Renato Massa GLI ANNI DI AIRONE RACCONTI DEL NATURALISTA 4 Titolo: Gli anni di Airone (Racconti del Naturalista 4) Autore: Renato Massa Tutti i diritti riservati all’Autore Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta senza il preventivo assenso dell’Autore. In copertina: Airone cenerino in palude Disegno di Sara Stradi [email protected] 0572-919233 GLI ANNI DI AIRONE di Renato Massa Sommario 00. Prefazione 01. Naturalista 02. Alpi 03. Galles 04. Seveso 05. Giessen 06. Borse venatorie 07. India 08. Nuovi libri 09. Scozia 10. In memoria 11. Gran Paradiso 12. Airone 13. Falchi migranti 14. Hong Kong 15. Bangkok 16. Kao-Yai 17. Klong-Nakah PREFAZIONE Il mensile “Airone” uscì per la prima volta nel maggio 1981 nella sua originaria, straordinaria versione ideata e diretta da Egidio Gavazzi. Fu una pietra miliare nella storia della editoria ambientalistica italiana, una grande occasione di crescita per tutti coloro che in quegli anni si occupavano di natura nel nostro paese. L’esperienza giornalistica e anche sociale da me vissuta nell’illustre testata di quel tempo rappresenta l’argomento centrale di questo e-book e gli dà il titolo. Altri temi di notevole importanza personale e talvolta anche generale nel periodo preso in considerazione riguardano la vicenda della diossina di Seveso, i difficili rapporti con il mondo venatorio, i viaggi di studio nel Regno Unito e quelli di esplorazione naturalistica in Asia tropicale, con qualche risvolto avventuroso e drammatico. Trent’anni fa, in quei luoghi, c’era ancora qualche foresta tropicale in più e si poteva provare il brivido di camminare attraverso una giungla dove si celavano le tigri, talvolta anche aggressive verso gli esseri umani. Escono di scena persone molto amate e altre entrano talvolta in punta di piedi, altre volte con molto rumore. Così è la vita per tutti, ognuno – naturalista o no – potrà fare paragoni con la sua storia personale. R.M. 1. NATURALISTA Dopo il mio viaggio sul Mediterraneo non avevo più dubbi, volevo diventare un naturalista, non mi bastava essere un biochimico da laboratorio, volevo diventare un autentico naturalista sul campo, studioso di zoologia, che potesse continuare a scorrazzare per il mondo in cerca di animali, che studiasse la loro vita e le loro esigenze per potere organizzare in modo scientifico la loro conservazione. La prima cosa che evidentemente dovevo fare a tale scopo era quella che non avevo fatto a suo tempo, iscrivermi al corso di laurea in scienze naturali e conseguire la laurea. Non sarebbe stata una passeggiata perché avrei dovuto sostenere una quindicina di esami e intanto avrei dovuto continuare e anche intensificare la mia attività scientifica, però non avevo scelta, avevo già avuto la grande fortuna di entrare in un istituto universitario di ottimo livello in qualità di chimico analista, però ero convinto che non avrei mai potuto godere di una autentica credibilità, soprattutto da parte di me stesso se non avessi anche conseguito un titolo di studio adeguato. Già così, ne ero più che sicuro, i colleghi avrebbero continuato ancora per anni a definirmi “chimico” oppure “endocrinologo”. Così è la vita, è difficile scrollarsi di dosso le etichette una volta che, a torto o a ragione, ci sono state incollate addosso. Un aspetto positivo della mia situazione, in realtà quello più importante per prendere la mia decisione fu la mia nomina nel ruolo di assistente ordinario a partire dall’autunno del 1974, grazie a una idoneità conseguita un anno e mezzo prima e ad una legge “salva-precari”, impensabile nella realtà di oggi e comunque molto criticata anche allora da alcuni personaggi universitari che dominavano la scena e anche la pubblicistica. Nella realtà, io credo che il personale docente reclutato in questo modo insolito non abbia affatto abbassato il livello medio della docenza, semplicemente abbia ottenuto il suo posto di lavoro con un tipo di concorso diverso (ma in fondo neanche tanto) rispetto a quello tradizionale. Volendo essere espliciti si potrebbe affermare che i precari salvati erano appoggiati dai docenti più anziani e influenti in modo piuttosto blando mentre i vincitori del concorso tradizionale erano appoggiati e, diciamolo pure, anche raccomandati in modo ferreo. Comunque sia, il fatto di avere ottenuto una posizione di ruolo nell’università mi permise senz’altro di lavorare e studiare più serenamente nei quattro anni di corso di laurea in scienze naturali. In questo senso, credo che un posto di lavoro fisso possa giovare molto alle persone che amano il loro lavoro e che la cosiddetta “flessibilità” tanto lodata dai cosiddetti neoliberisti altro non sia se non un precariato perenne che tiene in continua ansia, crea una forte dipendenza e limita la fantasia e la creatività, in sostanza danneggia gravemente l’economia che essi pretendono di salvare. Dei diciannove esami previsti per il corso di laurea di quel tempo me ne furono convalidati soltanto quattro (matematica, fisica, chimica generale, chimica organica). Dovetti rifare anche l’esame di mineralogia perché il corso per chimica non comprendeva gli elementi di petrografia (studio delle rocce) che erano considerati essenziali per i naturalisti. Fu un bene perché seguii daccapo tutto il corso di quello straordinario docente che fu il professor Rodolfo Crespi e finalmente riuscii anche a capire qualcosa della temuta cristallografia, con la conseguenza di imparare molto di più e prendere anche un voto molto più alto di quello che avevo conseguito nel corso di laurea in chimica industriale. Tutto questo, però, avvenne soltanto al secondo anno mentre al primo potei godere fino in fondo del corso di zoologia tenuto con molto garbo e competenza da un’allieva anziana del vecchio professor Silvio Ranzi, la professoressa Marisa Leonardi Cigada. Dopo il trenta e lode di questo primo esame proseguii con gioia ma anche con notevole fatica perché, mentre preparavo gli esami, incominciavo anche a pensare in che modo avrei potuto trasformare il mio lavoro per diventare, anche nella ricerca, un autentico naturalista. La prima proposta che feci a me stesso fu di utilizzare le tecniche biochimiche che fino a quel momento avevo applicato sul ratto per studiare i cicli riproduttivi degli uccelli in natura. Questa scelta merita di essere in qualche modo spiegata e, nelle righe che seguono, tenterò di farlo, sia pure brevemente. Il mio lavoro sul ratto verteva sul metabolismo del testosterone e in modo particolare sulla sua riduzione a 5alfa-diidrotestosterone da parte di una 5alfa-riduttasi. Si sapeva già che il metabolita ridotto presentava un’attività androgena più spiccata di quella del testosterone e che organi bersaglio come la prostata e le vescicole seminali del ratto erano in grado di convertire in misura massiccia il testosterone nel suo metabolita ridotto. Ora, per suggerimento di Martini, avevamo cercato l’enzima 5alfa-riduttasi anche nel sistema nervoso e avevamo trovato che in effetti vi era presente e che, quando l’animale era sessualmente immaturo oppure veniva castrato, l’enzima aumentava, come se il sistema nervoso tentasse di compensare la scarsità di testosterone con una sua conversione più massiccia nel metabolita attivo. Perciò, mi venne in mente che questo meccanismo potesse forse entrare in gioco nella regolazione dei cicli riproduttivi degli uccelli nei quali si possono spesso osservare cambiamenti morfologici e fisiologici stagionali assolutamente spettacolari. Si pensi, per esempio, che i testicoli di un fringuello in inverno non superano le dimensioni di mezzo chicco di riso mentre, nella stagione riproduttiva, crescono rapidamente fino ad assumere le dimensioni di un piccolo fagiolo. A questi cambiamenti fisiologici si associano forti cambiamenti nella livrea e nel comportamento con un forte aumento di motilità e di aggressività. Possibile che non accadesse nulla al metabolismo del testosterone a livello cerebrale? Per cercare una risposta a tale domanda, dovevo necessariamente sacrificare un certo numero di uccelli selvatici. Scelsi lo storno comune, una specie abbondante che a quei tempi subiva normalmente falcidie da parte dei cacciatori e che non rischiava comunque di subire perdite importanti per quelle poche decine di individui che sarebbero stati necessariamente uccisi per il mio esperimento. In un tempo e in un ambiente (quello degli ultra-animalisti) in cui tutti gli esperimenti scientifici sugli animali sono sommariamente definiti come “vivisezione” e in pratica sono considerati come un’opera del demonio, penso di dovere brevemente spiegare il come e il perché dei miei esperimenti cruenti sugli storni. Dovendo studiare un enzima presente nel cervello, non potevo fare prelievi di alcun genere ma ero costretto a uccidere gli animali e prelevare il tessuto nervoso che veniva poi studiato “in vitro”, cioè in provette. In altri esperimenti mi limitai a praticare iniezioni di vari ormoni e, dopo un certo tempo, a uccidere gli animali sempre per studiare “in vitro” le parti del loro corpo che pensavamo fossero state influenzate da ormoni. La sperimentazione sugli animali che io praticavo consisteva, in generale, nella somministrazione di farmaci per mezzo di iniezioni e nel successivo controllo, in vitro o in vivo, sugli effetti di tali farmaci. La parola “vivisezione”, immancabilmente usata da coloro che criticano questi esperimenti, è fuorviante e sostanzialmente crea un mostro immaginario gettando un discredito del tutto gratuito su persone che
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