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I Longobardi PDF

60 Pages·2015·0.763 MB·Italian
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Il periodo longobardo (VI-XI secolo) è un momento assai significativo della storia d’Italia. Oltre ad aver segnato la prima frammentazione politica della penisola dopo i secoli di unità garantiti da Roma, la presenza longobarda nel centro-nord della penisola e successivamente nei principati meridionali ha lasciato tracce importanti in diversi ambiti, anche sul piano della percezione identitaria di singole regioni. Il volume presenta la storia dei longobardi in una nuova sintesi aggiornata. Claudio Azzara insegna Storia medievale nell’Università di Salerno. Con il Mulino ha pubblicato anche "Le invasioni barbariche" (2012, ed. III), "L’Italia dei barbari" (2002), "Le civiltà del Medioevo" (2013, ed. II), "Il papato nel Medioevo" (2007), "La Chiesa nel Medioevo" (con A.M. Rapetti, 2009) e "Teoderico" (2013). Claudio Azzara I longobardi Copyright © by Società editrice il Mulino, Bologna. Tutti i diritti sono riservati. Per altre informazioni si veda http://www.mulino.it/ebook Edizione a stampa 2015 ISBN 978-88-15-25989-9 Edizione e-book 2015, realizzata dal Mulino - Bologna ISBN 978-88-15-32790-1 Indice Capitolo primo La nascita della stirpe Capitolo secondo Dalla Scandinavia alla Pannonia Capitolo terzo L’invasione dell’Italia Capitolo quarto Forme d’insediamento e organizzazione del territorio Capitolo quinto La costruzione del regno Capitolo sesto L’VIII secolo: apogeo e rovina Capitolo settimo Il ducato di Spoleto Capitolo ottavo La «Langobardia» meridionale Capitolo nono I longobardi nella storia d’Italia Letture consigliate Indice dei nomi alla memoria di mio padre Gianni e per i miei figli Massimo e Valerio Capitolo primo La nascita della stirpe La nascita della stirpe dei longobardi, come quella di tutte le tribù barbare dell’epoca antica e altomedievale, è avvolta nelle nebbie di un passato remoto sul quale non esistono sufficienti fonti storiche che siano in grado di far luce in misura adeguata. La cultura dei barbari era orale e quindi dall’interno di quel mondo non sono giunte a noi, perché non furono prodotte, testimonianze scritte se non in età tarda, dopo l’acculturazione delle diverse etnie a contatto con la civiltà romano-cristiana. Dal canto loro, gli autori romani trascurarono quelle genti finché esse non entrarono in contatto con l’impero e comunque non furono in genere interessati a fornirne precise e particolareggiate descrizioni e a raccontarne la storia. La genesi delle varie tribù barbare è dunque taciuta o, in alcuni casi, ricostruita a posteriori in maniera approssimativa quando non addirittura fantastica. Tuttavia per i longobardi disponiamo di una fonte scarna ma particolarmente preziosa al riguardo, un breve testo noto come Origo gentis Langobardorum, presente in tre codici manoscritti che contengono l’Editto delle leggi dei longobardi. Si tratta della redazione scritta, in versione latina, databile alla seconda metà del VII secolo, dell’ancestrale saga dei longobardi, fino allora trasmessa per via orale in lingua longobarda, che ripercorreva le vicende della tribù dalla sua stessa genesi e dalla sua prima migrazione in un’epoca e in un territorio che rimangono imprecisati, fino al regno di Pertarito in Italia (671-688). Era questo il racconto delle gesta della gens che da sempre veniva tramandato, di generazione in generazione: accettarlo e riconoscersi in esso significava affermare la propria appartenenza alla stirpe dei longobardi, di cui si accettava di condividere la storia collettiva quale motivo di identificazione del singolo nel gruppo. Il suo inserimento nei codici che riportano le leggi non è certo casuale, giacché, come si dirà anche più avanti, per la cultura giuridica longobarda la norma trovava il proprio fondamento e la propria legittimazione solo nella tradizione della gens, ricollegandosi quindi alla memoria del passato della tribù; e del resto le leggi di Rotari erano precedute anche da una lista dei re suoi predecessori e da una dei suoi antenati familiari, relitti di antiche canzoni, cioè della forma più antica e caratteristica di narrazione storica, attraverso le genealogie, delle stirpi barbare. La versione scritta della saga è relativamente breve, tratta in modo sbrigativo i fatti più vicini nel tempo, soprattutto quelli posteriori all’insediamento in Italia, spesso limitandosi a poco più che un elenco di nomi di re con minime annotazioni sul loro operato, mentre dedica largo spazio al momento della nascita della tribù, su cui si fonda l’identità del gruppo etnico, esposto in forma di mito. Narra, infatti, l’Origo che in epoca imprecisata, in un’isola detta Scadanan (individuata dagli studiosi moderni in via ipotetica con la regione della Svezia meridionale chiamata Scania), vi era una tribù detta dei winnili, retta da due fratelli, Ibor e Aio, insieme con la loro madre Gambara, che venne sfidata da un’altra tribù, quella dei vandali, i quali pretendevano da loro il pagamento di un tributo. Alla vigilia dello scontro entrambi i contendenti si appellarono al dio della guerra Wotan, chiedendone il favore nell’imminente battaglia, e costui rispose che avrebbe accordato il successo a coloro che fossero comparsi per primi alla sua vista al proprio risveglio, la mattina seguente. I winnili chiesero allora l’intercessione di Frea, moglie di Wotan, la quale, per aiutarli, girò il letto del marito in modo tale che costui dormisse con la faccia rivolta al loro schieramento, verso oriente, e che perciò fosse per lui inevitabile scorgerli per primi una volta destatosi. Frea suggerì anche ai winnili di disporre sul campo accanto ai guerrieri le loro donne con i capelli sciolti lungo il volto, a simulare una barba maschile. Quando Wotan si levò vide i winnili e chiese chi fossero quelle «lunghe barbe» (longibarbae); e come promesso diede loro la vittoria in battaglia. Il passo si chiude con l’annotazione che «da quel tempo i winnili sono chiamati longobardi». Molto tempo dopo, il monaco di origine longobarda Paolo Diacono, autore della più completa storia dei longobardi a noi pervenuta (l’Historia Langobardorum), riportava il racconto dell’Origo liquidandolo, da un punto di vista cristiano, come una «ridicola favola», affondante nel biasimevole passato pagano della stirpe. Ciò nonostante, egli stesso non trascurava di riferirla riconoscendone l’importante funzione, svolta per secoli, di vera e propria saga nazionale. Se si prova a decifrare la narrazione dal punto di vista della ricostruzione storica, al netto dei suoi valori più squisitamente letterari e mitologici, si può considerare questo passo iniziale dell’Origo come la traccia, trasfigurata, del processo di etnogenesi di una tribù barbarica, in questo caso quella dei longobardi, secondo dinamiche che dovettero essere in quelle epoche comuni a diverse realtà di analoga natura. La competizione per lo sfruttamento delle poche risorse di un territorio d’insediamento inospitale, nell’estremo nord dell’Europa, condusse allo scontro fra due gentes distinte, come doveva accadere abitualmente tra gruppi umani che vivevano soprattutto di razzie a danno dei vicini. I winnili, trascinati nel conflitto, si affidarono, per averne la protezione, al dio della guerra Wotan, che li adottò dando loro un nuovo nome e segnandoli con il successo; da quell’istante essi divennero una nuova tribù, quella per l’appunto dei longobardi, adoratori di Wotan e caratterizzati da un’acconciatura distintiva, forse rituale, che Paolo Diacono descrive in maniera un po’ più dettagliata. Riferendosi, infatti, alle rappresentazioni pittoriche fatte eseguire, tra la fine del VI e gli inizi del VII secolo, dalla regina Teodolinda nel suo palazzo di Monza (ancora visibili all’epoca di Paolo e oggi scomparse, con tutto l’edificio che le conteneva), Diacono precisava che ai tempi remoti cui le pitture rinviavano, quelli evocati dalla saga, i longobardi portavano un’acconciatura tipica, in seguito abbandonata, con la loro cristianizzazione e romanizzazione culturale, che prevedeva una lunga barba fusa con altrettanto lunghi capelli cascanti a bande sui lati del volto, proprio come si erano pettinate le donne dell’Origo, mentre la nuca rimaneva rasata. Insomma, ciò che la saga lascia trasparire, con tutte le cautele interpretative del caso e le inevitabili oscurità, è che l’etnogenesi dei longobardi avvenne, non si sa quando e con precisione nemmeno dove, nel momento in cui una tribù che fino a quel momento era vissuta in modo relativamente stabile in un dato territorio dovette affrontare una sfida militare che ne mise a repentaglio la stessa esistenza e avviarsi a un destino di reiterati spostamenti e di lotte per la sopravvivenza e la ricerca di risorse da sfruttare in regioni lontane. Migrazioni che l’Origo non manca di registrare subito dopo l’episodio sopra citato, allorquando riferisce che i longobardi si stanziarono dapprima in Golanda, poi ad Anthaib, Bainaib e Burgundaib, tutti toponimi di problematica interpretazione. Indice della nuova vocazione peculiarmente guerriera della tribù sarebbe, come detto, l’adozione del culto del dio della vittoria Wotan, per alcuni studiosi in sostituzione di un precedente culto prevalente di una divinità femminile della fertilità, Frea, che non a caso nella saga dimostra di avere a cuore in modo particolare la sorte dei winnili-longobardi. Wotan è almeno in parte assimilabile allo scandinavo Odino, dio della guerra e condottiero della caccia selvaggia, cioè dell’esercito dei morti, ma anche sapiente che acconsentì a rimanere impiccato per apprendere il significato magico delle rune. Paolo Diacono arricchisce il sintetico racconto dell’Origo annotando tra l’altro che la migrazione dei winnili- longobardi dalla loro sede primitiva, fino allo scontro con i vandali, fu determinata dal sovrappopolamento di quella terra, che costrinse un gruppo di guerrieri tirati a sorte a spostarsi altrove per alleggerire un carico demografico gravante su risorse limitate. Forse si tratta di un semplice topos letterario, ma forse meccanismi del genere dovevano essere messi in pratica per davvero quando un gruppo tribale si accresceva troppo rispetto alle capacità di sostentamento offerte dalla sua sede di stanziamento, per cui gli elementi più giovani e intraprendenti erano spinti a partire e a guadagnarsi di che vivere in altri luoghi. Il riferimento a un comando doppio, quello di Ibor e Aio, non deve sorprendere, poiché l’indicazione di due capi è frequente presso le stirpi barbare dei tempi più antichi (in questo stesso racconto i vandali sono guidati dai duchi Ambri e Assi, gli anglosassoni che in epoca storica invasero l’Inghilterra secondo la tradizione avevano alla loro guida Hengst e Horst): forse tale duplicità è il relitto della copresenza nelle strutture politiche più remote delle gentes di un capo per i tempi di pace, garante del diritto e sacerdote, e di uno per la guerra, con funzioni di comandante militare. Capitolo secondo Dalla Scandinavia alla Pannonia Come si diceva, tempi e luoghi dei primi spostamenti dei winnili-longobardi dopo la loro partenza da Scadanan restano imprecisabili, per la vaghezza delle notizie offerte dalle fonti scritte e per l’assenza di riscontri archeologici. Si può solo procedere per ipotesi. Integrando i toponimi suggeriti dall’Origo con quelli in parte diversi riportati da Paolo Diacono, si può pensare che, se davvero il luogo di partenza fu la Scania, un primo stanziamento della tribù debba aver avuto luogo nell’isola di Rügen, che si trova di fronte alla Scania e che potrebbe corrispondere alla Scoringa (all’incirca, il «paese degli scogli») citata da Paolo. Probabilmente fu qui che avvenne lo scontro con i vandali, attorno al I secolo a.C. e la riconfigurazione del gruppo tribale con l’adozione del nuovo nome e del nuovo culto wotanico. Anni dopo (ma è impossibile stabilire quanti), i longobardi si spostarono a Mauringa, «la terra delle paludi», forse corrispondente alla regione dei laghi del Meclemburgo occidentale, dopo aver forzato lo sbarramento opposto dagli assipitti. Nell’occasione le fonti fanno riferimento una prima volta a un aspetto che si ripeterà anche in seguito (e che era presente già nel mito delle origini), cioè allo scarso numero dei longobardi, condizione che li metteva in difficoltà di fronte a tribù nemiche di maggiori dimensioni. Secondo l’Origo contro i vandali, come s’è detto, a ciò si era posto rimedio camuffando le donne da uomini; ora racconta Paolo Diacono che gli assipitti furono ingannati (e atterriti) facendo loro credere che tra i longobardi vi fossero dei cinocefali, cioè degli uomini con la testa di cane spietati in battaglia e dalla ferocia ferina, tanto da abbeverarsi del sangue dei nemici. È da notare che l’esistenza di guerrieri del genere è tutt’altro che implausibile: nelle società scandinave, per esempio, sono ampiamente documentati i cosiddetti guerrieri-orso (berserkir). Si doveva trattare di combattenti scelti, di particolare abilità, forza e coraggio, i quali adottando un animale totemico, delle cui pelli forse si ricoprivano, e probabilmente con l’aiuto di droghe, finivano per identificarsi con esso nella lotta, moltiplicando la propria carica aggressiva, gettando nel panico gli avversari e magari sopportando meglio anche i colpi subiti. Si noti che il cane-lupo è un animale legato proprio alla figura di Wotan. Accanto a simili stratagemmi, un espediente che le fonti testimoniano cui i longobardi fecero ricorso per accrescere i propri effettivi fu la liberazione degli schiavi, che una volta resi uomini liberi potevano portare le armi e combattere. Inoltre, è assodato che tutte le stirpi barbare, sempre allo scopo di poter contare su un esercito sufficientemente nutrito, quando sconfiggevano una tribù nemica offrivano ai superstiti di questa di unirsi a loro, inglobandoli nelle proprie fila. In diversi casi si ha notizia anche di fusioni o leghe tra tribù differenti fino a formare una nuova realtà di maggiori dimensioni. Le gentes barbare erano insomma gruppi demici mutevoli, continuamente rimpolpati da elementi allogeni e perciò eterogenei e cangianti nella loro struttura; a garantire un’identità unitaria nonostante i mutamenti era la condivisione di alcuni valori caratterizzanti ciascuna etnia, a cominciare (come s’è detto per i longobardi) dalla saga cioè dalla storia della stirpe, custoditi nel cosiddetto «nucleo di tradizione», depositario dei principi identitari del gruppo. Oltre a ciò, ci pare che vada considerato più di quanto non si sia soliti fare anche l’aspetto militare: vale a dire che, per gruppi umani che si percepivano come un popolo-esercito, doveva fungere da importante strumento di coesione collettiva e da mezzo di integrazione degli individui di volta in volta aggregati l’impegno a combattere assieme agli ordini di un unico capo, condividendo rischi e profitti della guerra con i propri commilitoni. Insomma, forse una ragione per cui ci si sentiva longobardi era perché si militava nell’esercito-popolo dei longobardi. Lasciata Mauringa, i longobardi si trasferirono quindi in Golanda, verosimilmente la brughiera di Luneburgo, dove per la prima volta alcune emergenze archeologiche confermano quanto asserito dalle fonti scritte. Nella regione del Bardengau, lungo l’Elba, sono state infatti ritrovate numerose sepolture individuabili come longobarde. Qui i longobardi sembrano aver avuto un’economia basata sull’agricoltura e sull’allevamento, oltre che sulla lavorazione dei metalli e della ceramica, ma soprattutto sulla guerra di razzia. Negli anni immediatamente posteriori alla nascita di Cristo la tribù dei longobardi entrò in contatto con i romani attirando l’attenzione di scrittori latini, quali Tacito e Velleio Patercolo, che prima li ignoravano. Nel 5 d.C. Tiberio si scontrò con loro ricacciandoli sulla riva destra dell’Elba; in seguito i longobardi ebbero un ruolo non secondario nelle leghe germaniche guidate da Maroboduo e Arminio e si fecero notare per la loro intraprendenza, per la forza militare e per l’egemonia che riuscivano a esercitare su altre stirpi malgrado fossero scarsi di numero. Molto tempo dopo, nel 167, si sa che un esercito di longobardi, di obi e di altre genti si spinse verso la Pannonia venendo sbaragliato dai romani e risospinto indietro. Salvo questi occasionali cenni, le fonti romane prestano poca attenzione ai longobardi perché questi vivevano lontani dal limes renano e quindi avevano con Roma una scarsa frequentazione, né costituivano per essa un pericolo immediato. Già Velleio Patercolo si dimostrava colpito dalla loro selvaggia rozzezza e dalla loro ferocia, maggiori di quelle riscontrabili in altre tribù barbare, e questo cliché ritornerà nel momento della loro invasione dell’Italia molti secoli più tardi. Le successive tappe (forse alla fine del secolo IV) della lunga migrazione dei longobardi dall’estremo nord d’Europa verso meridione, fino ad arrivare in Italia, furono quelle che, come detto, la saga riprodotta dall’Origo chiama Anthaib, Bainaib e Burgundaib, paesi che rimangono sostanzialmente sconosciuti. Le tracce archeologiche disseminate nel cuore del continente e la consapevolezza che alla fine del V secolo costoro si stabilirono nella Bassa Austria fanno supporre che almeno Bainaib e Burgundaib possano essere intesi come i territori dei baini e dei burgundi, lungo una direttrice che dall’Elba scendeva a sud-est, attraverso la Boemia. Le ragioni del nuovo spostamento possono esser ricercate sia nella crescente pressione dei sassoni nella zona dell’Elba sia nelle prospettive di bottino in territorio romano aumentate dopo la disfatta dell’esercito imperiale che si era verificata nel 378 ad Adrianopoli. La tradizione tramanda la memoria di duri scontri con gli unni, allora la forza egemone nell’area, con risultati alterni. Nel 487 crollò l’importante regno dei rugi nella Bassa Austria per opera di Odoacre, che una decina d’anni prima aveva deposto l’imperatore d’Occidente Romolo impadronendosi dell’Italia. Molti abitanti del bacino danubiano furono trasferiti a sud delle Alpi, lasciando un vuoto di cui approfittarono subito i longobardi: guidati dal re Godeoc, essi mossero dalla Boemia e dalla Moravia e conquistarono le terre dei rugi per restarvi però solo per pochi anni, prima di spostarsi, con il nuovo re Tatone, in una regione detta Feld, cioè il Marchfeld a est di Vienna. Qui caddero sotto l’influenza dei potenti eruli, che dovettero imporre loro il pagamento di un tributo; ma i longobardi mossero ben presto guerra agli eruli, sbaragliandoli completamente. Paolo Diacono in un passo di forte elaborazione letteraria rende sia il senso di superiorità degli eruli alla vigilia dello scontro sia la gravità della loro disfatta: mentre infuriava la battaglia il re erulo Rodolfo, sicuro di una facile vittoria, restò a giocare a tavoliere nella sua tenda e solo all’ultimo momento si rese conto del disastro imminente. Egli stesso fu ucciso e i suoi subirono una tale strage che da quel momento non ebbero più alcun peso politico e quasi scomparvero. I longobardi, al contrario, con questo clamoroso successo si fecero padroni di tutta l’area intorno al medio corso del Danubio, aggregarono a sé vasti gruppi di guerrieri di varia provenienza diventando l’esercito più potente della regione e s’impadronirono dell’ingente tesoro degli eruli sconfitti. Durante il successivo regno di Vacone i longobardi sottomisero gli svevi che erano insediati nelle province della Valeria e della Pannonia I (cioè in gran parte dell’odierna Ungheria) e strinsero importanti alleanze con diverse stirpi attraverso la politica matrimoniale del loro monarca, che sposò prima la figlia del re dei turingi, poi quella del re dei gepidi, infine quella del re degli eruli. In questo modo essi si assicurarono rispettivamente la protezione del confine settentrionale del loro dominio, di quello a est, e la possibilità di inglobare nel proprio esercito gli eruli sopravvissuti alla guerra. Infine, Vacone fece sposare due sue figlie con dei principi franchi, alleandosi quindi anche con questa fortissima tribù occidentale, e strinse accordi con Bisanzio. Insomma, durante il quasi trentennale regno di Vacone (all’incirca dal 510 al 540) i longobardi riuscirono a consolidare una grande dominazione che andava dalla Boemia all’Ungheria e che era ben inserita nel quadro geopolitico internazionale. Da notare che il prolungato soggiorno dei longobardi nei territori dell’Europa centrale, danubiana e balcanica, e i conseguenti ripetuti contatti lì avuti sia con stirpi di provenienza orientale colà stanziatesi sia con i bizantini influenzarono non poco la cultura della stirpe. Per esempio, sul piano dei moduli iconografici la tradizionale raffigurazione sugli oggetti di oreficeria di animali stilizzati affrontati si modificò parzialmente per imitare gli intrecci propri della pittura parietale romana (due stili che gli studiosi specialisti distinguono rispettivamente con i nomi di primo e secondo stile animalistico). Da popolazioni delle steppe come gli avari o i sarmati i longobardi ricavarono l’uso funerario delle pertiche, lunghe aste sormontate da uccelli che venivano conficcate nelle aree cimiteriali dai parenti dei guerrieri caduti lontano da casa e il cui corpo non si era potuto recuperare. L’uccello era rivolto in direzione del luogo in cui il guerriero era morto. Infine, aspetto più importante, i longobardi appresero dalle genti nomadi dell’Asia la tecnica del combattimento a cavallo, che divenne loro tipica, a differenza delle stirpi occidentali come i franchi che si battevano a piedi. Nella cultura longobarda il cavallo godette perciò sempre di una particolare considerazione, come si può ricavare tra l’altro dalla tutela accordata a questo animale dalle leggi. Un ulteriore incremento territoriale si ebbe con il successore di Vacone, Audoino, al quale l’imperatore Giustiniano, nello sforzo di ridefinire gli equilibri generali in previsione del crollo del regno dei goti in Italia, concesse la Savia, provincia compresa tra i fiumi Drava e Sava, e la parte orientale del Norico che corrisponde alle odierne Carinzia e Slovenia. Si stima che l’acquisizione di queste regioni da parte di Audoino sia avvenuta verso il 547-548. L’estensione dei possessi longobardi verso la penisola balcanica creò un nuovo stato di tensione con i gepidi, alimentato dall’impero che si preoccupava di mettere le varie tribù barbare le une contro le altre per garantire la propria sicurezza e che in questa circostanza appoggiò i longobardi. Un primo duro scontro ebbe luogo nel 551, con la vittoria longobarda e la morte sul campo di Turismondo, figlio del re dei gepidi Turisindo, per mano di Alboino, figlio di Audoino. L’imperatore stesso si fece mediatore per un accordo di pace che mantenesse l’equilibrio. In cambio del sostegno ricevuto da Costantinopoli nei Balcani i longobardi fornirono all’esercito imperiale impegnato nella campagna risolutiva della guerra contro i goti un contingente stimato in 5.500 effettivi, mentre altri guerrieri longobardi combatterono nelle file bizantine sul fronte persiano. Agli inizi degli anni Settanta del VI secolo Audoino morì, lasciando la carica regia al figlio Alboino. I rapporti con i gepidi, presso i quali Cunimondo era subentrato al potere a Turisindo, tornarono presto a deteriorarsi, anche perché Costantinopoli, rovesciando le alleanze, sosteneva ora i nemici dei longobardi. Dopo un successo militare dei gepidi nel 565, Alboino corse ai ripari stringendo un’alleanza con gli avari, cavalieri provenienti dalle steppe asiatiche che si erano stanziati sul confine orientale del regno gepide e che erano entrati in conflitto anche con l’impero bizantino. Nel 567 longobardi e avari penetrarono con una manovra a tenaglia nel territorio dei gepidi e sbaragliarono il loro esercito in diverse battaglie, mentre Cunimondo stesso cadeva nelle mani di Alboino. In base agli accordi preliminari, il regno dei gepidi fu quasi per intero lasciato agli avari, bastando ai longobardi essersi sbarazzati del pericoloso vicino. Il loro sguardo, a questo punto, era rivolto piuttosto a ovest, verso l’Italia, paese di grandi ricchezze, che i longobardi avevano potuto conoscere partecipando alla guerra contro i goti, e che risultava poco difeso dalle truppe imperiali che pure lo avevano da poco riconquistato. Capitolo terzo L’invasione dell’Italia Nella primavera del 569 (o l’anno precedente secondo altri calcoli) i longobardi fecero irruzione in una penisola italiana che scontava ancora le conseguenze della terribile guerra che per quasi vent’anni, dal 535, aveva opposto l’impero bizantino, retto allora da Giustiniano, al regno dei goti, e che si era chiusa con la disfatta di quest’ultimo. Il lungo conflitto aveva sconvolto molte regioni, soprattutto al centro-sud, con un crollo demografico che si accompagnava allo spopolamento di vaste aree, alla rovina di numerose città e di molte infrastrutture ereditate dall’epoca romano-imperiale (a cominciare dal sistema stradale), alla crisi delle attività economiche e produttive. Inoltre, il reintegro dell’Italia nell’impero, in sostituzione del dominio dei goti, non era stato accolto con favore da tutta la popolazione indigena, che avvertiva i militari e i funzionari imperiali, provenienti dall’oriente, come stranieri (malgrado agissero nel nome di Roma) e che mal tollerava l’opprimente pressione fiscale imposta dalle autorità a un paese dissanguato dagli eventi bellici. La stirpe dei longobardi che valicò le Alpi sotto il comando del re Alboino ammontava a un totale presumibile di 100-150.000 individui, comprese le donne, i minori e altri soggetti non combattenti (vecchi, persone di condizione non libera). Come accadeva di regola in fenomeni migratori di tale portata, al nucleo dei longobardi mossisi dalla Pannonia si erano aggiunti guerrieri di diverse stirpi loro vicine nel bacino danubiano (gepidi, bulgari, sarmati, pannoni, svevi, norici), tutti uniti dal miraggio dei ricchi bottini che si contava di conquistare in Italia. Secondo Paolo Diacono anche i sassoni, tradizionali alleati dei longobardi, fornirono un contingente di ventimila uomini. La decisione di spingersi nella penisola era maturata in ragione delle difficili condizioni in cui i longobardi si trovavano nelle loro sedi pannoniche, dove essi avevano sì travolto poco tempo prima i loro nemici gepidi ma solo per dover far fronte a una nuova realtà ancora più minacciosa, quella degli avari. Le tregue concordate con questi ultimi si erano infatti sempre rivelate precarie. A ciò si aggiungeva, inoltre, l’insoddisfazione dei guerrieri longobardi per gli scarsi guadagni che erano loro derivati dalla guerra con i gepidi, per cui si chiedeva al re di procacciare nuove occasioni di bottino, tramite altre spedizioni. Questo insieme di fattori convinse dunque Alboino e i suoi a muovere alla volta dell’Italia, paese che, nonostante i disastri del conflitto goto-bizantino, restava pur sempre più ricco della Pannonia. Il re si accordò con gli avari lasciando loro i territori pannonici fino allora occupati dai longobardi, ma con la condizione che questi vi avrebbero potuto far ritorno e ristabilirvisi se la spedizione che si stava per intraprendere fosse andata male. Allo stesso tempo, gli avari avrebbero protetto i longobardi alle spalle rispetto a possibili attacchi delle truppe bizantine attraverso i Balcani. Una versione dell’invasione longobarda dell’Italia che prese a circolare da subito, e che è registrata da alcune fonti, voleva che a sollecitarla fosse stato lo stesso comandante bizantino Narsete, il vincitore dei goti, intenzionato a crearsi con l’appoggio dei nuovi venuti un dominio personale in Italia, emancipandosi da Costantinopoli. L’ipotesi rimane indimostrabile, per quanto torni comoda nello spiegare la debole resistenza militare opposta dagli imperiali all’irrompere dei longobardi, il cui esercito in fondo non era molto numeroso, e l’immediata rimozione di Narsete per mano di Giustiniano. Peraltro, quello del tradimento che rende possibile un’invasione rappresenta un topos letterario diffuso al tempo e torna utile per giustificare una sconfitta ingloriosa. Comunque, va ricordato che l’Italia non era certo un paese sconosciuto ai longobardi, molti dei quali vi avevano combattuto come mercenari nell’esercito imperiale contro i goti, distinguendosi, a detta dello storico bizantino Procopio di Cesarea, per la particolare ferocia in battaglia. Per entrare nella penisola Alboino sfruttò il varco nel tratto alpino nordorientale, una scelta naturale per chi proveniva da est e che era stata già ampiamente fatta propria da diversi invasori negli anni del tardo impero, e, per ultimo, dal goto Teoderico. Il re costituì subito un caposaldo a Cividale del Friuli, in modo tale da garantirsi una protezione alle spalle nel caso di un’eventuale ritirata verso la Pannonia. A Cividale, allora un piccolo centro di fondazione romana e che era destinato a diventare la sede di uno dei più potenti ducati del regno longobardo in Italia, venne lasciata una guarnigione composta dal fior fiore dell’esercito longobardo, proprio in virtù della sua rilevanza strategica, almeno stando a quanto riferisce Paolo Diacono, che in quella città era nato. I longobardi friulani conservarono sempre un sentimento della propria eccellenza. Sfondato il confine, occupato il Friuli, i guerrieri di Alboino subito dopo dilagarono per il Veneto, quindi, nel giro di tre anni, entrarono in Lombardia, si spinsero fino al Piemonte e, oltrepassato il Po, fecero irruzione in Emilia e in Toscana. Nelle loro mani caddero molte delle più importanti città dell’Italia settentrionale, comprese le due sedi di residenza predilette da Teoderico, cioè Verona e Pavia, e la vecchia capitale tardoimperiale, Milano. La presa di possesso del territorio avvenne però in maniera disorganica. Diverse tra le più salde piazzeforti tenute dai bizantini furono aggirate dai longobardi, anziché prese d’assalto, per non sfiancarsi in assedi prolungati e difficili da sostenere (anche per le limitate capacità poliorcetiche dei barbari); inoltre, fu debole l’effettivo coordinamento politico- militare delle operazioni da parte del re, poiché i guerrieri si muovevano in bande ciascuna delle quali sottostava al comando del proprio capo, chiamato dalle fonti con il termine latino di dux (duca), desunto dal lessico militare tardoromano. I duchi, esponenti dell’aristocrazia di stirpe, erano per tradizione abituati a esercitare sui loro guerrieri un potere fortemente autonomo rispetto a quello del monarca, mal sopportando la disciplina regia. Ciò discendeva dall’antico costume politico dei longobardi, presso i quali la figura del re non era abituale: esso veniva creato dal popolo- esercito quando ce n’era bisogno per affrontare qualche grande sfida collettiva, come una migrazione o una guerra, che richiedesse l’unità di comando di tutta la stirpe. Altrimenti, la tribù poteva anche restare suddivisa in gruppi governati ciascuno dal proprio duca. Nella progressiva conquista del territorio italiano parecchi duchi operarono per proprio conto, seguendo calcoli individuali, addirittura cercando, in più di un caso, di venire a patti con i bizantini, fino ad andare contro il loro re. Per molti tornava conveniente, infatti, chiedere di divenire foederati dell’impero, secondo un vecchio uso dei barbari, facendosi pagare per combattere sotto le insegne di Roma contro gli altri longobardi. L’intrinseca instabilità politica della gens longobarda, le pulsioni centrifughe che rimasero un tratto caratteristico

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