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ECONOMIA NAZIONALE E MERCATO MONDIALE la fase transnazionale dell’imperialismo PDF

31 Pages·1995·0.325 MB·Italian
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Gianfranco Pala _________________________________________________________________ ECONOMIA NAZIONALE E MERCATO MONDIALE la fase transnazionale dell’imperialismo _________________________________________________________________ Laboratorio politico, Napoli 1995 Me-ti raccomandava un’estrema cautela nell’uso del concetto di popolo. Egli riteneva lecito parlare di un popolo in opposizione ad altri popoli o nella locuzione i popoli stessi (in opposizione ai loro governi). Per l’uso comune proponeva invece il termine popolazione, perché non ha quel che di artificialmente unitario simulato dalla parola popolo. Questa viene infatti spesso usata là dove si intende e si può intendere propriamente solo nazione, ciò che significa una popolazione con una particolare forma statale. Gli interessi di una siffatta nazione non sono però sempre gli interessi del popolo. [Bertolt Brecht, Me-ti: il libro delle svolte - Popolo] I. IL TRIANGOLO CIRCOLARE ovvero, lo Stato della Cosa Blob: la Cosa più orribile che abbia mai visto La Cosa che sovrastà e sovrasta - indubbiamente oramai sull’universo mondo, fragile globo di cristallo - è, si sa, il Capitale: che bensì “cosa” non è, ma piuttosto “rapporto sociale”. Così si usava dire tra marxisti in tempi meno bui epperò politicamente e culturalmente più validi, giacché più contrastati e meno omologati. Il suo stato, considerato come condizione critica irrisolta, e il suo Stato, inteso invece in quanto rappresentazione politica e istituzionale - entrambi - impediscono a chicchessia non solo di prefigurare, ma anche appena di figurare, una qualsivoglia tendenza certa e stabile nella dinamica della futura divisione internazionale del lavoro. È arduo, cioè, prevedere quale sarà quel che si suol dire lo “stato delle cose” - ovverosia lo “Stato della Cosa” se, per l’avvio, si accetti provvisoriamente di prendere le mosse da ciò che è il Capitale in quanto totalità: unità sì, tuttavia ideale in quanto realmente contraddittoria nella sua molteplicità. Già, perché lo Stato del moderno Capitale non può più essere quello che pretenda di racchiudere questo nella sofferenza di una pelle nazionale. Ma non può neppure essere, istituzionalmente, uno Stato transnazionale che appaia adeguato al respiro universalistico, ancorché asfittico, del grande capitale monopolistico finanziario dei prodromi del XXI secolo: non può esserlo per difetto di categoria teoretica, ancor prima che pratica. Ossia, nessuno può pensare di dire: “ancora non lo è, ma poi potrà esserlo e lo sarà”. Dappoiché è nella natura immanente del Capitale stesso - per la sua totalità contraddittoria quale si palesa sul mercato mondiale unificato - che quella sua “unità” di classe, concettuale ed empirica, non possa giammai trasporsi in “unicità” di figure e forme di esistenza. Ci si soffermi appena un attimo a soppesare opportunamente il carattere virtuale dell’unicità dell’unità capitalistica, a partire dall’osservazione delle contraddizioni del conflitto di classe. Esse, oggi più che mai, si palesano attraverso la visibilità della dis-uguaglianza del rapporto di capitale, in quanto antagonistico. L’uguaglianza dello scambio salariale, non lo si dimentichi, si fonda proprio sul comando e sulla disposizione della altrui volontà, nell’uso della capacità di lavoro e pluslavoro altrui. E proprio dietro la manifestazione di tale uguaglianza formale si cela quel carattere duplice del rapporto di capitale, peculiare della riduzione a merce della forza-lavoro, che rappresenta il segno epocale che distingue in maniera esclusiva il modo capitalistico della produzione sociale. Ora, è precisamente questa forma dell’antitesi sociale che connota il Capitale, nella sua unità e in quanto tale, in contrapposizione al lavoro salariato. Ed essa verrebbe meno, lasciando il posto ad altre forme di relazione, immediatamente e formalmente dispotiche, qualora cessasse la competizione tra i molteplici capitali particolari, ossia propriamente quella molteplicità medesima. Nessuno può negare che entrambe quelle condizioni costitutive sussistano ancora oggi. Anzi, esse crescono per estensione e forza su loro stesse. Certo, il problema che si pone agli osservatori - soprattutto a quelli antagonisti - è di non cadere nella confusione e nell’indistinzione che caratterizza i più, a causa delle forme mutate, e più contraddittorie, attraverso cui si rappresenta “lo stato della cosa”: sia dal lato delle modalità di lavoro, sia da quello del mercato mondiale di concorrenza tra monopoli transnazionali. E questo è ciò che conferma la capacità del capitale di imporre al lavoro sociale la dipendenza reale nella doppiezza di uguaglianza, libertà e in-dipendenza giuridico formale, e a se stesso in quanto altro da sé la “libera” concorrenza. Dunque, alla luce di queste categorie semplici, epperò molto difficili in quanto semplici, l’ultimo quarto di secolo della storia contemporanea riceve una lettura, in un divenire del processo dialettico non conchiuso, che altrimenti assai probabilmente non si riuscirebbe a dargli. L’avvio si può datare alla seconda metà degli anni sessanta, con l’eccesso di sovraproduzione americana. [È istruttivo notare che la crisi da sovraproduzione è riconosciuta dai tecnici aziendalisti ma non dagli “economisti illuminati” (come li chiamava Marx), blasonati o premi Nobel; per fortuna, di recente, almeno Sweezy si è ricreduto sulle cause e le origini della crisi mondiale, autocriticando la favola che tutti si sono andati raccontando sugli shocks petroliferi]. Ma una svolta significativa si maturò tra il 1974 e il 1976. Fu allora che l’imperialismo multinazionale, per bocca del suo massimo portavoce, Henry Kissinger, disegnò esplicitamente ciò che solo la “sinistra” non riuscì a capire, e forse neppure a leggere attraverso i documenti ufficiali scritti nero su bianco: il piano trilaterale di spartizione del mercato mondiale in base al Nuovo Ordine economico. Fu proprio su quella base che il capitale imperialistico transnazionale riuscì a eliminare senza pietà la capacità di lotta e l’identità stessa dei proletari. E al successo della controffensiva della borghesia mondiale è da attribuire un significato tanto più drammatico se si rammenta che all’epoca ancora risuonava l’eco di parole uscite stoltamente dalle bocche di cospicui dirigenti riformisti. Valga a esempio quanto suggerito dal “consiliori” di Berlinguer, per la sua relazione al congresso del fu Pci nel 1976. Secondo tale avventata opinione “la ricostituzione dell’esercito industriale di riserva oggi cessa di essere la via principale per superare la crisi”: a dispetto di cotanta sicumera, il tasso di disoccupazione a due cifre rimane ancora una realtà, fino ai quaranta milioni di senza lavoro nell’area Ocse, a cui si aggiunge la precarietà di lavoro di salario e di pensione per quasi tutti gli altri. Che tuttavia neppure tale controffensiva sia bastata è stato confermato dagli ultimi strascichi che si ebbero con i “fuochi” del 1989 per la conquista dell’Europa centro-orientale, quando ormai il proletariato mondiale, compreso quello dell’area del realsocialismo, era in rotta totale. Ma i tre attori principali del mercato mondiale capitalistico - gli stessi, o quasi, già indicati da Hobson e Lenin poco meno di un secolo fa: gli Usa, il Giappone e la Germania - dopo aver cancellato anche la pallida ombra dello spettro che si aggirava ancora per l’Europa, avevano bisogno di stringere i tempi per dettare le regole dello scontro. Il regolamento di conti perciò veniva spostato sempre più chiaramente all’interno della tripolarità imperialistica. Tuttavia, il significato di “interno” - in un mercato mondiale capitalistico unificato - non è di tipo geo-politico, come può apparire alla superficie delle mode globalizzanti e sistemiche [una cui critica sarà precisata più avanti], ma pertinente alle categorie storico-economiche. In effetti, fin dall’inizio dell’ultima crisi dell’era americana, appunto un quarto di secolo fa, lo scontro interimperialistico - per la sua stessa definizione transnazionale - non poteva limitarsi al confronto diretto tra i tre poli dominanti. Il loro raggio d’azione attraversa dunque l’intero mercato mondiale, provocando sempre più spesso situazioni di collisione indiretta. Gli è che i signori del pianeta non possono (ancora) permettersi che una eventuale collisione diretta travalichi la dimensione economica, commerciale, ambientale, ecc., assumendo caratteri militari non mediati. È così che la loro falsa concordia e collaborazione reciproca mira con urgenza a tradursi in reale accordo sulle nuove forme di comando sul lavoro. Ma con la peculiarità dell’epoca contemporanea questo comando lo si offre con un’immagine di solidarietà neocorporativa tra le classi sociali, all’interno di ciascun paese e nel mondo intero. Tuttavia, le cose non stanno realmente così come appaiono, nel mercato mondiale dell’imperialismo transnazionale. Esso, sotto il segno del declino Usa, è pesantemente attraversato dalle “classiche” contraddizioni del capitale: in questa fase, si è detto, più quelle interne alla classe dominante che non quelle tra le classi, che delle prime hanno la possibilità, spesso perduta, di diventare momento di amplificazione, rovesciandosi ulteriormente su quelle come loro detonatore. Ma la sinistra, anche quella di classe, esita a cogliere simili occasioni destate precisamente da quelle contraddizioni del capitale che l’ideologia borghese nega, nasconde o lascia fraintendere. Infatti, il grande - e anche il solo - successo del capitale mondiale negli ultimi quindici anni è consistito proprio nella rammentata capacità di spezzare provvisoriamente la forza della classe antagonistica, sconfiggendola ovunque, e annullandone coscienza e identità. Ma codesto, appunto, è per ora l’unico vero successo del capitale nella fase della sua più prolungata e profonda crisi di questo secolo - e forse della sua intera storia moderna. L’occhio dentro il triangolo L’attuale forma tripolare del potere imperialistico - con le sue ricorrenti espressioni di conflittualità (non solo) economica tra capitali, stati, nazioni - indica tuttavia la misura in cui quei tentativi di risoluzione non si siano compiuti. Si è accennato come codesta “tripolarità” sia stata a lungo ignorata - soprattutto dall’intellighentsia, di destra o di sinistra poco importa, che preferiva trincerarsi dietro la meschina reiterazione della tesi dello scontro politico militare tra le due superpotenze, americana e russa. Nondimeno, codesta forma di aggiustamento del potere imperialistico fu chiaramente annunciata dalla grande borghesia multinazionale come l’evento di grande momento degli anni settanta, quale segno tangibile di quella conflittualità. Tale forma - di fase - dello schieramento internazionale fa sì che i disagi economici e sociali, e la conflittualità corrispondente, possano prendere corpo e manifestarsi negli elementi deboli entro la totalità del mercato mondiale: rappresentandosi, per così dire, in scontri “per interposta persona”. I casi estremi, allora, sfociano in conflitti armati circoscritti, cosiddetti di debole intensità. Esemplare, da decenni, è lo snodo del golfo persico, tra confine ex- sovietico, medioriente e questione israelo-palestinese, con capovolgimenti di fronte e di alleanze, attraverso Egitto, Siria, Giordania, e ancora prima la “guerra delle città” Iran-Irak, poi Irak-Kuwait, sempre palestinesi e kurdi, ancora Irak-Iran, e così via, fino al “cerchio del Caucaso”. Il rimescolamento delle alleanze e degli schieramenti è continuo, con il solo fine di rendere più “debole” non già il conflitto ma l’avversario di turno. I contendenti in campo (i subalterni, soprattutto) appaiono solo come simulacri dei veri protagonisti dello scontro: laddove chi dice Baghdad vuole solo che Bonn o Tokyo intendano, e dove quindi gli “alleati” ufficiali sono sovente i nemici veri. E qualora un confronto diretto non sia reputato opportuno e conveniente, l’esperimento “libanese” può essere riproposto come soluzione di transizione: di ciò si tratta nella replica jugoslava di quell’esperimento. Nell’attesa di tempi più consoni per la ripresa del ciclo di accumulazione del capitale su scala mondiale, i simulacri offerti da razze, etnìe, nazionalità, religioni, sono pezzi di ideologia bell’e pronti per scatenare conflittualità sanguinose in nome delle diverse appartenenze fideistiche e integralistiche. Dai Balcani al Caucaso alle regioni centronordorientali dell’Europa, per non dir delle metropoli Usa, è tutto un fiorire di simili provocazioni. D’altronde, già vent’anni fa - come si preciserà meglio più avanti - si sarebbe potuta prestare maggiore attenzione al dispotismo militaristico della strategia kissingeriana che postulava la necessità di quei conflitti interni di “debole intensità”. Si sarebbe vista tempestivamente la tendenza verso la lacerazione sociale interna e il dissolvimento dei vecchi stati nazionali deboli, sempre più sottoposti a controllo stringente da parte dell’imperialismo transnazionale. E, assieme a codesta tendenza alla disgregazione delle vecchie formazioni nazionali, il ritorno pretestuoso e falsificatorio, in chiave post-moderna (o sur-moderna, come amerebbero forse ora dire i più à la page), a conflitti mascherati come sub-nazionali, regionali ed etnico- religiosi. Se quegli eventi oggi accadono quotidianamente, non si trattava ieri o ier l’altro di una “profezia”: il nostro povero globo è di cristallo solo per la sua fragilità. Bastava un’attenta lettura critica della realtà annunciata. Stupirsi oggi di ciò, e indignarsene, è curioso e preoccupante. Ciò che unifica provvisoriamente il disegno contraddittorio del nuovo ordine mondiale, perciò, è ancora solo la capacità di provvedere a una continua e crescente intercambiabilità degli schieramenti che si confrontano. In una sorta di “torneo”, i cavalieri mandati in campo dai loro prìncipi sono chiamati a scontrarsi a turno l’un contro l’altro armati, senza che ciò precostituisca alleanze fisse e definitive. Che ogni volta vinca il “migliore”, in un gioco al massacro senza fine: i capitalisti dei monopoli finanziari transnazionali - nuovi allibratori delle guerre locali e civili - accettano scommesse! Qui l’hobbesiano tutti contro tutti, però, trova una sorta di “regolazione” sovranazionale, con arbitri (Onu, Nato, Csce) e revisori di conti (Fmi, Bm, Omc ex Gatt), dove i cavalieri in guerra devono attendere pazientemente e diligentemente il loro turno per scendere in lizza: cosicché possano ricevere l’occasionale sostegno, a rotazione, da parte dei mandanti (diversi e uguali a un tempo), secondo le ferree leggi dell’economia mondiale del mercato dei capitali. Il vero, l’autentico tutti contro tutti, è ancora una volta riservato, dai potenti della terra, al massacro e alla “guerra tra poveri” sull’intero pianeta. Si è infatti già anticipato - a livello teoretico “semplice” - che il reale grande problema attuale dell’imperialismo transnazionale consiste proprio nel non riuscire a stringersi in un polo unico. Né, verosimilmente, potrà mai esserne capace, in quanto capitale. La contraddizione intrinseca al capitale stesso è proprio questa: non poter ridurre all’uno il molteplice. Di qui procedono tutti i suoi tentativi di risoluzione delle proprie contraddizioni, per porre via via nuovi fondamenti al suo stesso modo di produzione. Al nuovo ordine mondiale del lavoro è dunque affidato il compito di rovesciare le contraddizioni interimperialistiche sui proletari di tutti il mondo, coartando il loro stesso consenso. In ciò rientrano le ricordate tendenze concilianti e consociative, che si risolvono nel corporativismo vecchio e nuovo; fino a una possibile fuga, in prospettiva lunga, al di là dello stesso modo capitalistico della produzione sociale, verso una nuova forma classista di società dispotica e autocratica. L’attuale fase della tripolarità, tuttavia, nella misura in cui il nuovo ordine mondiale del lavoro si consolidi, è già capace di costruire e mostrare interconnessioni reali tra segmenti e comparti del capitale finanziario industriale attraverso i tre poli stessi. Nell’attuale forma di scomposizione e articolazione del ciclo di produzione e lavoro su scala mondiale, si osservi che ben più della metà dei cosiddetti beni intermedi e semilavorati dell’industria manifatturiera delle tre principali aree imperialistiche del mondo ha ormai, reciprocamente, una provenienza d’origine, diretta o indiretta, esterna. Il “triangolo” mondiale è percorso trasversalmente da flussi di capitale - denaro, elementi produttivi e merci - i cui interessi particolari e locali torcono e rompono i lati del triangolo medesimo. Così, i suoi stessi angoli si smussano e tendono piuttosto a inscriversi in un cerchio. Nella misura in cui il grande capitale monopolistico finanziario transnazionale addivenga, attraverso il nuovo ordine mondiale del lavoro, a siffatta forma di mediazione delle proprie contraddizioni interne, una nuova fase di ripresa dell’accumulazione su vasta scala e di “stabilità” capitalistica non è impossibile. Del resto, la stabilità politica economica è il presupposto sociale per l’accumulazione di capitale; tant’è vero che la borghesia la richiede (l’impone o l’accètta) sotto forma di “governabilità” senza badare troppo per il sottile al “colore” dichiarato del governo. Purché sia “stabile” qualsiasi governo capace di esercitare controllo sociale sulle masse proletarie va bene, da Pinochet a Marcos, da Jaruszelski a Deng Tsiao-ping, qualsiasi dispotismo è sostenuto, ma soltanto finché si mostri in grado di garantire la “pace sociale”, ossia la pax capitalistica [per questo motivo la grande borghesia internazionale considerava un Craxi più “affidabile” di un Berlusconi, inadempiente proprio sotto questo riguardo]. Nelle forme in cui si è maturato lo sviluppo della crisi - tra le diverse manifestazioni di supposta risoluzione della contraddizione, dopo quest’ultimo quarto di secolo - si sono perciò venute prospettando due tendenze, contrapposte ma entrambe necessarie. L’una centripeta, tendenzialmente unificante nella prospettiva sovranazionale del capitale mondiale; l’altra centrifuga, ma all’interno della prima, strutturalmente articolata nel contesto concorrenziale dei capitali particolari. Il cerchio intorno al triangolo La costruzione del nuovo ordine mondiale corporativo si va consolidando, includendovi ora anche l’area dell’ex-realsocialismo, che se oggettivamente è quasi sempre stata parte integrante del mercato mondiale, tuttavia per troppo tempo lo è stata in forma anomala e ridotta. Da un lato, dunque, la tendenza perseguita mira a un processo considerato come universale; la sua effettuazione, però, non può che verificarsi attraverso àmbiti locali e nazionali, attraverso grandi riforme istituzionali (nel migliore dei casi) o guerre regionali (nel peggiore). D’altro lato, non si estingue tuttora la conflittualità tra i molti capitali sul mercato mondiale; è una conflittualità per molti versi ancora latente, se pur crescente, e ancora abbastanza lontana, come si è detto, da una risoluzione che possa essere significativa di una qualche stabilità. Tale contraddizione tra universalità e conflittualità dei capitali finanziari transnazionali non può che essere mediata - se del caso, anche con la forza - da quella tra stati nazionali. Ecco allora che codesta contraddizione, immanente alla conflittualità interimperialistica tra i “tre poli”, si mostra parimenti, al contrario, nella ripresa di un incessante incrocio dei cosiddetti Ide [investimenti diretti all’estero] da parte dei principali capitali transnazionali; e tale processo avviene non solo e non tanto verso le differenti aree dominate, quanto e più in direzione delle basi di provenienza degli altri capitali concorrenti. Il nuovo ordine mondiale, proprio attraverso la sua forma storica strategica di nuovo corporativismo, tenta perciò una sintesi nell’unificazione del mercato mondiale. Sintesi che - in mancanza dell’impossibile soppressione della molteplicità capitalistica - provi almeno a surrogare, regolandola e impedendola realmente, l’internazionalizzazione del proletariato a esclusivo vantaggio dell’internazionalizzazione del capitale. Questo è l’ultimo vulnerabile tentativo di accordo tra i capitali in lotta, per rinviare ulteriormente il loro scontro tra “fratelli nemici”. Si tratta ancora di un processo aperto, che si è svolto a tappe: proprio a partire da quella lunga ultima crisi irrisolta avviatasi in Usa alla metà degli anni ‘60 che, non per caso tra le altre conseguenze, causò anche il rinvio dell’unificazione europea. E di nuovo non fu un caso che la controffensiva imperialistica della metà degli anni ‘70 fosse, sul piano politico, in prevalenza ancora americana. Si è rammentato che Kissinger riformulò per la prima volta nel secondo dopoguerra la parola d’ordine corporativa del Neue Ordnung mondiale. Ma, in termini economici produttivi, tale disegno già consolidava la ristrutturazione di stile “giapponese” del processo lavorativo. La redistribuzione di rapina monetaria degli anni ‘80: a questo in realtà si riducono i fasti del reaganismo! A cominciare dall’esportazione del credito che creò il problema del debito estero, si è passati a quella “esportazione interna” di capitale - per dirla con Grossmann - che è stata la speculazione monetaria e borsistica. Ciò, ovviamente, non pose le condizioni per risolvere la contraddizione: cosicché, da ultima, all’avvio degli anni ‘90, fu tentata la soluzione finale della guerra fredda e dell’anomalia realsocialista. Si osservi che i “fatti” di questa storia venticinquennale della crisi irrisolta indicano chiaramente anche le categorie della crisi, da cui emergono gli elementi di conflittualità tra i tre poli imperialistici: sovraproduzione, caduta del tasso di profitto, concorrenza, segnarono gli anni ‘60; arresto dell’accumulazione, riproduzione dell’esercito di riserva, in tutte le sue forme, soprattutto stagnante (e non solo della disoccupazione in senso keynesiano), precedettero la ristrutturazione della seconda grande rivoluzione industriale, a partire dagli anni ‘70; centralizzazione finanziaria ed espropriazione dei capitali e dei redditi dispersi (del cosiddetto risparmio) caratterizzarono il monetarismo degli anni ‘80; spartizione e allargamento del mercato mondiale, infine, furono la conseguenza che si protrae nelle forme della guerra economica, a segnare l’avvio degli anni ‘90. Le contraddizioni tra Giappone, Europa e Usa si estendono alle rispettive aree di influenza, asiatica, europea e americana, attraverso un’estenuante ricerca di mediazioni per non vanificare i ricordati interessi incrociati dei grandi gruppi transnazionali. Qui rientra il contenzioso mediorientale, la contraddizione “islamica”, la “carta cinese” giocata per truccare la partita col Giappone (in tutta l’area asiatica del Pacifico), la normalizzazione dell’America latina, la “fiera dell’est” dai Balcani al Caucaso, la riconquista dell’Africa. C’è forse ancora chi pensa che sia per fortuita coincidenza che gli investimenti giapponesi abbiano preso le distanze dal medioriente verso nuovi sbocchi in Africa centrale e che subito le armate yankees siano sbarcate in Somalia, e si sia cercato di fomentare disordini in diversi paesi africani, dalla Liberia al Ruanda, all’Algeria? Nel frattempo l’Onu predica investimenti diretti nel terzo mondo, anche come antidoto contro i “rischi” delle migrazioni verso i paesi imperialisti. Ma tutto ciò non basta a esorcizzare l’effetto boomerang che gli improvvidi capitalisti hanno attirato su loro stessi. Solo per cercare di sopravvivere qualche anno di più, hanno demolito le fonti di produzione (e, provvisoriamente, anche gli sbocchi di mercato) dei paesi dominati. In contrasto con le teorie nazionalborghesi di derivazione “terzomondista”, l’analisi marxista indica come, con un apparente paradosso, l’imperialismo abbia semmai mancato di sfruttare capitalisticamente i paesi dominati. La colpa storica maggiore del capitale, infatti, è di aver saccheggiato e depredato - come giacimenti di materie prime e manodopera - quelle aree del mondo, senza imprimere loro un reale sviluppo industriale. Laddove esso ha operato effettivamente - l’Inghilterra negli Stati Uniti il secolo scorso, gli stessi Usa in Giappone nel secondo dopoguerra, ecc. - il modo di produzione capitalistico ha trasformato realmente la potenza dei paesi destinatari degli investimenti diretti. Oggi, dunque, a chi ha distrutto anche la propria base produttiva, come gli Usa, non resta che passare alle minacce a mano armata. Ma se New York piange, Berlino e Tokyo non ridono. Forti perdite di produzione per mesi consecutivi per le loro principali industrie, disavanzi interni crescenti dell’ordine di decine di migliaia di miliardi di lire, sia in Germania sia in Giappone, testimoniano di questo stato di grave e perdurante conflittualità. La battaglia scatenata dalla Germania riunificata sui mercati valutari è lo specchio deformante di codeste circostanze complessive. E se la guerra economica non riceve (ancora) la forma di una corrispondente risposta a mano armata, è perché quegli altri due contendenti devono finire di assestare le forze in campo rispetto alla potenza bellica Usa: se non per “combattere”, quanto meno per ricreare quella forma di “deterrente” contro il monopolio militare yankee che per quasi quarant’anni era stato assicurato dall’Urss che fu. Su queste basi, il processo continuo di conflittualità irrisolta genera il protezionismo delle legislazioni antimonopolio e commerciali, in chiave di difesa dei capitali provenienti dalla propria base nazionale. Le contraddizioni interimperialistiche si presentano, così, mediate dalle contraddizioni tra stati nazionali. Quando i bollettini di borsa lamentano il precario stato di salute dell’economia, ciò vuol solo dire che mancano ancora le condizioni per il riassetto generale dell’accumulazione mondiale. Ovvero, per meglio dire, quando i padroni sollevano in codice il falso problema della mancanza di “risparmio”, facendo intendere che il denaro si sperda per altre vie, nei “buchi neri” dei bilanci statali, significa in chiaro che i tempi e i modi per la ripresa della produzione di plusvalore risultano ancora inadeguati. In effetti, dal quadro per più versi contraddittorio, che si muove intorno alla declinante e perciò oggi più feroce pax amerikana, emerge con lampante evidenza quale sia l’unico collante economico, sociale e politico a disposizione temporanea dell’imperialismo transnazionale. Parafrasando e generalizzando il motto di successo del capitale giapponese – “il pieno controllo dell’impresa sul sindacato” - è solo con il pieno controllo neocorporativo sul consenso popolare del proletariato che il disegno del Nuovo Ordine imperialistico mondiale può avere successo. Si può ripartire di qui, restituendo alla questione internazionale lo spessore che le compete e che, oggi per la prima volta nella storia, è legittimato dall’unificazione del mercato mondiale: un’unificazione che è concomitante con il declino dell’“impero americano d’occidente” e con il corrispondente crollo dell’”impero russo d’oriente”, in uno con l’avvicendarsi dell’“impero tedesco di centro” e dell’“impero giapponese d’estremo oriente”. Dopo un giubileo di sviluppo postbellico, sembra quasi impossibile che oggi si abbia già alle spalle un periodo altrettanto lungo di crisi. I vantaggi del piano Marshall, del programma MacArthur e della guerra di Corea, nelle more della guerra fredda, sono stati tutti consumati, assorbiti ed evacuati: nel senso che è stato quel complesso di eventi promossi dagli Usa ad aver dato slancio agli imperialismi rivali, tedesco-europeo e giapponese-asiatico. Negli ultimi 20-25 anni, di contro a un 2-2,5% del ritmo medio annuo di sviluppo in Usa, si è avuto un 2,5- 3% per la Ce e un 4-4,5% per il Giappone. E la crisi che colpisce anche questi ultimi non comporta un vantaggio per l’area americana, che anzi accentua il suo declino. La media mondiale nella lunga fase di crisi è scesa a una media inferiore al 3% (circa la metà del ritmo di grande sviluppo postbellico dei primi 20-25 anni), nonostante il recente apporto dei cosiddetti “paesi di nuova industrializzazione” [nic’s]. Nella definizione della nuova divisione internazionale del lavoro che impone dimensioni crescenti su scala mondiale, in un perdurante processo di fallimenti assorbimenti e fusioni, l’imperialismo Usa ha ceduto dunque molto potere: almeno in senso relativo, nonostante il processo di centralizzazione che ha caratterizzato la fase. In un decennio gli Usa, dai primi tre posti che detenevano nella graduatoria mondiale

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