Amin Maalouf ci ha abituati a letture sorprendenti della storia del Vicino Oriente. Il suo racconto non si nutre soltanto di avvenimenti tramandati nella tradizione e nelle leggende, ma anche della cultura materiale, del paesaggio e dello straordinario spessore umano che le persone assumono in un ambiente dove il tempo ha continuamente sedimentato tante esperienze umane, tanti frammenti di realtà travolte dagli eventi. Ma quest’ultimo romanzo, nella sua acrobatica costruzione, è senza dubbio fra i più strani e coinvolgenti che si siano letti da molti anni a questa parte. Su un episodio autobiografico, nel quale l’autore vede materializzarsi un’immagine vista quarant’anni prima e rimasta viva nella sua memoria dall’adolescenza – un uomo riprodotto sulla copertina del testo scolastico di Storia -, si innesta da parte del personaggio ritrovato la narrazione dell’intera sua vita. Essa concorre alla ricostruzione della memoria storica dell’autore, con l’accavallarsi di avvenimenti violenti e distruttivi. Lo sfacelo dell’Impero Ottomano, la Prima guerra mondiale, i protettorati francesi e inglesi, la Seconda guerra mondiale e la lotta contro il Nazismo, i conflitti intorno alla nascita di Israele, la guerra civile in Libano, ecc., tutto ciò è vissuto sul destino di una sola persona, riportato in un resoconto apparentemente distaccato e orientale, in realtà sempre più concitato e drammatico, ma rassegnato perché ineluttabile. Rampollo della dinastia imperiale ottomana, il protagonista, Ossyan, scivola da una infanzia principesca, attraverso una giovinezza cosmopolita, vivace e travagliata, nell’esperienza di esclusione totale dell’internamento in manicomio. Ne uscirà dopo più di vent’anni con una prospettiva di recupero di sé in una dimensione strettamente privata. La restituzione che ce ne offre Maalouf, commossa e partecipata, costruisce una storia che, a mano a mano che gli episodi si accumulano, si fa più struggente e avvincente fino alla fine, fino all’indicibile.