialmente attraverso la Banca commerciale – ma anche nel loro possesso della tecnologia necessaria per lo sviluppo, sia meccanico, sia chimico ed elettrico. Tra le industrie meccaniche si assiste alla rapida formazione dell'industria automobilistica che ha in Torino e nella Fiat il suo punto di forza e che non solo permise un maggiore impiego di salariati ma anche rappresentò un polo attorno a cui si sviluppò un notevole settore meccani- co e ingegneristico. All'industrializzazione, accentuata e accentrata soprattutto nel Nord del paese, hanno contri- buito doppiamente le plebi meridionali: dapprima con le rimesse degli emigrati che consentiva- no di pareggiare i conti con l'estero (la loro drastica diminuzione a causa della chiusura delle frontiere di molti paesi pesò sulla deficitaria bilancia del paese nel dopoguerra contribuendo ad aggravare la crisi succedutasi all'euforia bellica), poi con la sperequazione dei prezzi tra prodotti agricoli del Sud e prodotti industriali del Nord. Va aggiunto che mentre nel Nord la propaganda socialista e l'associanismo sindacale si erano diffusi anche nelle campagne, le plebi meridionali erano ancora costrette nei vecchi rapporti personali e di clientelismo politico che impedivano un raggruppamento di forze per contrapporsi al potere della proprietà fondiaria. Naturalmente questo sviluppo non fu costante: alla recessione del 1907 e del 1913 pose tem- poraneamente rimedio la guerra. Anche nella conduzione di questo troviamo lo stesso rapporto tra capitale costante e capitale variabile esistente nelle industrie manifatturiere: alla bassa com- posizione organica di capitale ivi riscontrata doveva necessariamente corrispondere una "logo- rante guerra di trincea": "In Italia la natura reale del conflitto, che opponeva più la potenza di fuoco e la disponibilità di materie prime che il numero degli uomini, stentò ad essere compresa integralmente"3. 3 Ibidem, p. 205 Non è possibile considerare tutte le implicazioni di natura commerciale e di rifornimenti di materie prime che determinano l'adesione all'uno anziché all'altro dei blocchi dei paesi bellige- ranti chè, se dapprima l'industria lucrò sulle vendite ai paesi in guerra, poi "l'esigenza di non interrompere i meccanismi dello sviluppo e anzi di rafforzarli dopo depressione del 1913-14, pena la dispersione degli sforzi fino allora compiuti, ma anche la inquietante prospettiva politico-sociale di una vasta disoccupazione operaia e della sorte di tanta parte di risparmi privati im- mobilizzati in impianti industriali e in rischiose speculazioni contribuirono a creare un clima favore- vole alla ricerca di uno 'sbocco eccezionale' alla congiuntura" 4. L'eccezionalità dello sbocco è data: 680.000 morti, 600.000 prigionieri, 1 milioni di feriti e mezzo milione di mutilati 5 oltre a 600.000 morti per la "spagnola".6 In questo modo il capitale risolve l'eccesso di forza-lavoro. La guerra operò anche una concentrazione capitalistica su scala sempre più vasta: si ingran- discono, a danno sia dell'agricoltura che della piccola e media industria, i colossi strettamente legati al capitale finanziario e tra gli altri primeggiano l'Ilva, l'Ansaldo, la Fiat. L'espansione produttiva del periodo bellico, se da un lato ingrossa i profitti, in special modo della siderurgia, nella meccanica pesante e nella cantieristica e stimola nuova produzione che prelude alla crisi postbellica, dall'altro produce un fortissimo indebitamento dello Stato che questa produzione so- steneva con gli alti prezzi delle forniture statali; una fortissima inflazione ne fu la necessaria conseguenza e fu supportata dalla parte più debole della società: i prezzi aumenteranno fino al 300 per cento, rispetto al 1923, nel 1918 e fino a quasi il 500 per cento nel 19207. D'altro canto, fatto non meno importante, era venuta aumentando la conquista dello Stato da parte del capitale e la compenetrazione del potere economico all'interno del potere politico: i rapporti tra burocrazia statale – operante in sempre maggiore autonomia dal potere parlamentare – e la grande industria si erano fatti più intimi. Mentre agli inizi del secolo l'intervento statale era servito da propulsione al decollo industriale, ora si rendeva indispensabile il controllo del potere legislativo e dell'apparato esecutivo per non abbandonare le posizioni che la grande bor- ghesia aveva conquistato durante la guerra. Alla sconfitta del proletariato essa rispose col fasci- smo. La fine della forzata pacificazione sociale imposta e accettata durante il periodo bellico era prelusa dalla rivolta per il pane dell'agosto 1917 a Torino. Se all'interno del Partito socialista os- serviamo una radicalizzazione con il rafforzamento della corrente massimalista – che peraltro si ridusse a un massimalismo parolaio come si vedrà – la corrente riformista all'interno della CGdL, corrente irrobustitasi nel periodo giolittiano di sviluppo pacifico, si manteneva fortissima e fu non l'ultima delle cause che cooperarono alla sconfitta del movimento operaio nel dopo- guerra, auspice il risorto Giolitti. Del resto i miglioramenti salariali e normativi strappati, tra questi la conquista delle otto ore, erano presto recuperati dal processo inflazionistico in atto ed erano pagati a caro prezzo, con l'accettazione da parte sindacale dell'aumento dello sfruttamento degli impianti e quindi della forza-lavoro, dei turni e della introduzione del sistema tayloristico: alla diminuzione del plusva- lore assoluto la borghesia risponde con l'aumento del plusvalore relativo e con esso della quota di plusvalore estorto agli operai. 4 Ibidem, p. 204. 5 Ibidem, p. 206. 6 R. DEL CARRIA, Proletari senza rivoluzione, Ed. Oriente, Milano 1966, p. 61. 7 V. CASTRONOVO La storia economica, cit., p. 208. Nelle campagne il dopoguerra vide poderose agitazioni di lavoratori agricoli: tra il 1919 e il 1920 raddoppiò da 500mila a un milione il numero dei lavoratori agricoli scesi in sciopero men- tre quadruplicò, in proporzione, da 3,5 milioni a 4 milioni il numero delle giornate di agitazione. 8 Oltre alla violenza fascista nelle campagne, finanziata dalla grande proprietà terriera – e ben presto pedina nel gioco della borghesia industriale – a stroncare il movimento di agitazione co- operò la mancata saldatura del bracciantato con i piccoli affittuari, i coloni e i mezzadri, inten- zionati del resto più che altro alla conquista della loro piccola proprietà parcellare in ciò favoriti dall'inflazione risanatrice di debiti: aumentò infatti nel dopoguerra la piccola proprietà contadina opponentesi, dalla sua posizione emancipata, a ogni rivendicazione socialista. Inoltre sia il partito diviso tra la violenza verbale massimalista con la pratica riformista che la Confederazione del lavoro non colsero la portata politica del movimento di classe e lo tennero chiuso nell'ambito puramente economico. Alla violenza fascista non seppero opporsi – e tutto il movimento era viziato di pacifismo –; sola, Parma, seppe contrapporsi loro sul loro stesso terreno. 8 Ibidem, p. 234 I – Il socialismo italiano dalla fondazione del partito a Reggio Emilia La pregiudiziale elezionista si pose all'atto stesso della costituzione del partito socialista e fu la discriminante tra le due opposte concezioni che a Genova diedero vita a due partiti dallo stes- so nome, Partito dei lavoratori italiani: quella socialista a quella anarchica, tendente questa a sottovalutare fino a negarla l'azione politica del partito e l'altra a sopravalutarla tanto da finire di rinchiudere l'azione di classe nell'ambito angusto del parlamento democratico. La questione elezionista si ripose, in altri termini, nel dopoguerra e fu ancora la linea di de- marcazione tra la concezione rivoluzionaria e a quella del socialismo oramai definitivamente sottomesso alle sorti del capitale nelle sue due anime riformista e massimalista. Il programma che il partito si diede fu capace per trenta anni di tenerlo unito – e in effetti il problema della unità vi pesò costantemente – non tanto per quello che dice quanto per quello che non dice. Mentre vi erano delineate la necessità dell'azione di classe del proletariato orga- nizzato in partito, distinto dagli altri, azione esplicantesi sul piano economico come lotta di me- stiere e sul piano politico come conquista "dei poteri pubblici (Stato, Comuni, Amministrazioni pubbliche, ecc.)" al fine della loro trasformazione in "strumento per l'espropriazione economica e politica della classe dominante" 9 era taciuto il momento distruttivo dell'azione di classe: vio- lenza rivoluzionaria fino all'abbattimento dello Stato borghese e alla instaurazione della dittatura di classe. E l'anima pacifista piccolo-borghese di detto socialismo ebbe modo di manifestarsi non solo allorquando le lotte spontanee delle masse popolari del proletariato si ritrovarono senza una direzione e un programma preciso che i socialisti non seppero e non vollero dare, socialisti che, anzi, operarono una mediazione costante al fine di ricondurle negli alvei di una lotta in- cruenta, ma anche nella posizione ambigua e di attesa assunta di fronte alla guerra imperialista. Il primo movimento popolare insurrezionale che dovettero affrontare, quella dei Fasci sici- liani, fu dal partito completamente sottovalutato; tra i pochi schieratisi a favore fu proprio il Tu- rati, quel Turati che da allora non fece che "rassicurare il governo e la borghesia dirigente che la classe lavoratrice non chiedeva che la libertà di associazione e di propaganda onde raggiungere pacificamente i suoi obiettivi di emancipazione politica e di miglioramento economico"10. Dalla crisi di fine secolo l'anima riformista del partito comincia a sdoppiarsi e assistiamo ai contrasti tra il riformismo in senso stretto e la sua coscienza critica, il massimalismo che in tutte le sue manifestazioni, al di là della violenza verbale o pratica, ne è il contraltare ai loro reciproci rapporti di sostentamento ove si prendono l'un l'altro a balia. Il gradualismo riformista fa di- scendere da una concezione fideista di un progresso economico spontaneo e di un conseguente progresso politico e sociale un'azione mirante ad ottenere riforme che, in quanto compatibili con l'ordinamento presente, ne consentono la "graduale evoluzione a forme superiori". Come questa errata concezione positivistica di cui era impregnato il socialismo italiano po- tesse intendere questo fatto, lo si vede chiaramente nel cosiddetto "Programma minimo" appro- vato al congresso di Roma (1900) 11. Essa rappresenta definitivamente l'affossamento del pro- gramma massimo con l'abbandono della prospettiva rivoluzionaria e con l'introduzione del me- todo riformista mirante a diluire questa rivoluzione nel tempo per mezzo di una realizzazione 9 L. CORTESI, Il socialismo italiano tra riforme e rivoluzione. Dibattiti congressuali del Pci. 1892- 1921, Laterza, Bari 1969, p. 21. Il volume curato da Cortesi è una raccolta di estratti dei resoconti ufficiali dei congressi. Di tali resoconti non si dà indicazione bibliografica in quanto agevolmente reperibile in tale testo. 10 G. MAMMARELLA, Riformisti e rivoluzionari nel Partito socialista italiano. 1900 - 1912, Marsilio, Padova 1968, p. 39 11 L. CORTESI, Il socialismo..., cit., pp. 131-134 graduale: la rivoluzione cessa "di essere un metodo per divenire un risultato; il risultato esatta- mente proporzionale dell'azione riformatrice" 12. Se la discussione sul programma minimo non provocò una spaccatura nelle file del partito fu, oltre che per il fatto che la discussione verte più su questioni di carattere marginale di natura formale che di natura politica e teorica anche per il carattere assolutamente contraddittorio di tutto il programma in cui, a un preambolo improntato alla intransigenza, seguiva una parte che, nell'elencazione delle specifiche riforme, negava le premesse e i principi stessi del socialismo. Il preambolo, nelle sue affermazioni, riconosce l'impossibilità oggettiva della separazione tra pro- gramma massimo e minimo; questo infatti deve essere tenuto distinto da "qualsiasi piattaforma occasionale di agitazione in cui il nostro Partito possa trovare alleati", laddove si può intravede- re la possibilità di un programma comune inferiore al programma minimo stesso, e deve inoltre astrarre dall'attuabilità o meno delle singole riforme nell'ambito del presente ordinamento statale che, anzi, queste riforme con esso incompatibile spingono a "trasformarsi in senso progressivo verso la libertà e la giustizia sociale": insomma, questo programma minimo non è separabile dalla "conquista dello Stato da parte del proletariato ai fini della socializzazione". Esso deve servire a educare e organizzare il proletariato; deve pertanto "accogliere tutte le riforme e tutte le istituzioni che ponendo un argine allo sfruttamento capitalistico, elevano le condizioni eco- nomiche e morali del proletariato e lo iniziano all'amministrazione e al governo della cosa pub- blica, secondo leggi che siano emanazioni della sua classe". Nella parte speciale invece vediamo posta come indicazione programmatica quella di uno "Stato democratico, dove il proletariato si senta realmente uguale – politicamente e giuridica- mente – al capitalista". Non c'è bisogno di ripetere che, al di là del "sentirsi" o dell'essere, ciò è impossibile: la con- cezione marxista vede uno Stato in cui il proletariato è soggetto alla borghesia e uno Stato ditta- toriale in cui la borghesia è soggetta al proletariato. Non mancano naturalmente nel programma le richieste di decentramento politico e ammini- strativo: anche all'interno del partito fu costante il dibattito sulla autonomia delle sezioni dalla Direzione e del sindacato dal partito. Se il proletariato deve sentirsi uguale al capitalista neces- sariamente deve essere difeso come "uomo e come cittadino" e quindi come "consumatore", in poche parole deve essere non difeso come salariato ma costretto in quella situazione di salariato: non si tratta più qui del lavoratore "nella sua qualità di lavoratore, cioè come venditore di forza lavoro, ma come possessore di danaro, cioè come borghese" 13. Legato in tal modo il programma e la tattica del partito alla concreta situazione del paese e concepita la rivoluzione non come processo di lettura violenta ma come risultante del riformi- smo gradualistico, "ormai per il proletariato, divenuto classe militante, il problema fu uno solo: acquistare ogni giorno maggiori capacità intellettuali, amministrative e politiche e una più effet- tiva partecipazione ai problemi dello Stato, affrettando e imponendo il suo marchio a quella ri- forme che ne elevino il tenore di vita e ne temperino meglio le forze per la lotta di classe, pene- trando di sé e del suo pensiero tutti quanti i tessuti dell'organismo sociale; preparando e attuando quello stato popolare del lavoro che è il precedente immediato e imprescindibile dell'abolizione delle classi" 14. In queste parole di Turati si può chiaramente vedere quella concezione gradualistica che, con caratteristiche differenti, fu propria anche degli ordinovisti. Se per il riformismo non vi è con- traddizione tra riforme e rivoluzione perché questa, diventa da metodo risultato, non è che la conclusione di momenti di socializzazione sempre più profondi e più ampi, così per il graduali- 12 G. MAMMARELLA, Riformisti..., cit., p. 77 13 F. ENGELS, La questione delle abitazioni, Mongini, Roma 1901, ora Reprint Feltrinelli, p. 13 14 G. MAMMARELLA, Riformisti..., cit., p. 77 smo gramsciano lo Stato politico è il riconoscimento politico dello sviluppo dei rapporti tecnici della produzione: quanto più questi rapporti sono dominati coscientemente dagli operai di fab- brica, di tanto cresce lo Stato operaio: la sua crescita è il suo dissolversi, la sua realizzazione completa è la sua scomparsa. Ma della visione gramsciana si dirà in seguito; occorre seguire le vicende del socialismo italiano. La prima opportunità che il riformismo ebbe di tradurre in pra- tica le sue posizioni teoriche fu il giolittismo. Con esso il metodo riformista, traducendosi in a- zione politica tendente a cogliere tutte le occasioni offerte al proletariato per conquistare van- taggi immediati, ebbe modo di sperimentarsi. Nelle vicende del socialismo italiano assistiamo però alla grottesca rincorsa dei riformisti al liberalismo democratico in cui essi fanno più la parte dei cani che quella della lepre. Si veda il discorso di Giolitti alla Camera dopo i fatti di Genova della fine del 1900, si veda la concessio- ne del suffragio, si veda la composizione della vertenza del settembre 1920. Nei momenti di più acuta tensione il riformismo diede dimostrazione palese di non essere che a rimorchio della bor- ghesia. I vantaggi immediati che il riformismo si attendeva dall'appoggio al governo Zanardelli- Giolitti ci furono, e furono a vantaggio della borghesia. Oltre a vuoto promesse di mantenimen- to delle libertà democratiche, la borghesia non concesse che aumenti salariali, e questo sull'onda dell'eccezionale sviluppo industriale, ma molto pretese. Nessun problema venne risolto, primo fra tutti quello meridionale alla cui, non diciamo soluzioni, ma analisi stessa, ben pochi sforzi il partito aveva dedicato, nessun problema ad eccezione di quello fiscale che, anzi, venne doppia- mente risolto e con il suo abbandono dopo l'opposizione incontrata alla camera dal progetto di riforma e con la votazione, disertata da socialisti, sui crediti di guerra 15. Altra collusione del riformismo col liberalesimo democratico sta a dimostrare l'abbandono completo della visione marxista dello Stato: dal momento che questo è inteso come istituto in sé funzionale che occorre solamente conquistare con opera graduale, ciò che minaccia la macchina statale in qualcuno dei suoi molteplici apparati deve essere condannato: il primo esperimento collaborazionista era già terminato ma gli scioperi nel pubblico servizio furono ancora condan- nati dal Turati nel 1905 e nel 1907 trovando larghi consensi nel partito e nella organizzazione sindacale. A queste operazioni e patteggiamenti si andava opponendo, a partire dagli inizi del secolo fi- no ad acquistare vigore e asprezza negli anni 1902-1904, la corrente sindacalista rivoluzionaria. Fu questa, nel primo decennio del secolo, l'unica delle correnti formatesi all'interno del partito che si contrapponesse al riformismo con una certa serietà critica e con una visione organica del- la lotta di classe anche se si riduceva in fondo, da un lato a una riedizione delle teorie anarchi- che già apparse nel movimento operaio, e dall'altro a una diversa formulazione gradualistica del processo rivoluzionario che non la distingueva che fenomenicamente dalla tattica riformista. Il sindacalismo rivoluzionario, scaturito dal movimento revisionista di fine Ottocento – inizi Novecento, di queste gradualismo è il completamento e il ripensamento critico? Alla degenera- zione del socialismo corrottosi con la pratica democratica che allo spirito rivoluzionario ha con- trapposto tendenze riformistiche prive di slancio e inficiate dal compromesso oppone un preteso ritorno a Marx per quanto di distruttivo è insito nella sua teoria rivoluzionaria ma in realtà si ri- duce a un capovolgimento di questa teoria rifondando una metafisica del movimento di deriva- zione bergsoniana che è l'esatto contraltare della pratica riformistica gradualista. 15 Sono 80 anni che assistiamo alla pantomima sul problema fiscale, in questo gioco delle parti sono solo cambiati gli attori. Sugli armamenti l'invarianza opportunista ebbe modo di manifestarsi alcuni mesi orsono. Sorel, che di questa "nuova scuola" – tale egli la definisce 16 – è il maggior rappresentante, partendo nella sua critica al revisionismo dai concetti di forza e di violenza, intende supplire alla pretesa deficienza di Marx per quanto riguarda l'organizzazione del proletariato con l'edificare una teoria che, all'opposto del revisionismo, non faccia "deviare il marxismo dalla sua vera na- tura" 17 poco importando "i numerosi testi" che si possono ad essa contrapporre perché ciò che si deve salvare non è la lettera ma lo spirito di Marx. I custodi della ortodossia marxista, dice So- rel, in luogo di considerare la differenza che esiste "tra la forza, che si muove verso l'autorità, e cerca di realizzare un'obbedienza automatica, e la violenza che vuole spezzare questa autorità" 18 hanno edificato una teoria dello Stato al quale spetta il compito di rovesciare il capitalismo allo stesso modo in cui le rivoluzioni precedenti hanno rovesciato le antiche economie. La critica di Sorel alla concezione riformista non è tanto rivolta alla pratica parlamentare quanto alla concezione stessa della necessità dello Stato al fine di distruggere il capitalismo. Allo sciopero generale politico egli contrappone lo sciopero generale sindacalistico, com- pendio di tutto il socialismo proletario: "non solo vi si trovano tutti gli elementi reali, ma questi sono anche raggruppati allo stesso modo che nelle lotte sociali, e i loro movimenti sono ben quelli, che corrispondono alla propria essenza"19. "Il socialismo è necessariamente cosa oscuris- sima, sia perché tratta della produzione (…); sia perché si propone di trasformare radicalmente questa regione" 20. Non sono possibili programmi per l'avvenire, sia perché sono già "realizzati nell'opificio" – e la continuità tecnologica dal capitalismo al comunismo è data –, sia perché nessun sforzo di pensiero potrà far sparire il velo di mistero che avvolge il socialismo. I positi- visti sono stati sconfitti nella loro mediocrità e pedanteria e, di contro alla "piccola scienza"; la metafisica, risvegliatesi in Bergson piena di vita, ha riconquistato il terreno perduto. Il socialismo è per Sorel esattamente concepibile nella rappresentazione del movimento pro- letario attraverso lo sciopero generale e lo è, per mezzo di esso, non negli equivoci dei sapienti ma nella sua sola interpretazione possibile, attraverso il mito, compendio del socialismo nella sua interezza. Le "Costruzioni di un avvenire" che diano un aspetto di realtà alle speranze future su cui poggia la riforma della volontà, rappresentanti le tendenze precipue di un popolo o di una classe, assumono il carattere di mito. Ora ciò che importa non sono tanto le singole parti quanto l'insieme del mito, i cui germi di vita vengono da queste singole parti rischiarati. Depositari di questo mito sono i proletari che partecipano attivamente al movimento rivoluzionario; poco im- porta che si ingannino su una quantità enorme di questioni, vuoi politiche, vuoi economiche o morali; occorre piuttosto sapere "quali siano le rappresentazioni, che con la maggiore efficacia agiscono su di loro e i loro compagni"; ivi "la loro testimonianza è decisiva, sovrana, assolu- ta"21. Attraverso il mito si ottiene quella intuizione del socialismo come "insieme percepito i- stantaneamente" che non era altrimenti percepibile. Perciò "l'intuizione, ossia l'istinto divenuto disinteressato, cosciente di sé, capace di riflettere sul proprio oggetto, di allargarne indefiniti- 16 Si noti come una delle costanti della invarianza opportunista in tutte le sue manifestazioni sia anche quella pretesa di essere aggiornatori e scopritori di fatti scoperti e già superati dalla critica. Il signor Prou- dhon, scopritore del valore sintetico e costituito, poggiò su tale scoperta una "teoria rivoluzionaria dell'avvenire" allorquando la scuola classica aveva scientificamente esposto come teoria della società borghese ciò su cui egli pretese fondare la società avvenire. Allo stesso modo, al di là delle manifestazioni violente che il sindacalismo assunse – e del resto non è la violenza in quanto tale che determina l'essere o no un movimento rivoluzionario – non si ridusse, questo sindacalismo, che ad idealizzare ed eternizzare il proletariato in quanto classe per il capitale. 17 G. SOREL, Considerazioni sulla violenza. Laterza, Bari 1970 p. 241 18 Ibidem, p. 241 19 Ibidem, p. 219 20 Ibidem, p. 208 21 Ibidem, p. 138
Description: