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Il Natale degli alpini-invasione dei fascisti in Russia e loro disfatta Don armata rossa osprey. PDF

103 Pages·2003·0.469 MB·Italian
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Giulio Bedeschi. Il Natale degli alpini. Copyright 2003 Gruppo Ugo Mursia Editore S. p.A., Milano. «Trincee di neve scavate nella neve, e in esse i miei alpini della Julia nella ghiacciaia, a tenere la linea. I russi avevano santificato il Natale venendo all'attacco per sei o sette volte...» E" la voce potente, drammatica, intensa di Giulio Bedeschi che, attraverso gli scritti ritrovati nel suo archivio, racconta la tragedia della guerra, del fronte russo, della ritirata. In questo libro sono raccolti gli articoli pubblicati negli anni Settanta e Ottanta, racconti inediti e lettere nei quali Bedeschi testimonia la sua esperienza di guerra, la fatica di restare «uomini» nel gelo dei «quaranta sottozero», tra patimenti indicibili e dolori senza fine. Queste pagine sono il testamento morale di un uomo che amava definirsi «alpino, medico e scrittore». Sono pagine che parlano alle generazioni di ieri e di oggi e testimoniano il valore della pace, della dignità dell'essere uomo, della solidarietà, del coraggio. Giulio Bedeschi, alpino, medico e scrittore, nasce ad Arzignano, in provincia di Vicenza il 31 gennaio 1915. Nel 1940 ottiene l'abilitazione alla professione medica e frequenta la Scuola Allievi Ufficiali presso la Scuola Militare di Sanità a Firenze. Ufficiale medico andò volontario prima sul fronte grecoalbanese, poi, nel 1942, venne trasferito sul fronte russo dove, con gli alpini della Julia, visse la tragedia della ritirata che raccontò nel suo capolavoro «Centomila gavette di ghiaccio» (Mursia, 1963). Nel 1966 pubblica «Il peso dello zaino», ideale continuazione delle «Gavette», nel quale racconta le vicende dei reduci dalla Russia dopo l'8 settembre 1943. Nel 1972 da alle stampe due nuovi titoli: «La rivolta di Abele» e «La mia erba è sul Don». Negli anni Settanta e Ottanta cura per Mursia la serie «C'ero anch'io», monumentale raccolta di testimonianze di coloro che combatterono sui fronti della Seconda Guerra Mondiale. Nel settembre del 1990 torna in Veneto, a Verona, dove morirà nel dicembre dello stesso anno. Presentazione Dalla pubblicazione di Centomila gavette di ghiaccio, 1963, sono trascorsi quarant'anni. E" stato forse il maggior successo editoriale del dopoguerra, con innumerevoli ristampe e milioni di copie vendute. Ma per mio marito non era questo, o solo questo, il maggior motivo di soddisfazione. Al di là delle reazioni comuni a ogni scrittore, che soffrirebbe nel veder ignorata la propria opera, Giulio Bedeschi capiva che l'interesse popolare aveva due profonde motivazioni. La prima, conoscere nei dettagli più aspri, ma sempre veritieri, la tragedia di una guerra combattuta con valore, e spesso con eroismo, da quelle divisioni alpine che il regime di allora aveva colpevolmente mandato allo sbaraglio. La seconda - ma certo non secondaria - raccogliere un messaggio di pace che nelle Gavette acquistava crescente sostanza, si può dire, pagina dopo pagina. Nel suo realismo, Giulio non si illudeva. Aveva piena coscienza che i grandi della terra non si lasciano scuotere da un libro, quale che sia la sua eco pubblica. Ma sapeva pure che la goccia scava la pietra più dura. Se milioni di lettori condividono quel modo di sentire, e altri milioni o miliardi di persone lo fanno proprio, qualcosa presto o tardi comincerà a muoversi anche nelle stanze dei potenti. Così oggi, se fosse ancora vivo, Giulio Bedeschi vedrebbe nei moniti rivolti ai governi da papa Wojtyla, da Madre Teresa e da tanti altri che ne seguono la lezione, il coronamento della sua ispirazione letteraria. E" vero che si combattono ancora guerre cruente, qui per volontà aggressiva, là per legittima difesa. Ma al tempo stesso sale con nuovo vigore il numero di quanti invocano una pacificazione degli animi. Tante gocce, alla fine, possono diventare un inarrestabile oceano. E" per queste ragioni, e per rispondere all'implicita richiesta di lettori tuttora affezionatissimi, che io e l'editore Mursia abbiamo deciso di dar voce ancora una volta a Giulio Bedeschi con questa raccolta di racconti e articoli scritti durante trent'anni negli intervalli fra i grandi romanzi e la fortunata serie del C'ero anch'io: una testimonianza in prima persona, codesta, nata dall'esperienza diretta dei combattenti sui vari fronti (compreso, e spesso non meno dolente, il fronte interno: ossia le famiglie schiacciate dai bombardamenti e dalla fame mentre i propri cari in divisa rischiavano la vita, o la sacrificavano, in lande remote). In questa opera, solo apparentemente frammentaria, ma in verità unita da una sofferenza che ne costituisce il filo conduttore, il lettore ritroverà - e spero comprenderà - quel bagaglio di pena ma anche di solidarietà umana che Giulio ha portato con sé fino al giorno della sua scomparsa. Quante volte gli ho sentito dire che ogni mattina ringraziava il Signore per essere vivo. Si considerava un sopravvissuto. «Davanti a me - diceva - è morto un altro giovane donandomi la vita.» E di tanti altri era stato lui a salvare la vita, o a chiudere gli occhi dopo inutili tentativi, senza più medicine, nei quaranta gradi sotto zero della ritirata di Russia. Provava addirittura un senso di colpa, un po'"come quegli ebrei che, salvatisi dai lager, si sentivano chiedere perché mai anch'essi non fossero morti. In realtà, chi non c'era non potrà mai capire. Come i suoi soldati, anche Giulio era allora poco più che un ragazzo, un tenentino medico di venticinque anni. Devo poi aggiungere che, se proprio non si sentiva costretto dalle mie domande, non parlava volentieri di quei patimenti. Non aveva nessuna di quelle caratteristiche che rendono insopportabile il Reduce con la maiuscola o, peggio, il Miles Gloriosus che vanta le proprie gesta. Assomigliava in questo a un altro grande italiano, Primo Levi, tuttavia con una differenza. In Levi il ricordo finì col condurre a una scelta disperata. In mio marito, invece, non si spense mai la fiducia nell'uomo. Pur senza anticipare nulla di queste pagine, inviterei il lettore a soffermarsi sull'episodio del catino. Giulio ne accenna sommariamente in un articolo, e diviene esplicito in un racconto. Una contadina russa, che lo vede sfinito e sporco, gli porta un catino colmo di acqua calda, un lusso dimenticato da mesi. Lavandosi le mani, Giulio nota che fra i grumi di terriccio si sfilacciano dei rivoli rossastri. Poteva essere una tentazione metaforica, il sangue della nostra gente spedita al macello. Ma era sangue vero, rimasto fra le dita e sul palmo delle mani: il sangue delle ferite che Giulio aveva curato e tamponato ai suoi alpini durante la lunga marcia dalla Russia all'Italia. In un articolo su Madre Teresa, Giorgio Montefoschi ha scritto, con felicissima espressione, che la suora santa aveva «mani da falegname», segnate dalla fatica quotidiana. Ecco: così dovevano essere in quei giorni le mani di Giulio Bedeschi, segnate da un non meno nobile e generoso sacrificio. Un'ultima annotazione. Il lettore vedrà che alcuni racconti sono scritti in prima persona. In uno il protagonista è, come nelle Gavette, il tenente Italo Serri. Non so quante volte, nei raduni alpini, i reduci e le nuove leve chiedevano se Serri fosse lui. Giulio si limitava a rispondere che in quella figura letteraria si riassumevano esperienze sue e di altri. Per taluni versi era vero. Ma a rispondere, oggi, posso essere io. A parte che in quel romanzo nulla era stato inventato, ogni situazione corrispondendo a episodi effettivamente vissuti, in quasi ogni pagina il nome Serri poteva essere veridicamente sostituito dal nome Bedeschi. Era diretta a mio marito la rampogna di quel ferroviere italiano che accogliendolo al confine, e viste quelle divise luride e stracciate, gli urlò - è l'ultima frase delle Gavette - che lui e i suoi compagni «facevano schifo». Altri tempi, altra mentalità? Speriamo. Dico solo che specie in questi racconti le mani da falegname, intrise del sangue degli alpini, sono le sue, di Giulio Bedeschi. Luisa Bedeschi Nota dell'Editore Nel raccogliere questi scritti abbiamo scelto di costruire un percorso narrativo che consentisse al lettore di seguire le vicende della vita dello scrittore, l'arruolamento volontario, la guerra, la ritirata e infine il ritorno in Italia, così come lui, in momenti diversi, le ha raccontate. E l'unica licenza che l'Editore si è concesso, per il resto abbiamo mantenuto la versione originale di ogni scritto senza modificare alcunché. In alcuni testi manca il titolo perché Bedeschi non l'ha indicato. Nel caso di articoli pubblicati abbiamo riportato solo la testata alla quale erano destinati e la data di stesura così come si può leggere nell'originale. In questa raccolta il lettore troverà scritti che Bedeschi ha redatto per testate giornalistiche, racconti inediti e la prima stesura di alcuni brani che poi avrebbe inserito nelle Gavette o ne Il peso dello zaino, il romanzo successivo. Niente è stato modificato. Solo in un caso, quello della lettera a «Panorama», abbiamo sentito il bisogno di spiegare al lettore il contesto e i motivi che spinsero Bedeschi a scriverla. In queste pagine il lettore troverà solo la voce dell'autore di Centomila gavette di ghiaccio e il suo inconfondibile, unico, stile di narratore. L'Autore Giulio Bedeschi nasce ad Arzignano, in provincia di Vicenza il 31 gennaio 1915. E" il primogenito di Elisa Belli ed Edoardo Bedeschi, direttore didattico delle scuole elementari. A Vicenza frequenta le scuole del Patronato «Leone XIII» e il liceo classico «Antonio Pigafetta» insieme a quelli che saranno amici per la vita, Gianni Pieropan, Mariano Rumor e Renato Cevese. Il padre viene trasferito in diverse sedi di lavoro, prima a Venezia e poi a Forlì. Giulio, che aveva iniziato gli studi a Padova, si laurea in Medicina all'Ateneo bolognese. Nel 1940 ottiene l'abilitazione alla professione e termina la Scuola Allievi Ufficiali presso la Scuola Militare di Sanità di Firenze. Sottotenente dell'esercito, è chiamato a far parte di una commissione medica incaricata di esaminare i giovani soldati in partenza per il fronte. Si arruola come volontario e poco dopo parte per il fronte grecoalbanese. Dall'estate del 1942 viene trasferito sul fronte russo dove resterà fino al momento della ritirata. Tornato in Italia, già nel 1945, comincia la stesura di Centomila gavette di ghiaccio, nel quale, attraverso il suo alter ego letterario Italo Serri, racconta l'odissea degli alpini sul fronte russo. Termina di scrivere la sua opera nel 1946, ma ci vollero più di diciassette anni per veder pubblicato il suo romanzo rifiutato da molti editori. Ugo Mursia lo manda in stampa nel 1963 e il successo è immediato e travolgente. Nel 1964 il libro vince il Premio Bancarella. Da quel momento Bedeschi divide la sua vita tra l'impegno letterario e giornalistico (collabora tra l'altro a «Gente», «L'Europeo», «Storia Illustrata») e la professione di medico reumatologo, prima a Brescia, la città nella quale viveva e dove si era sposato nel 1955 con Luisa Vecchiato e poi, dal 1960, a Milano dove fonda e dirige il Centro Polispecialistico Reumatologico. Nel 1966 pubblica Il peso dello zaino, ideale continuazione delle Gavette, che racconta le vicende in terra italiana della «Tredici», la batteria del Gruppo Conegliano nella quale Bedeschi fu arruolato e combattè. Nel 1972 da alle stampe due nuovi titoli: La rivolta di Abele e La mia erba è sul Don. Negli anni Settanta e Ottanta cura per Mursia la serie C'ero anch'io, monumentale raccolta di testimonianze (dieci volumi) di coloro che combatterono sui fronti della Seconda guerra mondiale. Nel settembre del 1990 torna in Veneto, a Verona, dove morirà nel dicembre dello stesso anno. Contro la guerra Il 7 marzo 1974 il settimanale «Panorama» pubblicò con il titolo Il sergente in pensione un'intervista a Mario Rigoni Stern che a una domanda su Centomila gavette di ghiaccio e sul suo autore rispose: «Il libro di Bedeschi ha avuto un grande successo, credo perché tocca certe corde sentimentali dure a morire, la patria, la famiglia, l'onore, la penna nera, l'obbedienza cieca, pronta, assoluta come ce la insegnavano quando eravamo balilla o avanguardisti... (...). La storia, e in particolare la ritirata di Russia, non è riuscita a far capire all'autore delle Gavette la criminale assurdità della guerra...». Fu una delle poche volte in cui Bedeschi, che non era solito intervenire in polemiche, ritenne necessario scrivere al direttore del giornale. Questo è il testo integrale della lettera di Bedeschi che «Panorama», il 30 maggio 1974, pubblicò fino alla frase: «Nessun italiano, per quanto io sappia apprezzare, è giunto a farmi così alta lode». La parte finale della lettera, rimasta finora inedita, rappresenta il testamento morale di Giulio Bedeschi e la testimonianza del suo impegno di uomo e di scrittore contro ogni forma di violenza. Per questo abbiamo deciso di pubblicarla. Egregio Direttore, Le sarò grato se vorrà cortesemente fare spazio nella rivista da Lei diretta, alla seguente mia puntualizzazione: - Ho letto, nel numero di «Panorama» del 7 marzo '74, l'intervista con Mario Rigoni Stern e, in essa, l'intera colonna di cui siamo esclusivo argomento io e il mio libro Centomila gavette di ghiaccio. Sorvolando, per brevità, su ogni altra considerazione, non posso però fare a meno di intervenire a proposito del seguente giudizio di Rigoni, qui testualmente trascritto: «La storia, e in particolare la ritirata di Russia, non è riuscita a far capire all'autore delle Gavette la criminale assurdità della guerra. Delle guerre in generale, e di quella in modo particolare». Una tale valutazione, così perentoria e definitiva, in totale contraddizione con quanto in undici anni è stato pubblicato, dalla stampa e dalla critica, e soprattutto è stato percepito dai lettori, sui significati e i contenuti dei miei libri, non è da me accettabile senza che io esprima il profondo rammarico di non essere stato inteso da Rigoni, mentre da anni ricevo in continuazione attestazioni di completa solidarietà proprio su come mi è riuscito di esprimere l'intento che Rigoni mi nega: la condanna e l'induzione di orrore verso la guerra. Certo, per dare vigore a questa condanna, non ho insistito sull'espediente tecnico di far dialogare i personaggi - soldati e ufficiali italiani in Albania e in Russia - ponendo sulle loro labbra le scontate imprecazioni e maledizioni sulla guerra e su chi l'aveva voluta; ho preferito che dalla narrazione delle vicende, esposte senza mio commento, e dall'analisi della sofferenza, inaudita ma non gridata, dei soldati che tali vicende rivivevano in qualità di personaggi del libro, fosse il lettore a maturare, attraverso il suo ripensamento e il suo sentire, la più radicata ripulsa verso la guerra, verso tutte le guerre e i loro responsabili. Ho cercato di fare spazio al linguaggio dei fatti, al muto orrore dell'esperienza che insegna molte cose mentre gli eventi accadono, piuttosto che sospingere alla ribalta vociferazioni e proteste legittime e comprensibili più che si vuole, ma di per se stesse già secondario commento all'azione, e non azione primaria nell'economia generale del testo. Quando la protesta non era soltanto parola ma si configurava come fatto, non ho mancato di registrarla e inserirla nel mio libro; una sola citazione fra le tante che potrei fare in questa direzione: l'episodio del comandante di reggimento che spedisce una lettera dalla Russia a Roma a un altissimo personaggio (era il Presidente del Senato) anche a costo di giocarsi la carriera (e infatti gliela stroncarono); lettera nella quale scrive (testuale, pag. 148 del libro): «Finché è ancora possibile prendere adeguati provvedimenti io affermo e denuncio che, non so se per ambizioni o incompetenze di comandanti o per altre ragioni, si sta addivenendo a una determinazione d'impiego delle truppe alpine che non esito a definire bestiale e delittuosa». Non ho insistito nel pianificare accuse su accuse, stratificandole pagina per pagina; altri lo avevano già fatto in decine di libri sull'argomento «Campagna di Russia», quando nel '63 il mio libro uscì. A me interessava operare sul piano più generale d'uno studio dell'uomo posto in condizioni pressoché disumane; e la guerra sotto questo aspetto mi è servita come mezzo per guardare più a fondo, perché spinto allo scoperto, nell'animo dell'uomo; e trarne le conseguenze, per quanto mi risultava. E me ne è venuto fuori, nel quadro diabolico della guerra, il particolare dell'uomo che riesce a salvare a enorme prezzo il residuo della propria dignità individuale. Questo è stato il mio vero intento; che è stato inteso e valutato in una misura che mi compensa assai largamente dal mancato apprezzamento di Rigoni. E" significativo che sia stato inteso perfino da molti stranieri, diciamo ad esempio da Robert Laffont, editore francese di statura almeno europea, che nel presentare ai lettori di lingua francese la mia storia dei tanto vituperati soldatini italiani nella seconda guerra mondiale pubblicò questa frase di compendio: «Cent mille gamelles de giace est plus qù un grand livre de guerre: c'est un exaltant témoignage sur l'honneur d'ètre homme». Nessun italiano, per quanto io sappia apprezzare, è giunto a farmi così alta lode; tanto più che essa è indivisibile (cosa infinitamente più importante) dalla figura morale del soldato italiano, per come ha patito e si è comportato

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