IL MALO INGEGNO DI UN PERSONAGGIO DANTESCO: GUIDO DA MONTEFELTRO L’Inferno è sempre stato la cantica della Commedia più ricordata dal pubblico perché comprende una galleria molto ricca e varia di personaggi, che spiccano per incisive rappresentazioni, in grado di coinvolgere con la loro multiforme umanità un vasto pubblico. Sono personaggi perduti e di- sperati, che hanno sbagliato nel compiere scelte in frangenti decisivi della loro esistenza, che raccontano in vario stile le loro disgraziate vicende. La varietà di questi personaggi contrasta con il personaggio tipico del Purga- torio, che è un’anima salva in fase di espiazione, sempre in atteggiamento umile e rassegnato, che può rievocare i suoi drammi di vita terrena ma sempre con giudizi distaccati e misurati. Ancora più distante è il perso- naggio del Paradiso, che, circonfuso di luce, ormai concentrato nella sua beatitudine eterna e quindi essenzialmente al di sopra della dimensione umana, parla di filosofia e teologia; quando si riferisce al mondo terreno, non insiste sulla propria esperienza individuale, bensì la riprende soltanto per allargare il discorso su orizzonti più ampi, per esprimere valutazioni di ordine generale, sempre in un’ottica superiore, celeste. I dannati invece sono più numerosi e, anche se tutti condannati e assegnati in eterno ai nove gironi in base ai loro peccati, sono comunque ripartiti dall’autore secondo un’ulteriore scala gerarchica, secondo il valore della loro persona- lità. Si è soliti distinguere tra due grandi famiglie di dannati: i personaggi di umanità inferiore, talora spregevoli, che possono suscitare anche disgu- sto, e quelli invece cosiddetti magnanimi, che in vita hanno manifestato qualità positive, hanno anche operato positivamente, ma poi hanno libe- ramente e consapevolmente scelto il male, macchiandosi di qualche colpa capitale, precipitando nella perdizione. Tale consolidata tesi critica necessita tuttavia di qualche precisazione dal momento che rischia di appiattire i personaggi di questa seconda ca- tegoria, che sono in numero minore rispetto alla folla dei personaggi co- ________________ ACME - Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università degli Studi di Milano LXII - 2 - Maggio-Agosto 2009 http://www.ledonline.it/acme 44 francesco spera muni e inferiori, ma appaiono di gran lunga più importanti e significativi. Il fatto è che i magnanimi, che si alzano parecchio al di sopra della media umana, non possono risultare certo molti, ma neppure sono simili tra lo- ro. Bisogna infatti rilevare che questi personaggi superiori, che l’autore valorizza concedendo loro prima di tutto un’ampia sequenza di terzine dove possono esprimere meglio se stessi, di fatto risultano caratterizzati da un’estesa gamma di sfumature e da significati diversi. Denominatori co- muni rimangono quindi il più alto numero di terzine e la rievocazione più dettagliata delle tappe cruciali delle loro esistenze. Proprio il più articolato racconto di sé, sollecitato dalle domande di Dante o di Virgilio, conferi- sce il taglio più teatrale di questi episodi che possono sfociare in dialoghi con battute serrate. Si oscilla insomma da personaggi che recitano lunghi monologhi tragici come Pier delle Vigne, Ulisse, Ugolino, che si stagliano al vertice di questo gruppo di personaggi, a intrecci di dialogo tra dannato e protagonista, in cui si può inserire talora la guida Virgilio o un altro dannato, come nel caso più complesso e riuscito del canto decimo con il doppio dialogo con Farinata, figura principale, e con Cavalcante. Questa varietà anche tecnica non ha soltanto una sua efficacia estetica, evitando il ripetersi monotono di scene quasi uguali e prevedibili, ma risponde anche all’esigenza di calibrare i significati, visto che ognuno di questi racconti e dialoghi è portatore di un suo specifico senso. Per Dante il personaggio è apparso e parla così perché così si è voluto dall’alto, secondo il piano supe- riore del viaggio ultraterreno che gli è stato concesso dal cielo; si potrebbe citare la famosa formula: «vuolsì colà dove si vuole / ciò che si puote, e più non dimandare», ripresa due volte in Inferno III 95-96 e V 22-24. Di fronte a un personaggio quindi privilegiato, che può vantare una notevole quantità di versi e anche l’attribuzione di un discorso diretto di indubbio peso, occorre analizzare con attenzione le terzine con la sua presenza, concentrandosi anche sullo stile, sugli eventuali ornamenti re- torici (che non sono mai soltanto in funzione di abbellimento estetico, ma sempre arricchiti di ulteriori sensi), e poi allargare l’indagine progres- sivamente, poiché si possono rivelare significativi anche altri elementi, in particolare il percorso di avvicinamento al personaggio con la descrizio- ne della scena, eventuali ornamenti retorici, gli interventi autoriali diretti, i confronti con gli episodi precedenti. Da questo punto di vista i can- ti XXVI e XXVII 1 presentano una situazione di scelte particolarmente esemplari per il trattamento riservato a due grandi personaggi: entrano 1 ) Una svolta negli studi critici su questi canti si è avuta con le originali interpreta- zioni di G. Muresu, che propone prima di tutto di abbandonare la denominazione di con- siglieri fraudolenti per tali peccatori, che avrebbero piuttosto commesso la colpa di abusare della propria intelligenza per fini peccaminosi; ma il saggio spicca per altre acute analisi, in particolare sull’uso della parola di Guido, e per la severa revisione degli studi precedenti (Muresu 2005). ________________ ACME - Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università degli Studi di Milano LXII - 2 - Maggio-Agosto 2009 http://www.ledonline.it/acme il malo ingegno di un personaggio dantesco 45 in scena e campeggiano simmetricamente un celebre personaggio antico e un celebre personaggio moderno, Ulisse e Guido da Montefeltro. Sono nella stessa bolgia dei cosiddetti consiglieri fraudolenti e la loro comparsa in successione è evidentemente calcolata e invita il lettore a rivedere criti- camente i denominatori comuni e le differenze che li marcano. In primo luogo occorre rilevare che prima ancora della descrizione della bolgia si incontra uno dei più forti interventi diretti dell’autore: Allor mi dolsi, e ora mi ridoglio quando drizzo la mente a ciò ch’io vidi, e più lo ’ngegno affreno ch’i’ non soglio, perché non corra che virtù nol guidi; sì che, se stella bona o miglior cosa m’ha dato ’l ben, ch’io stesso nol m’invidi. ( If XXVI 19-24) I critici pongono in rilievo la differenza del tempo dei due verbi, dal mo- mento che l’autore rivela di essere stato molto colpito da quanto ha visto e sentito in quella bolgia, tanto da ricordarlo ancora nel presente, mentre sta scrivendo, con emozione dolorosa. Non spiega perché, ma la reticenza è giustificata per creare un senso di attesa (sarà il lettore a poter decifrare l’autentico senso di questa confessione alla fine dei due canti). L’obiettivo si fissa invece sulla questione dell’“ingegno”, con un chiaro confronto tra il proprio ingegno, orgogliosamente riconosciuto come alto, così come ha voluto il cielo, e il malo ingegno dei grandi personaggi che stanno per presentarsi, ingegni di ben alto livello, ma pure maligni, volti a macchinare i più svariati inganni e a perseguire il male. Con questa rilevata dichiara- zione in prima persona il valore esemplare ed educativo di quanto accade nella bolgia dei peccatori di malo ingegno non poteva avere un’indica- zione più manifesta. E questo vale sia per l’antico eroe classico, sia per il personaggio moderno di Guido da Montefeltro, citato positivamente tra l’altro nel Convivio. Non si deve dimenticare neppure la descrizione della scena e della pena, che si trova nel canto XXVI ma vale anche per il canto successivo, dove compare Guido. Per ben sei terzine si snodano due ampie similitu- dini, una naturalistica (quella celebre delle lucciole: «come la mosca cede a la zanzara, / vede lucciole giù per la vallea, / forse colà dov’e’ vendemmia e ara», XXVI 27-30) e una biblica (sull’effetto ottico che accompagna la sa- lita in cielo del carro di Elia). Il rilievo retorico di questa parte ben si addi- ce al valore dei personaggi in arrivo. Perché tutto classicamente si modella sull’uso simmetrico: due canti, due personaggi e quindi due similitudini. L’ampiezza di queste è per altro indispensabile dal momento che la pena subita dai dannati dell’ottava bolgia è tra le più singolari: sono bruciati dal fuoco che li avvolge completamente tanto da far perdere loro ogni conno- tato umano, ostacolando persino la loro capacità di parlare. Su questi sin- ________________ ACME - Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università degli Studi di Milano LXII - 2 - Maggio-Agosto 2009 http://www.ledonline.it/acme 46 francesco spera golari aspetti si insiste in entrambi i canti: la lingua di fuoco da cui escono a fatica le loro parole funge da contrappasso alle loro doti di oratori per- suasivi e ingannatori. Si tratta di una pena particolarmente dolorosa, come si constata dal loro dibattersi inquieto, dal loro vagare disordinato den- tro il cerchio, e umiliante, con una metamorfosi disumana presente anche in altri casi (suicidi, ladri), tanto più appropriata qui per le straordinarie capacità di malizia, di simulazione e dissimulazione, che questi peccatori di malo ingegno hanno esibito per raggiungere i più malvagi scopi. Nel canto XXVI motore dell’azione diventa la curiosità di Dante nel vedere una fiamma a due corni, cui si aggiunge l’intromissione di Virgilio che si arroga il compito di interrogare Ulisse. Il mitico eroe dell’antichità merita di essere interpellato direttamente dal grande poeta che lo ha anche messo in scena nella sua opera: «s’io meritatai di voi mentre ch’io vissi, / s’io meritai di voi assai o poco / quando nel mondo li alti versi scrissi» (vv. 79- 81). Merita anche e soprattutto di parlare come un eroe tragico, senza mai essere interrotto per 42 versi, illustrando le tappe essenziali del suo fatale destino. Le parole e la peripezia di Ulisse sono chiare da interpretare per il lettore, emblematiche di un eroe che procede alla ricerca di una cono- scenza assoluta, conoscenza per la conoscenza, e non spirituale e cristia- na: «l’ardore / ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto / e de li vizi umani e del valore» (vv. 97-99); le sue doti emergono quando con un’«orazion picciola», riportata puntualmente, riesce a piegare i compagni ai propri intendimenti, coinvolgendoli nella rovina complessiva fissata nell’ultimo lapidario verso: «infin che ’l mar fu sovra noi richiuso» (v. 142). Molto meno solenne risulta l’apparizione di Guido da Montefeltro all’inizio del canto XXVI: a prendere l’iniziativa è proprio il dannato, che riesce con fatica a far uscire le sue parole dalla fiamma. La similitudine che spiega il fenomeno, quella del «bue cicilian» è molto meno nobile delle due citate nel canto precedente, dal momento che Dante ricorda il crudele strumento di morte inventato da Perillo per Falaride tiranno di Agrigen- to. Queste scelte non sono mai neutre: non sarà casuale che in questo episodio l’inventore del terribile supplizio sia condannato dal tiranno a subire per primo l’orrenda morte, segno di un imbarbarimento del cuore umano che si ritrova più volte nel canto a proposito delle vicende politi- che contemporanee. Non solo, ma di fronte allo stile alto dell’orazione di Ulisse, il linguaggio di Guido appare di livello subito inferiore, molto più vicino a uno stile colloquiale: udimmo dire: «O tu a cu’ io drizzo la voce e che parlavi mo lombardo, dicendo “Istra ten va, più non t’adizzo”, perch’io sia giunto forse alquanto tardo, non t’incresca restare a parlar meco; vedi che non incresce a me, e ardo!». ( If XXVII 19-24) ________________ ACME - Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università degli Studi di Milano LXII - 2 - Maggio-Agosto 2009 http://www.ledonline.it/acme il malo ingegno di un personaggio dantesco 47 Lo sconosciuto si rivolge a colui che ha sentito parlare, cioè Virgilio, ripe- tendo espressamente la sua formula d’addio a Ulisse, con termini persino di origine dialettali («Istra»). Il dannato non si erge sul coturno tragico come l’eroe greco, bensì si dimostra pronto al dialogo, anzi lo sollecita egli stesso per primo, rivelando subito di essere della terra di Montefeltro e domandando notizie sulla situazione politica della Romagna: Se tu pur mo in questo mondo cieco caduto se’ di quella dolce terra latina ond’io mia colpa tutta reco, dimmi se Romagnuoli han pace o guerra; ch’io fui d’i monti là intra Orbino e ’l giogo di che Tever si diserra. ( If XXVII 25-30) Qui si coglie la rimarchevole distanza di Guido da Ulisse: mentre l’eroe greco, appartenente a un’epoca molto lontana, è portatore di istanze uni- versali anche se volte a fini colpevoli, Guido è un personaggio contempo- raneo, morto per di più da poco (1298), tutto calato nella politica del suo tempo. Infatti, come molti dannati, essenzialmente incapaci di elevarsi a livelli superiori, si mostra ancora molto attaccato alla vita terrena («dol- ce terra latina»), ma anche soprattutto curioso delle vicende italiane, in particolare di quelle in cui si svolse la sua azione, appunto la Romagna, dove operò attivamente come capo dei Ghibellini contro il papa, fino al momento in cui decise di cambiar vita e di farsi francescano, due anni prima di morire. Si passa così dalla riflessione astratta sui massimi principi, sul senso della vita umana, sul ruolo della conoscenza, che trapela nella narrazione di Ulisse, alla realtà contingente e dinamica del presente su cui questa nuova figura formula domande con un interesse concreto. In questo caso non c’è bisogno di Virgilio, che, in qualità di più grande poeta latino, pri- ma si era intromesso come adeguato interlocutore di Ulisse, ma tocca ri- spondere proprio al contemporaneo Dante. Inizia così una tipica rassegna politica, come altre distribuite nelle tre cantiche del poema, dove l’autore può riferire lo stato politico dell’Italia e di certi territori, sempre dilaniati da lotte intestine. Anche tipicamente dantesco è il riferimento ai cuori dei tiranni come punto d’origine di tutti i conflitti, con palese allusione all’influenza incontenibile della cupidigia del potere, che si concreta nella polemica usuale contro signori e signorotti, coinvolti nel gioco più ampio dello scontro tra impero e papato. Come sempre in questi passi, l’autore assume un tono insieme amaro e indignato che traspare dallo stile scor- ciato vivacemente espressivo, ricco di figure retoriche, dove s’intrecciano richiami geografici, araldici, bellici. Proprio uno degli episodi guerreschi ricordati, durante l’assedio di Forlì, vide come protagonista lo stesso Gui- do, capo dei Ghibellini assediati, che riuscì con brillanti manovre tattiche ________________ ACME - Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università degli Studi di Milano LXII - 2 - Maggio-Agosto 2009 http://www.ledonline.it/acme 48 francesco spera a sconfiggere i Guelfi assedianti e i loro alleati francesi. Si tratta di un omaggio al dannato, ma senza che il protagonista possa sapere che nella fiamma si nasconde il famoso personaggio. In effetti al termine del suo resoconto arriva puntuale la domanda affinché la fiamma parlante riveli la sua identità; richiesta sostenuta dall’usuale augurio che la sua fama possa sopravvivere nel mondo (questo augurio, privo di senso nell’ottica cri- stiana dell’eternità, si dimostra funzionale per i dannati, appunto perché rientra nell’ambito delle passioni terrene, di una sterile vanagloria). Da questo momento comincia l’intervento di Guido, uno dei più ampi dell’intera cantica, ben più lungo e articolato di quello di Ulisse, segno dell’indubbio peso di significato attribuitogli dall’autore, che è un significato sul valore della persona che parla e sul valore della parola che egli esprime, e quindi sulla complessità del quadro contemporaneo in cui tutto s’inscrive. Si vuole dire insomma che la complessità dell’intervento di Guido, grande uomo d’arme e altrettanto grande uomo di potere, se- condo le finalità dell’autore deve invitare il lettore a riflettere sulla vicen- da umana del personaggio, in particolare sulla sua sfortunata ma sempre colpevole scelta finale, ma anche sulle modalità ambigue del suo racconto, che può sembrare così dettagliato e veritiero visto che riporta direttamen- te anche le parole di altri personaggi, ma che invece a poco a poco risulta non persuasivo, anzi reticente e tendenzioso. Ne è prova indiretta lo stes- so inizio: «S’i’ credesse che mia risposta fosse a persona che mai tornasse al mondo, questa fiamma staria sanza più scosse; ma però che già mai di questo fondo non tornò vivo alcun, s’i’ odo il vero, sanza tema d’infamia ti rispondo». ( If XXVII 61-66) Il dannato, poiché non può vedere e quindi non può accorgersi che Dante è vivo, si mostra così sicuro di sé, da credere di poter parlare senza timori, senza il rischio che la sua confessione possa essere riportata in terra re- cando un danno irreparabile alla sua fama. Fondamentale appare l’emisti- chio «s’i’ odo il vero», che dimostra la sua tendenza a fidarsi troppo della propria intelligenza. Guido è troppo chiuso nella sua esperienza terrena, quindi assolutamente incapace di andare oltre una dialettica razionale e di immaginare invece la possibilità preternaturale voluta dal cielo che ha con- cesso il privilegio di scendere vivo all’Inferno a un uomo in carne e ossa. Già dall’inizio quindi l’atteggiamento di Guido rivela crepe inquietanti, proprie di chi ha un altissimo concetto di sé e si illude di poter tenere tutto sotto controllo. Nella prima parte del racconto il dannato esprime sinteticamente, alla solita maniera dantesca, i dati essenziali che lo riguardano: il suo essere ________________ ACME - Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università degli Studi di Milano LXII - 2 - Maggio-Agosto 2009 http://www.ledonline.it/acme il malo ingegno di un personaggio dantesco 49 stato «uom d’arme, e poi cordigliero», la scelta di ritirarsi in convento per espiare e salvarsi l’anima, la caduta invece all’Inferno per colpa del pon- tefice di cui si era fidato. Qui si manifesta un altro dei motivi principali del canto: il riferimento negativo al «gran prete», cioè a Bonifacio VIII, si motiva con l’esigenza di porre subito in pessima luce il nemico papa. In questo caso l’interesse del personaggio coincide con l’interesse dell’auto- re: Guido tenta di depistare il lettore spostando l’attenzione su colui che l’ha indotto a perdersi: l’autore può introdurre così il più pesante attacco di tutto il suo poema contro Bonifacio, suo avversario politico, causa di tutti i mali che lo hanno costretto all’esilio e a una vita di stenti. Ma que- sto è solo il prologo dell’attacco, che verrà rilanciato in grande stile più avanti, mentre il personaggio deve ancora completare la sua presentazio- ne, soprattutto compiutamente caratterizzarsi: Mentre ch’io forma fui d’ossa e di polpe che la madre mi diè, l’opere mie non furon leonine, ma di volpe. Li accorgimenti e le coperte vie io seppi tutte, e sì menai lor arte, ch’al fine de la terra il suono uscie. ( If XXVII 73-78) Guido confessa un aspetto capitale del suo ingegno, che ha determinato eccellenti risultati nell’agire in guerra e in politica: l’astuzia. Non solo è stato un grande uomo d’arme e un grande politico, ma in quest’ultimo campo soprattutto si giovava di una non comune scaltrezza. L’espressione figurata «l’opere mie / non furono leonine, ma di volpe» (ripresa poi da Machiavelli nel Principe) sintetizza emblematicamente queste molteplici doti del personaggio, che le ha sfruttate con efficacia, conquistando fama non solo per le molte vittorie militari e diplomatiche ma anche per le modalità d’azione esibite. Si verifica qui uno dei punti di maggiore vicinanza con il canto pre- cedente e con il racconto di Ulisse, anch’egli notoriamente astuto. Gui- do riprende infatti lo stesso concetto espresso da Ulisse, una riflessione sulla vecchiaia che dovrebbe indurre al ritiro dalla vita d’azione, con la differenza che mentre Ulisse non resiste alla tentazione della grande im- presa e s’imbarca per oltrepassare le colonne d’Ercole, Guido compie una forte scelta religiosa, ritirandosi effettivamente in convento e facendosi francescano 2. Ma il personaggio moderno non riesce a tagliare del tutto i 2 ) Dante aveva citato come esempio positivo questa scelta nel Convivio quando par- la del comportamento dell’uomo nella vecchiaia, ricorrendo al paragone con la navigazio- ne: «[…] come lo buono marinaio, come esse appropinqua al porto, cala le sue vele […]. Certo lo cavaliere Lancellotto non volse entrare con le vele alte, né lo nobilissimo nostro latino Guido montefeltrano» (Conv IV xxviii 3 e 8). Concetto e immagine sono ripresi ________________ ACME - Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università degli Studi di Milano LXII - 2 - Maggio-Agosto 2009 http://www.ledonline.it/acme 50 francesco spera ponti con il passato perché, paradossalmente, proprio la fama conquistata suscita l’occasione per un rischioso ritorno alla vita precedente. È papa Bonifacio VIII a ricordarsi delle sue qualità e a rivolgersi a lui per avere un consiglio per sconfiggere i suoi nemici, i Colonna asserragliati a Pale- strina. Ma prima di arrivare a questo momento cruciale, Guido si lancia in una dura invettiva contro il pontefice subito definito: «Lo principe d’i novi Farisei». La perifrasi è usata per non citare neppure il nome del som- mo capo della Chiesa, il che dal punto di vista dantesco va inteso come condanna e umiliazione. Del resto il nome di Bonifacio è già apparso nel canto XIX, quando Niccolò III, infilato a testa in giù secondo la pena del girone dei simoniaci, sentendo arrivare qualcuno, scambia Dante proprio con Bonifacio, che, secondo la conoscenza del futuro caratteristica prero- gativa dei dannati, sarà appunto il nuovo arrivo in quel girone: Ed el gridò: «Se’ tu già costì ritto, se’ tu già costì ritto, Bonifazio? Di parecchi anni mi mentì lo scritto. Se’ tu sì tosto di quell’aver sazio per lo qual non temesti tòrre a ’nganno la bella donna, e poi di farne strazio?». ( If XIX 52-57) Il riferimento al libro del futuro (che non ha mentito perché non si trat- ta di Bonifacio, ma di Dante) funge come ottimo artificio per esprimere questa terribile profezia che proprio il papa precipiterà all’Inferno (Bo- nifacio muore nel 1303) per la sua brama di potere e per la sua condotta perversa, così lontane dal suo ufficio di capo spirituale 3. L’invettiva di Guido quindi è stata preparata da questa clamorosa no- tizia e dalla recisa condanna messa in bocca a Niccolò III. In realtà l’auto- re si è mosso secondo un’attenta strategia, visto che il primo tendenzioso riferimento a Bonifacio si scopre nel discorso di Ciacco nel canto VI dei golosi. Nella sua profezia sulla crisi politica di Firenze sconvolta dallo scontro tra Bianchi e Neri, il dannato riferisce che uno dei due partiti riuscirà a vincere grazie «a la forza di tal che testé piaggia» (If VI 69), al- ludendo al comportamento del papa, ufficialmente al di sopra delle parti, ma di fatto già deciso ad aiutare di nascosto i Neri contro i Bianchi (con la susseguente fuga di Dante, destinato a restare in esilio fino alla morte). Poi arriva la rivelazione decisiva di Niccolò III nel canto XIX e infine l’invettiva del XXVII, che si prolunga per tre terzine, secondo uno sche- ma amplificato di ascendenza biblica, tipico del riuso dantesco che ricalca nel discorso infernale: «Quando mi vidi giunto in quella parte / di mia etade ove ciascun dovrebbe / calar le vele e raccoglier le sarte» (If XXVII 79-81). 3 ) Sulla presenza di Bonifacio VIII nella Commedia si veda la dettagliata ricostruzio- ne di Seriacopi 2003. ________________ ACME - Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università degli Studi di Milano LXII - 2 - Maggio-Agosto 2009 http://www.ledonline.it/acme il malo ingegno di un personaggio dantesco 51 certe indignate e sarcastiche invettive proprie dei profeti. Con questa ade- guata preparazione, costituita sia dai precedenti richiami a Bonifacio sem- pre più espliciti e pesanti, sia da questa amplificata invettiva («né sommo officio, né ordini sacri / guardò in sé»), si approda alla narrazione della scena capitale del riservato abboccamento tra i due: Ma come Costantin chiese Silvestro d’entro Siratti a guerir de la lebbre, così mi chiese questi per maestro a guerir de la sua superba febbre; domandommi consiglio, e io tacetti perché le sue parole parver ebbre. ( If XXVII 94-99) Guido viene prima interpellato direttamente con una richiesta di aiuto co- sì patente nella sua essenza immorale e anticristiana da lasciarlo interdetto in silenzio. Raramente nella Commedia una scena è raffigurata così det- tagliatamente nei sottili risvolti psicologici che si possono cogliere dalle parole e dalle reazioni dei personaggi. Il racconto giunge al punto culminante quando l’autore pone in boc- ca a Guido persino una battuta diretta del papa, che riproduce il passo saliente del suo ingannevole discorso. Dal punto di vista del dannato que- sta inserzione sembra dovuta quasi a uno scrupolo di verità che potrebbe attenuare la sua colpa: E’ poi ridisse: “Tuo cuor non sospetti; finor t’assolvo, e tu m’insegna fare sì come Penestrino in terra getti. Lo ciel poss’io serrare e diserrare, come tu sai; però son due le chiavi che ’l mio antecessor non ebbe care”. ( If XXVII 100-105) La richiesta è lapidaria, con l’aggiunta di un’affermazione allusivamente ricattatoria perché la promessa di assolvere Guido dal peccato che sta- rebbe per commettere dandogli il consiglio fraudolento va insieme a una minaccia neppure tanto velata. Se il papa ha due chiavi, può usare quella che impedisce l’accesso al Paradiso, ad esempio con la scomunica. L’an- tecessore che non ebbe care le due chiavi è Celestino V che rinunciò alla carica, forse proprio per gli intrighi di chi poi gli è succeduto sul soglio di San Pietro 4. Insomma il quadro si fa sempre più fosco e inquietante. Gui- do, che già si era scontrato con Bonifacio nei tempi andati, subendo anche la scomunica, capisce al volo tutti i sottintesi e si preoccupa non poco. Per 4 ) A Celestino V si riferiscono due versi nella descrizione dei pusillanimi: «vidi e conobbi l’ombra di colui / che fece per viltade il gran rifiuto» (If III 59-60). ________________ ACME - Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università degli Studi di Milano LXII - 2 - Maggio-Agosto 2009 http://www.ledonline.it/acme 52 francesco spera questo prende la decisione tutta politica, dettata da una prudenza tutta politica, di accondiscendere: Allor mi pinser li argomenti gravi là ’ve ’l tacer mi fu avviso ’l peggio, e dissi: “Padre, da che tu mi lavi di quel peccato ov’io mo cader deggio, lunga promessa con l’attender corto ti farà trïunfar ne l’alto seggio”. ( If XXVII 106-111) Il personaggio sceglie il male minore rispetto al maggiore («’l peggio») perché si sente ridotto sulla difensiva, avendo decifrato il senso anche in- timidatorio delle parole che gli sono state rivolte («gli argomenti gravi»). Il suo consiglio è allora da politico esperto, consumato a tutte le malizie: venire a trattative con molte favorevoli promesse e poi cinicamente non mantenere i patti per poter più facilmente a sorpresa annientare gli impre- parati nemici 5. I commentatori rimandano allo storico Riccobaldo da Ferrara che, raccontando la vicenda, menziona tale consiglio. Ma al di là di questa fonte o di altre conta la messa in scena del dialogo così attentamente costruito. Riportare le battute dirette del dialogo sta a indicare la volontà del dan- nato di rievocare la vicenda per scagionarsi, per ridimensionare almeno la propria responsabilità. Ma dal punto di vista dell’autore l’operazione è più complessa: certamente c’è l’intenzione di colpire pesantemente il proprio nemico politico Bonifacio, ma anche di demistificare il comportamento di Guido, che si è fatto sì francescano, ma poi, messo alla prova in un mo- mento cruciale, reagisce non secondo la fede e la morale, bensì da politico che, avendo passato la maggior parte della sua via tra «li accorgenti e le coperte vie», ricade fatalmente nella sua riprovevole condotta. La mae- stria letteraria di Dante si manifesta nella capacità di rappresentare questo passo fatale con grande acutezza psicologica. I personaggi danteschi non possono avere una vera psicologia: non solo per ragioni di spazio (anche l’anima che rimane più a lungo in scena non ha mai però a disposizione versi sufficienti che consentano un’adeguata costruzione psicologica), ma soprattutto per ragioni di poetica. L’autore mira a raffigurare personaggi esemplari, che possono essere caratterizzati nei loro tratti dominanti, le- gati ai peccati in cui sono caduti o da cui si stanno purificando (ci si rife- risce in generale ai personaggi di Inferno e Purgatorio, dal momento che le anime beate del Paradiso sono del tutto prive ormai di ogni componente umana). Ma se di psicologia a pieno titolo non si può parlare, bisogna 5 ) Su questi aspetti ambigui del comportamento di Guido, sul carattere limitato del suo orizzonte spirituale insiste G. Barberi Squarotti come chiave d’interpretazione dell’in- tero episodio (Barberi 1989). ________________ ACME - Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università degli Studi di Milano LXII - 2 - Maggio-Agosto 2009 http://www.ledonline.it/acme
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