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Filippo Maglione Ah, il sublime! PDF

63 Pages·2012·0.21 MB·Italian
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Filippo Maglione Ah, il sublime! Il mondo dal tavolo numero nove Ah, il sublime! La preesistenza del classico Preesistenza, necessità e durata Vasco e la semplice sublimità del nulla (incompresa) Il sublime del primo boccone (compreso) Il sublime di sentirsi stupidi La comprensione rivoluzionaria del ritorno La più sublime esperienza artistica della mia vita La volontà di dire La prima volta vedo, la seconda sento, la terza capisco Dove tutto per successo si legittima Ma la cucina è un’arte? Un format per il futuro Un micragnosissimo tabù da sfatare In articulo mortis In disperata ricerca di speranza Ecco un artista! Un tempio, che è una macchina infernale Trincerarsi in un luogo segreto, per sentirsi preziosi Intermezzo amalfitano Cilindrate gastriche Severino e il giuoco del calcio Il genio dell’antichità La vera contraddizione del genio a Ervio Ah, il sublime senza durezza, che tante cose cela e riconcilia, per i molti affatto impenetrabile poiché risuona da una nube. Gottfried Benn, Poesie statiche Ah, il sublime! Zbigniew Herbert, poeta polacco vissuto a caval- lo della cortina di ferro, esule per necessità e per vocazione, si è rifugiato per anni a Ferrara dove ha composto una bellissima e dolente raccolta di poesie dall’enigmatico titolo (Rovigo). È stato perennemente afflitto da ondate contrapposte d’ansia o vuota indifferenza. Si diceva sereno solo pensando, guardando, studiando, l’antichi- tà classica: “Studiare i greci e i romani è l’unica cosa che ci salva e ci permette di respirare sopra le nuvole”. Argomentava attorno alla misura e all’equilibrio che ci hanno insegnato i classici, in risposta al manganello della Storia e alla crudeltà della Natura. Era la sua parentesi sopra le nuvole: desiderio di simmetria, di semplicità, di senso e continuità tra ciò che precede e ciò che succede. Herbert non era un fesso, non ignorava le stragi e la schiavitù, gli incendi e i sequestri, gli stupri e i genocidi, le ripicche fratricide e sanguinarie tra città-stato, tra senatori, padri e figli, imperatori e usurpatori. Non ignorava nulla dello smisurato disequilibrio di quella che oggi chiamiamo epoca antica. Era la sua sublime finzione. Voler ma non poter più credere alla sublime fin- paradiso terrestre. zione è la condanna della modernità. È la mia con- danna, che intristisce e che alla lunga, temo, finirà Necessito di metafore poetiche che sovrastino il per abbrutirmi. E non è la mia vita in questione. caos in cui sono stato gettato, con questa testa e Non parlo di fortuna o sfortuna, ricco o povero, questo corpo, dentro la Storia, dentro la Natu- bello o brutto, riuscito o malriuscito. No, mi tor- ra. Necessito di qualcosa che a intermittenza la mento meno della mia vita, che della vita in quan- contraddica, la Natura, che nella sua cinica indif- to tale. Mi tormenta il suo smisurato e doloroso ferenza mi vorrà ridotto in sostanza putrescente disequilibrio che in mancanza di un senso diventa tra breve, inservibile al suo scopo riproduttivo. condanna. Quindi, soprattutto, mi tormenta il Necessito di molte metafore bellissime: piccole mio voler ma non poter più credere alla sublime sublimi finzioni, perennemente in bilico tra per- finzione per eccellenza, mi tormenta la mia incre- suasione e retorica. dulità, profonda e misteriosa, come la fede. Questo che segue è un tentativo di raggrupparne alcune in sequenza, legate tutte da un sottile filo Mi sono trovato già vivo, gettato alla nascita quag- conduttore, che vuole anche essere la perorazio- giù; alla fine mi coglierò ancor vivo, strappato alla ne di un’arte ancora misconosciuta ma sublime vita a cui nel frattempo mi sarò disperatamente (appunto) quant’altre mai. Tentativo germinato aggrappato. Mio malgrado, verrebbe da dire. Mi in solitudine al tavolo numero nove, esso stesso sono trovato in un attimo e mi perderò in un at- perfetta metafora di bellezza, in anni e anni di as- timo. E prima? E dopo? Il prima e il dopo è stato sidua e felicissima frequentazione. Tentativo ora immaginato per millenni al contrario di come ci concretizzato a giusta distanza, nei giorni di va- appare il reale: simmetrico, ordinato, e soprat- canza in Costiera Amalfitana, nel tiepido ottobre tutto con un senso. Un senso venuto prima e che del 2008. ritroveremo dopo. I classici, i greci, ci hanno tra- mandato la meravigliosa utopia della continuità, nel tentativo di ridurre il prima e il dopo in un qui e ora del tutto sensato, denso di simmetria e ordi- ne, di pura bellezza: la sublime finzione in vita, il 12 13 La preesistenza del classico Quel giorno la mia Pinarello sembrava andasse da sola. Avevo perciò deciso di scavalcare per la pri- ma volta i Berici e avventurarmi verso il territorio urbano di Vicenza. Dovevo solo stare attento a ri- manere sotto i centoventi chilometri complessivi, la soglia che allora - bei tempi - designava il confi- ne tra sofferenza e masochismo. Da un pezzo però il contachilometri aveva superato il sessantesimo, oltretutto una bava di vento-contro s’era messa a tagliare lo stradale. Ero già in procinto di girarmi e tornare, quando una misteriosa forza mi spin- se a superare l’ultima curva. Ampia e lunga. Una curva che avrebbe dovuto respingermi anziché attrarmi. Sebbene costeggiasse a sinistra un dol- ce declivio, presentava alla destra incipienti segni di speculazione edilizia industriale, i famigerati e lugubri capannoni che punteggiano senza pietà anche gli angoli più ameni del territorio veneto. Inopinata, la Rotonda mi sorprese come in so- gno; un sogno color dell’avorio. Il suo aspetto volumetrico, così compatto, faceva pensare a un modellino posato dall’alto da un artefice spen- sierato e benigno. Nonostante troneggiasse alla sommità della risibile altura, appariva del tutto 15 priva d’ostentazione, in perfetta armonia col bo- Preesistenza, necessità e durata schetto e il declivio. I pieni e i vuoti era come se assecondassero un ritmo naturale indispensabi- le alla musicalità dell’intero paesaggio a perdita d’occhio. Pensai proprio alla musica, senza però Così come la Rotonda di Palladio, molte opere di riferirla a un suono specifico, a delle note. Guar- Johann Sebastian Bach, il procreatore più famo- dai meglio da più angolazioni; avvicinandomi mi so della storia della musica, paiono preesistere. colpì l’aderenza al terreno, dal quale sembrava Cosa contraddistingue ciò che definisco preesi- emergere come rigoglioso elemento naturale, gi- stenza? Cos’ha in più di ciò che semplicemente gantesco tubero, candida spigolosa radice. Man esiste? E come si può usare uno stesso metro di mano acquisiva concretezza senza perdere nulla giudizio per prodotti così diversi come una villa in termini di ideale armonia. e una sonata? La mia fantasia era quindi in grado di immaginarla Potrei dire che preesistenza è sinonimo di neces- sia calata dall’alto che innalzata dal basso, come sità e durata; ma questo ancora non spiega, non per magia, non certo in virtù di studi sofferti e chiarisce. C’è un salto di senso tra le parole, che duro lavoro. L’idea stessa di una crescita pro- vorrei colmare con immagini più concrete. gressiva pietra su pietra, mattone su mattone, di Torno allora al giro in bicicletta. Palladio mi si un polveroso cantiere, di squadre di muratori, di è presentato di soppiatto, perfettamente scono- un capocantiere... appariva ai miei occhi del tut- sciuto a lato di un anonimo stradale. Partendo da to fuori luogo, quasi ridicola. La Rotonda urlava casa, tutto ciò che avevo visto fin lì poteva dirsi preesistenza. E pace, serenità, semplicità, silen- semplicemente esistente. Case, prati, capannoni, zio, come mai prima. Mi distesi sul prato, in asse vigne, contadini, passanti, ciclisti: era tutto l’esi- con uno dei suoi spigoli. Mi assopii poco dopo stente di quel giorno, quanto me, ciclista del fine con la bici al fianco, pacificato e docile. settimana. Ma tranne me, necessario in quanto appercettore, ognuna delle cose elencate pote- va non esistere: non avrebbe modificato nulla di quella giornata. La Rotonda no. È arrivata, trami- te la sua bellezza, a modificare non solo quel gior- 16 17 no, ma la mia intera esistenza perché guardandola (l’affetto) con l’opera d’arte è di tutt’altra natura ho sperato di capire qualcosa in più di me, della e profondità, evidentemente; ma può estendersi vita e della morte. Così come, per esempio, con la fino a coinvolgere, in potenza, tutti. Nei secoli. A Ciaccona della Partita numero 2 di Bach ho spe- volte attraversa i millenni come un’eco profonda rato, e spero, di capire qualcosa in più di me, della che intreccia le sensibilità di milioni e milioni di vita e della morte. L’opera d’arte preesistente so- uomini e donne di tutte le epoche, che avranno miglia quindi a un affetto, anzi: è un affetto vero e così condiviso ideali comuni pur adattati a lin- proprio perché ci parla, accorata, di cose intime, guaggi sempre diversi. importanti. Ecco perché la grande opera d’arte, in qualsiasi Ogni affetto, a ben pensarci, sembra preesistere. epoca venga vista o riscoperta, apparirà sempre Si dice all’amata o all’amico del cuore: mi pare di viva e perciò, ancora e sempre, contemporanea. conoscerti da sempre, e con ciò vogliamo esprime- Ecco perché guardando alcune opere ben conser- re il senso di necessità di quel rapporto tramite un vate vecchie di millenni, ho provato una vertigine ideale vincolo familiare. In ogni affetto c’è un sen- affettiva quasi insopportabile; ripiegata all’indie- so di costante scoperta che è segno di continuità tro, certo, ma rivolta al futuro. con ciò che c’era prima e non si conosceva anco- ra, e ciò che sarà, quasi come una preveggenza. L’affetto è tempo che non muore, che idealmente preesiste, prima della vita, e idealmente perdura, oltre la morte. Si può infine dire che il capolavoro è, per chi lo percepisce, un affetto; così come si può dire che ogni affetto sia un capolavoro. Con la differenza che un affetto (un figlio, un genitore, una compa- gna, un amico) riguarda me e mia figlia (mio pa- dre, mia madre, mia moglie, l’amico) e viceversa. È tutto profondissimo, gli intrecci possono esse- re molteplici ma il giro è circoscritto. Il rapporto 18 19 Vasco e la semplice sublimità del nulla (incompresa) In attesa di Novantesimo minuto per fissare nella memoria la nuova prodezza di Ibra, resto colpi- to dall’ultima canzone di Vasco Rossi. È Mollica, con la sua solita entusiasta acritica e bonaria piag- geria, che la presenta in anteprima tramite un vi- deo in cui lui, Vasco, in camicia bianca all’interno di una stanza vuota, canta stonato col suo sguar- do da vecchio infante innocente, delicatamente spento e irrancidito. Delizioso, penso, seguire il suo sguardo assieme al flusso delle parole. Anto, al mio fianco, dice che è bravo ma che sembra re- citare. Lei lo conosce meglio di me, per cui non replico. A me pare faccia sul serio. La musica non è niente, un giro di accordi in progressione, ine- vitabile giochetto ideale per compiacere il merca- to e le maree adulanti. Il pezzo si regge solo sul paio di versi con cui s’apre e quasi subito si spen- ge sotto le note che conducono a nulla (perfetta corrispondenza tra significato e significante?). Cerco su YouTube un documento: voglio venirne a capo perché m’è parso ci sia dentro molto anche di me, in quelle due scarne strofe. Qualcosa di si- mile a ciò che molti grandi poeti hanno tentato di 21

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sti decenni nei confronti di affari ben più seri di questo. Giusto ieri sul Corsera un articolo piut- tosto ben imbastito evocava il timore che Barack.
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