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Gli uomini e le rovine PDF

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GLI UOMINI E LE ROVINE Introduzione EVOLA E LE ROVINE ELETTRONICHE DEGLI ANNI NOVANTA “Ma quand’anche il destino che il mondo moderno si è creato, e che ancora sta travolgendolo, non dovesse essere contenuto, presso a tali premesse le posizioni interne saranno mantenute: in qualsiasi evenienza ciò che potrà essere fatto sarà fatto e apparterremo a quella patria che da nessun nemico potrà mai essere né occupata né distrutta” Orientamenti (1950) 1. Millenovecentoquarantotto “In ogni caso la mia vicenda – anche se dovessi rimanere per sempre così – spiritualmente non mi significa di più di quel che fosse una ruota rotta in una mia vettura. Un lato positivo che cosa è l’ulteriore conferma, per me, di una calma e di una intangibilità per la quale l’esclusione di qualsiasi attività ‘profana’ ed esterna significa più o meno nulla. E se avessi il senso, che io fossi richiesto, se vedessi la possibilità di innestare le mie disponibilità interne in un’azione superindividuale spirituale, davvero nulla vi sarebbe di mutato. Ma – penso, a differenza di te – io non vedo che un mondo di rovine, ove non è possibile che una specie di fonte delle catacombe, per il quale già ho creduto di dare quel che di essenziale potevo dare” (1). Così Julius Evola scriveva il 20 aprile 1948 da Bad Ischl a Girolamo Comi, in risposta ad una lettera del poeta pugliese il quale era riuscito a conoscere, chissà come, l’indirizzo austriaco del suo antico amico ormai da tre anni paralizzato alle gambe. È il primo contatto dopo oltre un decennio e avrà come conseguenza, grazie all’intervento del presidente della Croce Rossa Italiana, Umberto Zanotti-Bianco, amico di entrambi, il trasferimento di Evola dall’Austria in un santuario preso Varese (agosto 1948) ed infine in una clinica di Bologna (fine ottobre – inizio novembre 1948). È questo l’anno delle prime elezioni dopo il referendum istituzionale dove il MSI, nato ne 1946 ottenne 526.882 voti (l’1,8 per cento), l’anno dell’uscita del PCI dal governo, dell’attentato a Togliatti e della vittoria di Bartali al Giro di Francia. È anche l’anno della prima grande crisi fra i vincitori della seconda guerra mondiale, fra Occidente ed Oriente, con il blocco sovietico di Berlino ed il famoso ponte aereo durato mesi per rifornire di viveri la zona ovest isolata all’interno della Germania comunista. Il fortuito ritrovamento di questa ed altre lettere a Girolamo Cominella casa di quest’ultimo a Lucugnano (Lecce), trasformata in biblioteca pubblica, nel 1986, e pubblicate l’anno successivo, ci permette ora di stabilire che l’immagine delle macerie spirituali oltre che materiali era ben presente in Evola sin da allora, almeno sul piano simbolico e della sensazione. Le frasi importante, piene di un fatalismo insolito, fanno ritenere che Evola in quel periodo non pensasse a un immediato impegno diretto a favore di uno schieramento politico: confinato in una clinica austriaca vedeva le cose da lontano e non erano certo piacevoli, tanto da indurlo addirittura a parlare di un “fronte delle catacombe”. Il rientro a Bologna, pur se gli diede l’impressione di essere uno straniero in terra straniera, lo pose evidentemente in contatto diretto non solo con la situazione politica e ideologica nazionale, ma anche con gli amici rimasti che non avevano cambiato bandiera e con ambienti giovanili: questo gli fece perdere probabilmente il senso d’inutilità che traspare dalle righe citate e tornare a credere di poter continuare a fare qualcosa nel senso di una “azione superindividuale spirituale”. Il clima del tempo e l’atteggiamento psicologico e spirituale di quei ragazzi sono efficacemente ricordati da Fausto Gianfranceschi in una delle rare rievocazioni dell’epoca: “Un giorno bisognerà scrivere la stria di quelli che, per la loro età (essendo nati poco prima del 1930), non fecero in tempo a perdere la guerra, o riuscirono a parteciparvi, in gran parte volontari, appena per pochi mesi, quando essa già appariva inevitabilmente perduta (…) Qualcosa ci separava dagli altri, ed era l’amarezza, ma anche un’elettrizzante tensione che forse ci faceva sentire più vivi in quella condizione di sconfitti. Sconfitti e tuttavia decisi a non rinunciare al nostro modo di percepire la realtà (…) Qualunque fosse la motivazione di fondo delle nostre scelte, alcune cose erano certe avevano un atteggiamento positivo di fronte alla vita, e tuttavia qualcosa ci vietava di integrarci nella nuova vita della nazione che sembrava aprirsi a nuove premesse (…) Noi rimanevamo ostinatamente fedeli alla nostra guerra. Ci sembrava che troppi equivoci fossero all’origine della “rinascita” (…) A tutto questo dicevamo no; ma qual era il sì che ci muoveva? (…) Cercavamo la chiave dell’enigma sia sulle piazze (…) sia sui libri” (2). E così, alla Biblioteca Nazionale di Roma vennero scoperti i libri di Evola, in primisi la Rivolta contro il mondo moderno. Un altro gruppo di giovani entrò invece in contatto con Evola seguendo una via diversa: tramite l’elenco telefonico… Mentre si ritrovavano a “Regina Coeli” per “fatti di neofascismo” essi tessero I Protocolli di Sion nella edizione pubblicata da La Vita Italiana nel 1939 e rimasero tanto colpiti dalla introduzione che, appena dimessi, vollero conoscere di persona il curatore del libro a loro del tutto ignoto. Consultarono la guida telefonica di Roma ma, giunti in Corso Vittorio Emanuele 197, appresero che il per loro misterioso Julius Evola era ricoverato in un ospedale di Bologna. “Fu un incontro che probabilmente decise il nostro futuro”, ricorda ancora Gianfranceschi. “Su quelle pagine trovammo le risposte ai nostri interrogativi. Capimmo che le nostre scelte e le nostre ripulse non erano soltanto storicamente determinate, ma si inquadravano nel modo di essere, nel carattere, di un particolare tipo umano, il quale a sua volta è segnato da forme che trascendono i dati contingenti. Trovammo una coerente e convincente interpretazione, in un grandioso disegno, di alcune radicate impressioni che ci distinguevano nettamente dagli altri: l’impossibilità di accettare la sconfitta, qualunque sconfitta, come un inappellabile giudizio della Storia, così sublime e decisivo da imporre addirittura un mutamente esistenziale, il rifiuto no solo del comunismo, ma anche dell’americanismo i due volti di una medesima realtà moderata); il fastidio, e il disprezzo, per ogni discorso basato sull’economia, sul benessere materiale, o anche su un astratto umanitarismo; il sospetto che il confort macchinistico e tecnologico, al cui culto ci andavamo adeguando sul modello dei vincitori, comportasse una razzia di valori ben più pregnanti (…) Inoltre Evola ci liberò dalle scorie del passato cui eravamo pubblicamente legati, senza concessioni per gli orribili luoghi comuni dell’antifascismo’, semplicemente separando, in quel passato, ciò che era il riflesso dei valori permanenti da ciò che era ambigua e corruttibile contingenza” (3). Ma questo venne dopo, fu una conseguenza dell’incontro tra la generazione di quei ventenni e un uomo che, come si è visto, era abbastanza disilluso sulla situazione italiana. Ricorda ancora Gianfranceschi che alcuni di essi lo andarono a trovare all’ospedale di Bologna probabilmente nel 1949 e su indicazione di Massimo Scaligero che almeno sin dal 1947 ero in corrispondenza con lui ed aveva già una certa influenza diretta sull’ambiente. Da quell’incontro, nacque non solo la volontà di contribuire nuovamente ad una battaglia delle idee, ma anche la serie di iniziative che si sarebbe conclusa con la redazione de Gli uomini e le rovine. “So che Evola fu contento di averci incontrati”, ricorda ancora Gianfranceschi (4); e l’interessato lo confermerà esplicitamente in una lettera a Franco Servello, che dirigeva Il Meridiano d’Italia dopo l’assassinio di Franco De Agazio nel marzo del ’47 ad opera dei killer della famigerata Volante Rossa, scritta dopo il dibattimento che lo riguardava in Corte d’Assise nel processo dei FAR: riferendosi agli “amici coimputati di neofascismo”, nei loro confronti Evola afferma di aver “dichiarato al dibattimento che, ritornando in Italia, fu per me motivo di conforto e speranza per le sorti del nostro disgraziato Paese, il loro entusiasmo e la loro consapevolezza nonché il disinteresse e il vivo fermento spirituale che, in questi tempi di oscuro materialismo, essi sanno dimostrare” (5). Nel 1949 Evola ricominciò dunque a scrivere, prima con il consueto pseudonimo di “Arthos”, poi con il suo nome in alcune delle riviste della neonata destra, come La Sfida di Enzo Erra e Egidio Steppa, La Rivolta ideale di Giovanni Torelli, Il Meridiano d’Italia di Franco Servello. Vista l’inutilità della sua permanenza in una clinica, ancorché specializza, data l’irreversibilità del trauma, dopo un anno e mezzo fece una rapida puntata a Roma, la prima dopo circa sei anni, verso la metà del marzo 1950, allo scopo di “organizzare una base materiale” e trasferirsi poi definitivamente nella capitale. Il che fece probabilmente nell’aprile successivo. A maggio uscì il primo dei cinque fascicoli di Imperium: nei primi tre apparvero suoi articoli. Il riferimento è importante perché su quella rivista, diretta da Enzo Erra e che si presentava come l’espressione del gruppo giovanile missino che aveva tendenze “spiritualiste”, apparvero proprio quei concetti che poi andarono a formare gli “undici punti” di Orientamenti, edito sempre “a cura di Imperium”: un opuscolo, vero “breviario” di quella generazione, che contiene in nuce, come afferma Evola stesso che nella nota che precede la seconda edizione del volumetto (6), tutto quanto verrà poi trattato più ampiamente ne Gli uomini e le rovine. Il origine il suo titolo avrebbe dovuto essere Schieramenti: cosi viene infatti indicato in fine all’articolo Impero e civiltà di Evola apparso nel secondo numero di Imperium del giugno 1950. Proprio Orientamenti, le idee opposte in Orientamenti, ed un articolo uscito sulla rivista ( Due intransigenze sul terzo fascicolo del luglio 1950) costituirono le “prove” che condussero all’arresto di Evola nell’aprile 1951 nell’ambito dell’inchiesta sui Fasci di Azione Rivoluzionaria, i FAR, iniziata nel novembre 1950 con i primi fermi. L’atteggiamento da assumere su quanto di “fascista” c’era nelle sue idee, Evola lo espresse nell’ Autodifesa (7) letta in aula durante la terza udienza del dibattimento il 12 ottobre 1951. Nella lettera a Franco Servello citata in precedenza Evola così riassumeva i termini della questione: “Credo che il mio costituisca un caso interessante, per la chiarificazione del cosiddetto reato di “apologia di fascismo”. L’accusa, da me invitata ad uscire dalle generalità ed a precisare quali siano specificamente le “idee proprie del fascismo”, la cui difesa sarebbe reato, avuto l’imprudenza di dichiarare che esse sono la monocrazia, la gerarchia e l’aristocrazia – cosa che Carnelutti, da maestro, si è affrettato a far consacrare in verbale, a moltiplicazione di quanti in Italia non sono accecati dalla passione di parte o dall’ignoranza, più che per reale esigenza difensiva. Naturalmente, è stato allora facile far rilevare che, insieme a me, come imputati, dovrebbero stare un Platone, un Aristotele, un Dante e così via, fino ad un Bismarck e a un Metternich: che “fascista sarebbe stato più o meno tutto il mondo precedente il ’48 e la Rivoluzione francese. Dopo di che io ho dichiarato che idee “fasciste” le ho difese e le difendo non in quanto esse sono fasciste, ma in quanto continuano appunto questa grande tradizione politica, e che tale difesa l’ho fatta da uomo libero, partendo dalla pure dottrina, perché per principio non mi sono iscritto mai ad alcun partito, quindi nemmeno al PNF e ad PFR” (8). Concetti Identici, se non identiche parole, Evola userà in seguito nell’autobiografia Il Cammino del Cinabro pubblicato oltre due lustri dopo (9). Note 1) Lettere di Julius Evola a Girolamo Comi(1934 – 1962), Fond. J. Evola, Roma 1978, p.18. 2) Fausto Gianfranceschi, L’influenza di Evola sulla generazione che non ha fatto in tempo a perdere la guerra, in AA.VV., Testimonianze su Evola, ed. Mediterranee, II ed., Roma 1985, p.130 – 1 3) Fausto Gianfranceschi, L’influenza di Evola cit.; p.131 - 2 4) Fausto gianfranceschi, L’influenza di Evola cit.; p.133. 5) Julius Evola, Neo fascismo e no: Una lettera sul processo di Roma, in il Meridiano d’Italia n. 41, Milano, 21 ottobre 1951, p. 6. 6) Cfr. Julius Evola, Orientamenti, Ed. Europa, Roma 1971, p. 3; riprodotta anche nella quarta edizione: Edizioni Settimo Siglillo, Roma 1984, p.14. 7) Cfr. Julius Evola, Autodifesa, in L’Eloquenza n. 11 – 12, Roma, 1951; e ora come “ Quaderno di testi evoliani” n. 2 pubblicato dalla Fond. J. Evola nel 1976. 8) Julius Evola, Neofascismo e no cit.; p.6. 9) Cfr. Julius Evola, Il Cammino del Cinabro, Scheiwiller, Milano 1963, p. 180 2. Millenovecentocinquantatre Il 1953 è stato l’anno, sul piano internazionale, della conclusione della guerra in Corea con il mantenimento dello status quo lungo il 38° parallelo e dell’esplodere della rivolta operaia a Berlino soffocata nel sangue dimostrazione che la recente spartizione delle zone d’influenza del mondo decretata a Yalta non può essere toccata. È l’anno, sul piano interno, della fine politica di De Gasperi a causa della mancata approvazione della legge elettorale maggioritaria che avrebbe dovuto assicurare alla DC, sino ad allora una maggioranza assoluta, la perpetuazione della sua egemonia. È l’anno delle seconde elezioni del dopoguerra il cui il MSI triplica i propri voti rispetto al 1948: 1.582.727 pari al 5,2 per cento. È anche l’anno delle manifestazioni promosse della destra per Trieste italiana con violentissimi scontri con la polizia inglese. È anche l’anno in cui è segretario del Raggruppamento Giovanile Studenti e Lavoratori del MSI Enzo Erra (nominato nel 1952, lo sarà fino al 1954) che riunisce intorno a sé e dà alle formazioni dei ragazzi di destra un’imposizione “spirituale”, i cui punti di riferimento sono Julius Evola e Massimo Scaligero, in opposizione con le correnti socialisteggianti e corporativiste dei notabili del partito. Alcuni di questi giovani (Pino Raudi, Paolo Andriani, Fausto Gianfranceschi, Clemente Graziani, Walter Valentini) formavano un gruppo abbastanza omogeneo e frequentavano l’abitazione di Evola a Corso Vittorio Emanuele 197 con una certa assiduità: gli chiesero così di ampliare i concetti espressi in Orientamenti per avere un punto di riferimento concreto e articolato sotto mano, un punto di riferimento che tenesse presenti le esperienze passate e allo stesso tempo il futuro. “Per noi”, ricorda ancora Gianfranceshi, “scrisse Gli uomini e le rovine come orientamento e come avallo della nostra decisione a contrastare la massiccia presenza di un mondo che sembrava e sembra tuttora invincibile. Fra tutti i “maestri dello spirito” che abbiano conosciuto prima o dopo di lui, egli infatti era ed è l’unico a non indicare soltanto la via del misticismo, e non disprezzare l’azione: a patto che non sia fine a se stessa, che non si sia trascinati da essa ma la si determini, e che non la si leghi all’idea di successo, ma valga soprattutto come testimonianza o come espressione di un inconvertibile modo di essere” (10). Gli uomini e le rovine di certo enne scritto nel 1952 dopo l’uscita dal carcere di Evola, non soltanto perché la presentazione di Junio Valerio Borghese, che il testo doveva averlo quindi letto, porta l’indicazione del “gennaio 1953”, ma anche perché un articolo dal titolo Demonia dell’economia veniva pubblicato sul primo e unico numero del nuovo “quindicinale dei giovani del MSI”dall’intestazione mussoliniana di Audacia! (la data era 25 novembre 1952) e con l’esplicita indicazione che veniva tratta “dal volume di prossima pubblicazione Gli uomini e le rovine”. Il direttore del foglio era sempre Enzo Erra, a capo del Raggruppamento Giovanile. Alcuni componenti di questo gruppo, grazie ad una certa disponibilità di denaro, in quel periodo danno via alle Edizioni dell’Ascia la cui ispirazione risultava subito chiara: “Con la pubblicazione di opera adeguate, le Edizioni dell’Ascia si propongono di contribuire alla conoscenza e alla valorizzazione di idee che, per il loro esser tradizionali e universali, nel presente clima di decadenza e di sovversione presentano un carattere nettamente rivoluzionario nel campo sia politico che etico e della concezione generale della vita. Sono programmate tre collane: 1) Tradizione; 2) Pensiero politico; 3) Panorami. L’Ascia è il simbolo, sia guerriero sia sacrale, che contrassegnò i popoli che, sulla fine del paleolitico, apparvero in Occidente come i primi esponenti dell’idea virile dello Stato”, si poteva leggere nella seconda pagina dei due unici volumi pubblicati dalla casa editrice. Poi, come rileva Julius Evola ne Il Cammino del Cinabro, “la promessa di appoggi non fu mantenuta” (11) e nessun’altra delle opere annunciate vide nell’immediato la luce. I libri che uscirono furono soltanto due: nella collana Pensiero politico proprio Gli uomini e le rovine e nella collana Tradizionale quel La crisi del mondo moderno di Guènon nella versione evoliana già apparsa nel 1937 presso Hoepli. La linea “spirituale” scelta è dunque ben chiara e si evidenzia ancora meglio se si esaminano i titoli annunciati, alcuni dei quali forse non vennero mai scritti, mentre altri sono poi apparsi anche se a grandissima distanza di tempo da quel 1953. Spicca l’influenza dei due “maestri” della giovane Destra di allora: Julius Evola e Massimo Scaligero, che seguivano strade parallele, divisi dalle idee ma uniti da una salda amicizia che risaliva agli Anni Venti, all’epoca del “Gruppo di Ur” (12). Del primo era annunciato Cavalcare la tigre, e del secondo La tradizione solare: erano stati soltanto pensati, erano stati abbozzati, in parte o del tutto scritti? Domande importanti dal punto di vista non solo bibliografico, ma anche per capire lo sviluppo del pensiero dei due autori, alle quali allo stato dei fatti, è impossibile rispondere con certezza. Si possono però fare verosimili ipotesi. Cavalcare la tigre, ad esempio, viene indicato come “di prossima pubblicazione” nell’elenco di “alcune opere dello stesso autore”; inoltre, il particolare che ne Gli uomini e le rovine compaiono ben tre rimandi precisi (p. 131, 151, 157) ai capitoli 4 e 8 di Cavalcare la tigre riguardanti Jùnger e l’irrazionalismo, può far legittimamente ritenere che nel 1952-3 ameno essi fossero stati già scritti, se non tutto il libro. Non si può non notare, inoltre, che se Evola pensava fin da allora di far seguire Cavalcare la tigre subito dopo Gli uomini e le rovine, ciò vuol dire che senza dubbio egli riteneva necessario già all’epoca che ad un’opera di “dottrina politica”dovesse tener dietro immediatamente un’altra di “orientamenti esistenziali per un’epoca della dissoluzione”, considerato dunque utile sin dai primi Anni Cinquanta, quasi una controparte personale di un discorso che era già stato esposto sul piano generale. Com’è noto, invece, quel libro dovrà attendere otto anni prima di vedere la luce presso Scheiwiller nel 1961, preceduto da altri due scritti: Metafisica del sesso (Atanòr, 1958 e L’ “Operaio nel pensiero di Ernest jùnger (Armando, 1960). Il libro di Scaligero (o perlomeno uno che aveva quell’antico titolo) dovrà aspettare ancora più a lungo, diciotto anni, perché apparve solo nel 1971 presso Teseo. Ci si può chiedere a questo punto il perché di tanto ritardo nell’uscita di Cavalcare la tigre. La risposta sembra evidente dopo la chiusura delle Edizioni dell’Ascia chi mai l’avrebbe potuto pubblicare? Non esistevano all’epoca editori disposti a tanto o anche semplicemente adatti: di quelli che ospitarono in quel lasso di tempo le due opere successive, Antanòr era specializzato in essoterismo, Armando in pedagogia, lo stesso Scheiwiller confessa di essere stato oggetto di “non poche incomprensioni” (13) per avere pubblicato Cavalcare la tigre, nonostante fosse un fiero antifascista: figuriamoci cosa avrebbero dovuto subire eventuali altri… piuttosto, si pone il problema che allo stato dei fatti sembra esserci una differenza di ottica fra Gli uomini e le rovine (1953) e Cavalcare la tigre (1961), che permane anche dopo le successive revisioni, ravvicinate fra loro, delle due opere (rispettivamente 1967 e 1972, 1971 e 1973): come a dire che all’inizio si potevano anche essere discrepanze fra i due punti di vista, ma che in seguito rivedendoli a poca distanza uno dall’altro l’autore avrebbe potuto – se lo avesse ritenuto opportuno – attenuarle. Ma è proprio Evola, del resto, che pone questi due libri in un rapporto allo stesso tempo di collegamento e differenziazione quando, ne Il Cammino del Cinabro (14) scrive ad esempio che un certo argomento de Gli uomini e le rovine – in questo caso “l’opposizione contro tutto ciò che è società, civiltà e costume borghesi” – viene ripreso e sviluppato “in una alquanto diversa prospettiva” nel suo “libro successivo”, cioè Cavalcare la tigre. Le due opere in origine, dunque, non dovevano essere una contrapposta all’altra come oggi alcuni le vedono (la prima l’Evola “politico di Destra”, la seconda l’Evola “anarchico di Destra”), ma integrate fra loro mutando solo le “prospettive”, quasi due facce di una stessa medaglia come si è già accennato, una dedicata all’aspetto ideologico-tecnico del militante che, insieme agli altri, è impegnato attivamente nel tentativo di costruire una corrente di Destra “ideale e spirituale”, l’altra dedicata all’aspetto essenziale, alla costruzione della personalità interiore di chi deve vivere fra le rovine per un tempo ancora lungo. Tanto più che le tesi sostenute in entrambe sono rintracciabili in sintesi negli “undici punti” di Orientamenti (1950). È ciò traspare proprio dagli argomenti consimili affrontati nelle due opere: ad esempio, la scelta delle tradizioni o il problema della sessualità ne Gli uomini e le rovine hanno una prospettiva di carattere generale, nel senso che le scelte private si ripercuotono a livello delle scelte di un intero “schieramento di Destra”, mentre in Cavalcare la tigre rimangono a livello del tutto personale. Questo, naturalmente, nelle intenzioni delle origini, perché poi fra la redazione e la pubblicazione trascorse quasi un decennio, tutti gli Anni Cinquanta, e certe “prospettive” mutarono, certe disillusioni di tipo politico sul MSI e la Destra in genere sopravvennero: ecco dunque l’opera originaria probabilmente in parte trasformarsi in una specie di manuale di sopravvivenza interiore per l’ “anarchico di Destra” che rifiuta intimamente il mondo che lo circonda eppure è costretto a viverci, e di sicuro venire aggiornata col riferimento a problematiche successive, nate o maturate dopo il 1953. Gli altri autori annunciati nell’elenco delle “prime pubblicazioni” compreso sia ne Gli uomini e le rovine sia ne La crisi del mondo moderno di Guènon rientravano tutti nel punto di vista tradizionale, spirituale, organico proprio di Evola e Scaligero, fossero essi stranieri come Malinsky e De Poncins come La guerra occulta, Othmar Spann con Il vero Stato. Reininger con Nietzsche e il senso della vita; o fossero quei giovani, seguaci dell’uno o dell’altro magari anche gentiliani, attivi all’epoca sia sulla piazza che al livello culturale, come Enzo Erra con Difesa dalla democrazia, Fabio Lonciari con L’Europa dell’Ordine, Franco Petronio con Mito e realtà del III Reich, Pino Rauti con Dallo Stato Parlamentare allo Stato Fascista, Fausto Gianfranceschi con Tempo di Jago, Primo Siena con L’idolatria del demos. È evidente che in un clima come quello in cui nel MSI fermentavano, soprattutto nell’ambiente giovanile composto anche da reduci di una guerra civile conclusasi appena otto anni prima, o che avevano fatto l’esperienza “clandestina” dei FAR, ancora aspirazioni di tipo “rivoluzionario”, e dopo un buon successo elettorale conseguito proprio quell’anno, il saggio di Evola dovesse contenere affermazioni “forti”, che poi quattordici anni dopo dovevano essere presentate in una forma diversa anche se uguale nella sostanza. Ad esempio, si può leggere nel Capitolo 1 di quella prima edizione: “I nostri avversari desiderebbero senza subbio che, cristianamente, nel segno del progressismo e del riformismo, colpiti sull’una guancia, si porgesse l’altra. Il nostro principio è diverso: “Fate agli altri quel che essi vorrebbero fare a voi: ma fateglio prima”. Che uomini sorgono in piedi fra le rovine, a costruire un nuovo schieramento, a stabilire frontiere rigorose fra l’amico e il nemico – è quel che ormai i tempi impongono. L’avvenire non sarà di chi si culla con le idee ibride, sfaldate e scadute predominanti nell’attuale clima politico bensì di chi avrà il coraggio del radicalismo: del radicalismo della sovversione ovvero del radicalismo della ricostruzione”. Si confronti questa p. 16 del 1953 con la p. 16 del presente volume, che riproduce quella della seconda e terza edizione del 1967 e del 1972, per rendersi conto come certi atteggiamenti necessari al clima degli Anni Cinquanta siano scomparsi, ma sia restata la sostanza d una dura opposizione rivoluzionario-conservatrice. Oppure quest’altro brano del Capitolo XV dedicato, nella dicitura originaria al “Problema delle nascite – Sessualità”: “Si è che la superpopolazione fa si che il sistema dei processi produttivi assuma dimensioni sempre più vaste, questi processi però, una volta in moto, richiedono a loro volta una sempre maggiore massa di consumatori e di bisogni nei consumatori, col che si determina un processo a catena che volge verso l’osservazione sociale, a oltranza del singolo, verso la soppressione di ogni spazio libero,di ogni libero respiro, di ogni movimento autonomo di fronte all’ingranaggio insolente delle metropoli moderne brulicanti, come nelle putrefazioni, di esseri più o meno anodini, di fronte al mondo della pura quantità, dell’economia onnipotente e della leniniana “completa elettrificazione della Terra”. In termini USA ciò viene chiamato prosperità”. Rispetto alle p. 221-2 del 1953 ora citate la p. 230 di questa edizione esprime si i medesimi concetti, ma in forma condensata: forse nel 1967-72 una simile critica alla “società del benessere”e dei consumi inutili e forzosi venne considerata dall’autore un po’ scontata, ma, dal confronto, le righe del 1953 non solo hanno più vigore e suggestione, ma stanno anche a dimostrare per l’ennesima volta come una critica ad un certo capitalismo selvaggio e anodino non sia appannaggio della Sinistra e che già da allora, senza attendere Marcuse e il suo “uomo a una dimensione”. Evola indicava e condannava i pericoli dell’asservimento a bisogni superflui e la schiavizzazione del consumatore forzato. Per quei giovani, che si espiravano alle idee sue o a quelle di Scaligero, con dei maggiorenni di partiti che già Evola vedeva persi nel gioco del conformismo parlamentare ed in quello delle alchimie correntizie, erano necessarie parole che rievocassero uno spirito di servizio, uno “spirito legionario”, che li nobilitassero a livello interiore, ideale, al limite emotivo e suggestivo. Il libro però, nonostante gli echi positivi, non riuscì nella sua opera di formazione di una “vera Destra” tradizionale e neanche di una “precisa corrente di destra” tradizionale all’interno del MSI, e gli ex giovani che alle sue tesi si ispiravano abbandonando man mano il partito singolarmente o a gruppi in occasione dei vari congressi succedutisi negli anni seguenti. I motivi di questo insuccesso? Molteplici, e intrecciati fra loro: la strategia politica della segreteria del MSI e in genere dell’intera sua classe dirigente, che non favorì, anzi ostacolò il diffondersi delle tesi evoliane; l’ostilità personale di antica data di alcuni personaggi di rilievo del partito, rinverdita dal risentimento per le più recenti critiche di Evola esposte sulle riviste di destra che gli concedevano spazio; il cima generale del paese, soprattutto quello morale e culturale, con l’egemonia dell’intellighentia comunista e, in subordine, cattolica, che metteva a bando un certo tipo di idee; il succedersi delle generazioni e quella che è stata definita la “diaspora” di molti politici, intellettuali, giornalisti, semplici attivisti spesso di matrice evoliana, verso atri partiti, altri posti di lavoro, altri quotidiani o semplicemente nel privato, con susseguente emorragia di forze culturali spesso accompagnata da un profondo risentimento, se non vero e proprio astio, nei confronti delle persone e anche dell’ambiente del MSI. Note 10) Fausto Gianfranceschi, L’influenza di Evola cit., p. 133. 11) Julius Evola, Il Cammino del Cinabro cit., p. 192. 12) Cfr. Gianfranco de Turris, Massimo Scaligero e Julius Evola, in AAVV, Massimo Scaligero: il coraggio dell’impossibile, Tilopa, Roma 1982. p. 120-133. 13) Vanni Scheiwiller, Nota dell’editore, in Julius Evola, Il Cammino del Cinabro cit., p. 7. 14) Julius Evola, Il Cammino del Cinabro cit., p. 187. 3 Millenovecentosessantasette - Millenovecentosettantadue I cinque anni compresi tra il 1967 e il 1972 sono gli anni di cui la situazione internazionale s’interseca ed ha riflessi con la situazione nazionale. È il periodo della “constatazione globale”che, partita dai campus statunitensi in funzione fondamentalmente pacifista e di “rivoluzione sessuale” (W. Reich), ma nella quale s’intrecciavano anche componenti mistiche e anti-tecnologie, giunse alla fine del 1967 pure in Italia, esplodendo negli atenei durante il fatidico Sessantotto, prolungandosi per oltre un decennio, ponendo le basi prima del cosiddetto “spontaneismo armato”, poi del terrorismo “rosso” e “nero”, dei gruppi clandestini delle formazioni guerrigliere, degli attentati, degli omicidi, dei sequestri, delle stragi. È anche il periodo in cui fiorì la “primavera di Praga” che i carri armati del Patto di Varsavia decisero di far appassire nell’agosto 1968. In quello stesso anno in Indocina l’ “offensiva del Tet” dei vietcong fallì nella sostanza e causò ai comunisti si pensa almeno 40 mila morti, ma non la si seppe sfruttare e quella vittoria venne perduta politicamente dagli Stati Uniti: Nixon successe a Johnson ed ebbe inizio la “vietnamizzazione” del conflitto con il conseguente disimpegno americano che si concluse materialmente nel 1973-4 e portò alla caduta di Saigon nel 1975. gli eroi mitici, i simboli dei “contestatori” in Italia e nel mondo occidentale a rimorchio, diventarono Ho Chi Minh, il generale Giap, Mao Tse-tung, oltre a Che Guevara. Nei cortei cartelli e sui muri scritte inneggiavano a loro. Poi si aggiunse Marcuse e nacque lo slogan delle “tre M” (Marx-Marcuse-Mao). L’esplosione generale coinvolse i giovani di destra e li trovò di solito spaesati e impreparati: anche loro erano contro una società di cui non condividevano i valori e che francamente avversavano, ma non in nome delle “parole d’ordine” e dei valori sostenuti dai comunisti, dagli ultrà “cinesi”. Come fare ad aggregarsi a manifestazioni, come appoggiare prese di posizione che propugnavano un tipo di società agli antipodi da quella da loro desiderata? Tanto più che nelle università e poi nei licei, dopo un esordio poco politicizzato, in cui le organizzazioni universitarie missine avevano partecipato alle occupazioni accanto a quelle di sinistra, era iniziata e sviluppata con violenza la “caccia al fascista”? In questa atmosfera nacque il fenomeno ibrido dei “nazi-maoisti”. Il MSI, contrario al “sistema” ma anche al marxismo e alle sue manifestazioni di piazza, si trovò subito in via ufficiale a contrastare le attività contestative. Fu Arturo Michelini, allora segretario del partito, ad ordinare la “spedizione” degli attivisti missini all’interno dell’Ateneo romano il 16 marzo 1968 per “cacciare i rossi dall’università”. Il MSI, si guadagnò così l’accusa di funzionare come “guardia bianca del regime”anche da parte delle sue stesse organizzazioni giovanili; subito dopo dovette pensare alla propria sopravvivenza nelle persone dei suoi iscritti e simpatizzanti che cominciavano ad avere vita difficile e pericolosa nelle scuole, nelle fabbriche, negli uffici essere considerati missini o anche avere idee genericamente di Destra equivaleva alla definizione di “fascista”. Venne coniato lo slogan “uccidere un fascista non è un reato”, scandito durante i cortei e le manifestazioni di fronte alle forze dell’ordine semi-impotenti. In un MSI che era in fase calante non si sapeva in pratica cosa contrapporre alle idee-forza allora emergenti nelle piazze e negli atenei. Nel 1967, uscì l’osannato L’uomo a una dimensione di Herbert Mancuse, che ha avuto 19 edizioni sino al 1983, cui Einaudi, dopo l’inaspettato successo, fece subito seguire in quello stesso anno Eros e civiltà, 11 edizioni sino al 1982; ma uscì anche la seconda edizione riveduta del libro di Evola: Gli uomini e le rovine presentava sempre lo scritto introduttivo del principe Borghese, era stato adattato in alcuni punti alle mutate circostanze contingenti restando comunque uguale a 14 anni prima nella sostanza e negli interni, conteneva alcune righe di Evola che ne spiegano senza equivoci il valore in quel momento rispetto alle intenzioni originarie, quello di formare uno schieramento di Destra sul piano “ideale e spirituale”: “Purtroppo le possibilità che sembrava si delineassero non hanno avuto sviluppo alcuno e il processo di franamento politico e morale dell’Italia è continuato. Ciò nondimento ho ritenuto opportuno che il libro, esaurito, venga ristampato. Di fatto, esso rappresenta – è deprimente constatarlo – l’unica esposizione di un pensiero “reazionario” antidemocratico ed antimarxista privo di attenuazioni e di concessioni che sia stata pubblicata dopo la seconda guerra mondiale non solo in Italia ma anche in Europa”. Il libro apparve per la casa editrice che l’ingegner Giovanni Volpe, figlio dello storico Gioacchino, aveva fondato nel 1962 con il nome Il Quadrato che però fu subito mutato: Evola vi collaborò sin dall’inizio consigliando tesi che poi spesso curava o semplicemente traduceva con il suo nome o lo pseudonimo di “Carlo d’Altavilla” (15), e pubblicandovi il breve saggio Il fascismo nel 1964. Per una coincidenza, dunque, il saggio di dottrina pubblicata di Evola usciva, dopo che per tanto tempo era stato assente dalle librerie e dai circuiti più specializzati di vendita, proprio nel momento in cui i giovani di destra, missini e non missini, avevano bisogno di idee chiare da contrapporre a quelle dominanti, reclamizzare su tutta la stampa, urlate nei cortei, spruzzate sui muri, inculcare a randellate. Erano idea che conosceva la generazione precedente e che la nuova poteva leggere soltanto in quei pochi fogli sui quali Evola riusciva ancora a scrivere: ma che diffusione avevano mai avuto? Ora esse tornavano di nuovo alla ribalta e non potevano venire ignorate. E così Evola, dopo essere stato per anni obliato e negletto e sul quale erano state diffuse tante stupidaggini, venne inopinatamente chiamato quasi in funzione di “ideologia” semi-ufficiale a prendere posizione “dal punto di vista della Destra” su una situazione che stava sconvolgendo molti dati acquisiti, proprio sulle pagine dei più diffuso settimanale di area, Il Borghese, che egli peraltro aveva diverse volte criticato la sua “stupidità intelligente” (16) anche se non in modo esplicito, e la cui tiratura allora raggiungeva anche le centomila copie. In meno di un anno, dal giugno 1968 all’aprile 1969, dodici articoli di Evola apparvero sulle pagine della testata fondata da Longanesi, articoli che avevano un chiaro scopo teorico e propositivo, cosa ad un simile livello quasi mai avvenuta su un rivista la cui caratteristica principale era quella della polemica, della critica e della satira. Gli argomenti: analisi della “contestazione” e delle idee su cui si fondava, problemi di attualità su cui occorreva dare un parere profondamente motivato, il tentativo di trovare i lati positivi delle tre forze di Destra dello schieramento politico italiano del tempo in vista di un ipotetico accordo anche solo tattico che non andò mai in porto. Gli argomenti in alcuni casi non erano nuovissimi per chi conosceva la produzione pubblicistica evoliana, ma sicuramente inediti per la gran parte dei lettori del periodico, senza dubbio ad un livello teoretico inusitato per quelle pagine. Insomma, si era sentita la necessità di ricorrere a colui che in seguito il segretario del MSI Giorgio Almirante avrebbe pubblicamente definito “il nostro Marcuse ma più bravo”, per se il suo atteggiamento nei confronti delle idee evoliane era stato in precedenza sempre critico, essendo Almirante sul versante “sociale” e “repubblicano” del partito. La verificazione che Evola portò nell’ambito dell’atteggiamento da tenere nei confronti della “contestazione”, del maoismo, di Mancuse, visto in un ambito molto più generale e profondo, fu essenziale e, al di là della demistificazione di quei falsi miti, si può comprendere con queste parole “una rivolta legittima, ma senza una controparte positiva e senza speranze”. Erano valide le spinte emotive, emozionali, “generazionali”, ma esse non si reggevano su alcunché. Del resto, i giovani missini, universitari o meno, che avevano attivamente partecipato alla “contestazione” nei primi mesi delle agitazioni in vari atenei italiani, almeno sino all’episodio della “battaglia di Valle Giulia” (17), erano in netta minoranza e non avrebbero potuto certo fare, anche se “accettati” sul piano politico, da “mosche cocchiere” di una stragrande maggioranza a orientamento comunista e anarchico. E del resto, man mano che la “contestazione” da “rivolta generazionale” passava ad essere sempre più politicizzata, l’utopia di venire almeno tollerati al di là delle barriere ideologiche svanì: l’esperimento dei cosiddetti “nazi-maoisti” si rivelò infatti assai pericoloso per i suoi sviluppi e foriero di enormi confusioni ideologiche. Erano altre le basi su cui doveva costruire la “contestazione globale”, e non al sistema, ma addirittura ad un dato tipo di “civiltà”, come affermava Evola sulle pagine del Borghese, e la Destra, che pur aveva avuto in mano i licei (con la Giovane Italia) e le università (con il FUAN) per tutti gli Anni Cinquanta e sino ad almeno la metà degli Anni Sessanta, non era riuscita a cogliere i frutti della sua opera forse proprio per la mancanza di una base ideologica più profonda di quanto non potevano essere un generico anticomunismo e un blando nazionalismo. Evola concluse all’improvviso la sua collaborazione al settimanale. È da chiedersi il motivo. Risposta invero imbarazzante, perché in realtà non lo si conosce con precisione. Non aveva di certo esaurito il suo compito, né sembra che fossero venuti ostracismi dal MSI, anche se alcuni austeri collaboratori del periodo non vedevano di buon occhio su quelle pagine la firma che già non avevano amato negli Anni Trenta e Quaranta per motivi sia ideologici sia del tutto personali (Giuseppe Prezzolini, Alberto Giovannini). Da parte sua Evola si limitava a dire che non gli erano stati più chiesti articoli. La risposta pare invece essere stata meno edificante erano riemerse con insistenza le antiche voci che Julius Evola… non portasse bene. Per “laico” che si proclamasse il direttore del Borghese, sembra proprio che alla fine vi cedesse. Se i motivi furono veramente questi, come spesso ci è stato riferito, certo non depongono a favore di un certo tipo di Destra. Evola, comunque, continuò a scrivere regolarmente su Il Conciliatore, testata acquistata nel 1967 per conto della casa editrice dal senatore Gastone Nencioni, affidata come

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