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Economia e Statistica Agroalimentare L'internazionalizzazione e le specializzazioni commerciali ... PDF

113 Pages·2015·1.47 MB·Italian
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Alma Mater Studiorum – Università di Bologna DOTTORATO DI RICERCA IN Economia e Statistica Agroalimentare Ciclo XXVII Settore Concorsuale di afferenza: 13/A2 Politica Economica Settore Scientifico disciplinare: SECS – P/02 Politica Economica L'internazionalizzazione e le specializzazioni commerciali delle regioni italiane nel settore agroalimentare Candidato: Relatore Dott. Jacopo Fanti Prof. Roberto Fanfani Correlatore Dott.ssa Pinuccia Calia Coordinatore del Corso di Dottorato Prof.ssa Alessandra Luati Esame finale anno 2015 INDICE Introduzione p. 2 Capitolo 1 “Contesto economico attuale, situazione del settore e ruolo dell’agroalimentare italiano nel commercio internazionale” p. 5 Capitolo 2 “Le specializzazioni commerciali delle regioni italiane nel settore agroalimentare” 2.1 Premessa p. 33 2.2 Una mappatura delle specializzazioni regionali: l’Indice di Balassa p. 37 2.3 Una seconda mappatura delle specializzazioni regionali: l’Indice di Lafay p. 45 2.4 Un’analisi per ripartizioni territoriali e per comparti dell’industria alimentare p. 53 2.5 La prospettiva delle specializzazioni regionali: l’Indice di Lafay cumulato p. 60 Appendice Capitolo 2 p. 72 Capitolo 3 “L’internazionalizzazione delle regioni italiane” 3.1 Premessa p. 75 3.2 L’internazionalizzazione dei territori p. 83 3.3 La metodologia p. 91 3.3.1 Principal Component Analysis/Factor Analysis p. 94 3.3.2 Mazziotta-Pareto Index p. 95 3.3.3 Wroclaw Taxonomic Method p. 96 3.4 Risultati p. 98 3.5 Spunti conclusivi p. 103 Conclusioni p. 105 Bibliografia p. 108 1 Introduzione Il presente lavoro si compone di tre capitoli, tra loro autonomi e allo stesso tempo intrinsecamente collegati. Nel primo capitolo si è voluto offrire una panoramica dello scenario agroalimentare italiano e della sua rilevanza nel sistema economico nazionale. Per fare ciò si è partiti da una disamina del contesto economico mondiale, segnato nell’ultimo decennio da una grande recessione, ma anche da importanti cambiamenti registratisi nei rapporti fra i vari attori della filiera agroalimentare, ovvero la produzione agricola, la trasformazione industriale, la commercializzazione e il consumo dei prodotti agroalimentari. Questi cambiamenti sono stati dettati soprattutto dal brusco aumento dei prezzi delle commodities e dalla accresciuta volatilità monetaria. Dopo aver visto i principali indicatori economici che caratterizzano il quadro macroeconomico mondiale – e successivamente quello italiano – la trattazione prosegue centrando il discorso sull’andamento congiunturale dell’agroalimentare nazionale, analizzato secondo i principali indicatori macroeconomici, quali valore aggiunto, occupazione e produttività; domanda interna, domanda estera e prezzi. Constatando la rilevanza della filiera agroalimentare nel sistema economico nazionale, la seconda parte del capitolo si concentra singolarmente sugli attori del sistema agroalimentare, ossia, il settore agricolo, l’industria della trasformazione, la distribuzione e la commercializzazione; rilevando per ciascuno di essi le proprie specificità e tendenze, mettendole in rapporto alla dimensione media delle aziende, dell’occupazione e della produzione. L’ultima parte del capitolo è un focus specifico sul ruolo giocato dall’agroalimentare italiano nel commercio e nei mercati internazionali; e della forte dipendenza dall’estero del settore agroalimentare, importante risorsa per l’economia italiana durante gli anni della grave congiuntura economica e possibile punto di partenza per il rilancio del Paese, basato sul Made in Italy e sulla differenziazione dei mercati di sbocco. Nel secondo capitolo si è apportata una mappatura territoriale e per comparti delle principali specializzazioni commerciali del settore agroalimentare. Tramite l'utilizzo di appositi indici di specializzazione si è analizzata la realtà agroalimentare delle regioni italiane, mettendone in evidenza la struttura competitiva. Questo perché nel complesso quadro dell’economia internazionale – fortemente caratterizzato da una progressiva ed intricata integrazione fra Paesi e da processi di evoluzione costanti del sistema economico – risulta fondamentale 2 riuscire a determinare il livello competitivo di un intero Paese o di sue specifiche realtà territoriali. Pertanto, l'intento del capitolo è stato quello di “testare” la capacità di un sistema territoriale di esportare e di competere a livello internazionale, approssimandola tramite l’analisi dei vantaggi comparati di cui gode. Uno dei metodi utilizzati è stato l’indice formulato dall’economista ungherese Béla Balassa che consente di individuare i vantaggi comparati esistenti all’interno di un’economia, ovvero la capacità di un Paese di produrre un certo bene “meglio” degli altri Il secondo indice utilizzato in questo capitolo è stato l’Indice di Lafay (Lafay, 1992), ideato nel 1992 con l’intento di superare “l’export-centrismo” dell’indice di Balassa. L’indice di Lafay si configura come uno strumento in grado di determinare la specializzazione di un Paese in un determinato settore in termini relativi “interni”, ovvero rispetto agli altri settori che compongono il sistema economico di quel Paese, oppure in termini relativi “esterni”, rispetto ad un insieme di Paesi presi a riferimento. Inoltre, si è proceduto ad una terza misura, l'“indice di Lafay cumulato”, il cui contributo risiede nel misurare l’apporto conferito dall’ultimo comparto preso in esame, rispetto ai precedenti, e consente di elaborare qualche considerazione su di esso, basandosi sul criterio con il quale sono stati ordinati progressivamente i comparti. Il criterio per l’ordinamento dei settori è stato individuato nella dinamicità commerciale dei comparti agroalimentari, con l'intento di individuare i comparti più dinamici in positivo, ovvero che registrano i maggiori tassi di crescita annui nell’intero periodo considerato. Infine, una volta presentate le caratteristiche principali del settore agroalimentare e le sue specializzazioni commerciali per le varie regioni, si è ampliato il campo d'analisi tentando di misurare il livello di internazionalizzazione delle regioni italiane, non solo in ambito agroalimentare, ma considerando l'intero sistema territoriale regionale. In questo terzo capitolo, infatti, si è proceduto a sviluppare un quadro teorico nella parte iniziale, mettendo in evidenza l’importanza e la complessità del concetto di internazionalizzazione e sottolineandone la natura multidimensionale. In secondo luogo si è proceduto alla selezione di indicatori che potessero rappresentare il fenomeno in oggetto e, partendo da alcuni indici già esistenti, si è giunti all’individuazione di 26 variabili, divise in tre dimensioni: economica, socio-demografica e tecnologica. In seguito si sono applicati tre modelli per l'elaborazione dell'indice di internazionalizzazione delle regioni italiane. 3 Il primo strumento utilizzato è stata l’analisi delle componenti principali (PCA o ACP in inglese) che consiste in una tecnica multivariata di riduzione del numero di variabili esplicative di un fenomeno. L’intento è quello di ridurre il numero di variabili (o componenti) che descrivono il profilo delle unità e di riprodurre le caratteristiche di queste ultime attraverso un numero ristretto di nuove variabili, scomponendo il fenomeno secondo degli assi strutturali di importanza decrescente. Il secondo strumento utilizzato per il calcolo dell’indice di internazionalizzazione delle regioni italiane è stato il Mazziotta-Pareto Index (MPI), un composite index non lineare che trasforma i singoli indicatori presi in considerazione in variabili standardizzate e che le accorpa utilizzando una media aritmetica aggiustata tramite un “coefficiente di penalità” relativo alla variabilità di ciascuna unità. Infine, il terzo strumento utilizzato per calcolare l’indice di internazionalizzazione delle regioni è stato il Wroclaw taxonomic method. Questo è un metodo statistico che permette di dividere un set in più sub-set omogenei, senza fare ricorso a strumenti quali regressioni o correlazioni. In sostanza consente di calcolare delle distanze interregionali, e tra le singole regioni e una “regione ideale” utilizzata come benchmark, le quali a loro volta consentono di elaborare un ranking delle regioni. Una volta calcolati gli indici di internazionalizzazione si è proceduto al confronto tra i risultati ottenuti tramite le tre modalità di elaborazione, cercando di suggerire ulteriori filoni di sviluppo della tematica osservata. 4 Capitolo 1 Contesto economico attuale, situazione del settore e ruolo dell’agroalimentare italiano nel commercio internzionale In poco più di un decennio il panorama globale ha fornito agli studiosi del settore agroalimentare duplice materiale d’analisi: figlio legittimo degli avvenimenti economici e difficoltà congiunturali susseguitesi nel corso degli ultimi cinque anni, il settore si è dovuto scontrare, sull’altro versante, con le importanti modificazioni dei rapporti fra produzione agricola, trasformazione industriale, commercializzazione e consumo dei prodotti agroalimentari. Nel primo caso, fra i cambiamenti più significativi, vale la pena citare l’adozione in ambito europeo della moneta unica o l’allargamento del mercato mondiale; il quale, oltre ad estendere i confini geografici sia in termini di sbocchi di mercato sia di nuovi concorrenti, ha determinato, nella fattispecie, una nuova divisione internazionale del lavoro. Il territorio europeo, in seconda battuta, è da tempo regolato da un Mercato Europeo Comune (MEC) entro il quale si è andata a configurare fin dagli inizi una Politica Agricola Comunitaria (PAC), la cui riforma del 2003 sull’aiuto unico disaccoppiato alle aziende agricole, ha modificato oltremodo – e in diversi comparti – gli equilibri fra produzione e trasformazione. Di più recente attuazione anche il Mercato Unico: messo a punto nel 1992 con l’obiettivo di permettere la libera circolazione delle merci, dei servizi e dei capitali tramite la riduzione delle barriere non-tariffarie, la sua introduzione è in termini d’importanza una delle più grandi conquiste dell’Unione Europea. Tuttavia il suo valore economico-sociale, connesso alla leadership mondiale che l’Europa ha intenzione di detenere nell’agroalimentare, sarà cruciale solo se riuscirà a percorrere ulteriori passi in avanti in materia di azioni politiche progressiste e invocate a più riprese negli obiettivi dei vari programmi europei di ricerca e innovazione. Nonostante questi grandi cambiamenti, è stata la Grande Recessione a giocare il ruolo più influente su tutto il panorama economico internazionale, andando a toccare più o meno tutti i comparti, fra cui, naturalmente, l’agroalimentare. Una flessione del PIL mondiale – testimoniata negli anni a seguire dai numeri sconfortanti dei tassi di crescita delle economie agiate, di poco superiori all’1% – che, oltre a fornire il palcoscenico ideale per i PVS – ad oggi ancora la principale forza trainante del processo di crescita internazionale seppur lontani dalle performance del decennio scorso – si è protratta ulteriormente dall’estate 2011, con l’acutizzarsi dei debiti sovrani in alcuni Paesi dell’Eurozona. Sebbene il biennio 2010-11 sia 5 stato indicatore di una sostanziale ripresa, in area Euro un ritorno in tempi brevi ai valori pre- crisi appare per certi versi ancora un miraggio: dalla seconda metà del 2011, il PIL di alcune economie come Italia e Spagna, si è di nuovo arrestato, portando una flessione del -0,5% sul bilancio complessivo dell’Unione. Un saldo tornato invece positivo nelle altre economie limitrofe e nei Paesi ad alto reddito come USA e Giappone, dove la media dell’ultimo biennio si è attestata attorno all’1,5% e all’1,9%. È evidente che le buone performance di crescita del PIL mondiale vadano connesse soprattutto all’accelerazione dell’economia americana: segnata nell’ultimo anno dall’aumento della domanda interna e dalla virata riduttiva del fiscal drag; la nazione guidata da Barack Obama ritornerà verso fine 2015 ad un tasso di crescita del 3,2%, sopra alla “soglia psicologica” del decennio precedente. Secondo analisti è proprio dal recupero della domanda interna – oltre a quella estera – il dato su cui l’Eurozona deve necessariamente prestare più attenzione, se vuole ripetere le stesse prospettive di crescita d’oltreoceano; oltre a mantenere quelle già in atto: infatti già dalla fine di quest’anno, l’economia del Vecchio Continente è ritornata alle percentuali del primo trimestre 2008, consolidandosi intorno al +1,5%. Una risalita caratterizzata in prevalenza dalla ripresa delle esportazioni – ora svincolate e non più penalizzate da un Euro troppo forte – che permetterà anche alle economie traballanti di uscire dalla situazione d’impasse venutasi a creare a fine 2011. Un aumento, quello del commercio, da non considerarsi così scontato: poiché se per un’indagine delle Nazioni Unite, il rapporto tra crescita dei volumi di commercio e crescita del PIL mondiale è stato ai minimi storici sostanzialmente per effetto della crisi,; altre analisi non sembrano esaurirsi alla sola congiuntura economica. Si va dalla contrazione della domanda – specie nei Paesi avanzati – alla mancanza di progressi nelle negoziazioni multilaterali; fino – secondo World Bank – all’idea che il progressivo cambiamento sia stato nella struttura stessa del commercio, spostata in questo periodo più verso beni e servizi, dove la componente interna di valore aggiunto è preponderante rispetto a quella d’importazione. Più concordia sembra esserci sul fatto che il commercio mondiale rimarrà ancora il principale sostegno al PIL delle economie, e, secondo le migliori previsioni, i suoi volumi aumenteranno del 5% entro il 2015. Di converso il versante inflazione, che dal 2013 – almeno quello delle economie avanzate – si è mantenuto basso; grazie soprattutto alla contrazione dei prezzi del petrolio e a un calo, seppur minimo, dei prezzi (compresi quelli agricoli, in discesa dopo i picchi del 2011). Stando alle aspettative degli analisti, il dato inflattivo rimarrà sotto il 2% anche negli anni successivi con previsioni di riduzione anche nei PVS: nonostante la crescita 6 del credito e della pressione dei prezzi alimentari, scenderà intorno al 5% solo a partire dal 2015. Va precisato tuttavia che nel dicembre 2013 il tasso d’inflazione dell’Eurozona ha toccato il suo punto più basso, ovvero quello del 0,8% su base annua: livello che ha destato negli addetti ai lavori più di un allarme deflazionistico – e che, se si vuole isolare dai prodotti energetici e alimentari, alla sola inflazione di fondo, fa scendere il dato allo 0,7% – rimanendo lievemente contenuto intorno all’1% nel 2014, con stime di aumento progressivo solo a partire dal 2016. Va puntualizzato che negli ultimi cinque anni l’andamento dei prezzi delle materie prime agricole si è caratterizzato per due aspetti: una tendenza alla crescita con due shock verso l’alto1 e un’elevata volatilità, cioè un divario maggiore tra i valori minimi e massimi rispetto al passato. Molteplici sono le cause di queste tendenze: dai fattori ciclici legati al clima, alla recessione economica e al conseguente calo della domanda per consumi; o ancora dalla crescente domanda di alcuni Paesi in crescita; dalle politiche restrittive dei Paesi importatori e esportatori; o infine dalla crescita dei costi dei mezzi di produzione del petrolio o dei fertilizzanti. Solo a partire dal 2012 sembra allentarsi la morsa dell’aumento dei prezzi, con un significativo calo rispetto all’anno precedente, soprattutto per i prodotti non energetici (-9,5%), che nello specifico dell’agricoltura si posiziona intorno al -7,2%. La contrazione della ricchezza ha avuto notevoli ripercussioni non solo sulla domanda per i consumi ma anche su quella del mercato del lavoro: a tutt’oggi la situazione dell’occupazione fatica ancora a riprendersi dagli effetti della crisi finanziaria, e l’alto livello di disoccupazione certifica un clima d’incertezza su quanto essa possa essere solo ciclica o piuttosto strutturale. Se possiamo dire che in territorio statunitense essa si sia configurata nel primo caso – dal 10% del 2010 si è passati grazie alla ripresa economica al 7% del 2013, per scendere sotto la soglia critica del 6% nel 2015 – non appare lo stesso nel Vecchio Continente: nella media dell’Eurozona il tasso è balzato sopra l’11% dopo un anno di parziale recupero, raggiungendo il 12% nel 2013 e rimanendo orientativamente sopra l’11% per tutto il 2014. In questo contesto è tuttavia necessario evidenziare le differenze notevoli fra economie forti come la Germania (che ha chiuso il 2014 con il tasso di disoccupazione al 4,9%) e economie deboli come l’Italia (sopra al 12%) o Grecia (intorno al 27%). Per comprendere gli andamenti del prossimo futuro, 1 Il primo shock si registra da metà 2007 fino a metà 2008 con un aumento repentino dei costi energetici (petrolio in primis, +40%) e delle materie agricole (+27%) e in misura ancora più accentuata del costo dei fertilizzanti (+168%). La seconda fase si osserva a partire del 2010 e si protrae fino ai primi mesi 2011: in questo caso i prodotti energetici segnano un aumento del 30%, quelli agricoli del 22% e i fertilizzanti del 42%. 7 soprattutto in rapporto all’Italia sarà quindi opportuno dirigere lo sguardo su ciò che rispetto all’andamento mondiale o delle principali economie europee, sta emergendo o consolidando nell’economia del Belpaese. Come anticipato, dal terzo trimestre 2011 l’Italia è in una nuova fase recessiva e di contrazione del PIL e la portata è tale che la ricchezza è ormai al di sotto del valore minimo già toccato nel 2009. Timidi segnali di risalita si sono affacciati solo partire dall’ultimo trimestre 2014 e primo del 2015, che vede una parziale ripresa dell’Italia, entrata nel limbo della “crescita zero”, dopo oltre dieci trimestri consecutivi di segno negativo. Se si può dire che il Paese dopo quasi otto anni si sta allontanando dalla profonda discesa del biennio 2008-09 (-6.6%) – inframezzata solo per un breve periodo dall’illusorio recupero 2010-11 (+2,2% sul gap pre-crisi) – il periodo di flessione del PIL che ha investito la nazione, ha modificato irrimediabilmente l’intero panorama economico. Parte di questo cambiamento va connesso a fattori di natura esogena – come il rallentamento del commercio internazionale e la crisi della moneta unica – che, più o meno in egual modo hanno colpito tutti i Paesi; mentre di contro un’altra porzione è più di carattere endogeno: dagli elevati costi di finanziamento per il settore privato a seguito dell’aumento degli spread sui titoli di Stato, alla maggiore difficoltà di accesso al credito per le imprese, fino agli effetti diretti delle manovre di risanamento dei conti pubblici (che più di tutti hanno inciso sulla contrazione del PIL, circa l’1%). Fra le conseguenze va messo a referto l’aumento dell’incertezza, a cui a stretto giro si connette il calo della fiducia e della domanda interna sia dal lato delle imprese, che da quello delle famiglie. In termini di investimenti e consumi il dato del quarto trimestre 2012 registra inoltre la domanda più bassa dall’inizio della crisi (-4,2%), che rimane tuttora frenata dalla riduzione del reddito disponibile delle famiglie, dalla restrizione dei prestiti e dal deterioramento delle prospettive occupazionali. Elementi preoccupanti che, nonostante l’attenuazione nella flessione dei consumi registrata già da fine 2013, mostrano ancora una fragilità non in linea con i segnali di ripresa dell’economia nazionale e soprattutto europea. Il reddito in ribasso, attestandosi oltre l’8% nell’ultimo quinquennio, continua a penalizzare la crescita della spesa privata famigliare, già segnata dalla debolezza del mercato del lavoro, che vedrà segnali di risalita solo a partire dal prossimo anno. Logicamente al calo della domanda va accostato quello degli investimenti i quali, dopo un discreto recupero nel 2010 (sostenuto in parte dagli incentivi messi a punto dal governo), sono precipitati nuovamente già dai primi mesi 2011, per annullare del tutto (-8,3%) nel terzo trimestre 2013. Oltre al calo della domanda, alla base della contrazione degli investimenti pesano appunto le incertezze sul 8 futuro, l’elevata capacità produttiva inutilizzata e le restrizioni al credito (concentratesi maggiormente sul fronte dei macchinari e mezzi di trasporto e meno nel settore costruzioni). Dal settembre 2013 va registrata anche una progressiva riduzione del tasso d’inflazione con punte deflattive dello 0,7% verso fine dello stesso anno e del 0,4% nel marzo successivo: un valore che non si registrava dal 2009. L’unica componente che mantiene il segno positivo – in accordo con la tendenza europea – è l’export:2 la ripresa della domanda estera ha consentito, soprattutto nella seconda parte del 2013, una crescita che, grazie anche al calo delle importazioni che ha migliorato il saldo della bilancia commerciale – favorito in buona parte da una bolletta energetica ridotta rispetto all’anno precedente – ha visto il commercio internazionale in uscita aumentare del 2% nel 2012, con una previsione media dell’1,5% per gli anni successivi. E sempre la domanda estera a guida l’andamento della produzione industriale che seguendo le dinamiche del PIL è rimasta, dal 2011, per praticamente sette trimestri, in segno negativo ritornando a crescere solo dal quarto trimestre 2013. Inoltre, la nuova flessione del livello del PIL si è riversata anche sulla ripresa della domanda occupazionale, interrompendo il flebile processo di inversione del tasso di disoccupazione iniziato a fine 2010: a partire dal quarto trimestre 2011 il deterioramento delle condizioni occupazionali è apparso inarrestabile posizionandosi nel febbraio 2014 al 13% (42% il dato della disoccupazione giovanile), il livello più alto dal 1977, con oltre 3 milioni di persone in cerca di lavoro. La pur prevista ripresa economica sembra quindi da considerarsi in ogni caso moderate anche per i prossimi anni, e che dovrebbero portare ad un aumento del PIL poco al di sopra 1%, trainato più che altro dalle esportazioni e dall’aumento degli investimenti, mentre faticherà a trasmettersi sul fronte del mercato del lavoro e conseguentemente all’aumento dell’occupazione. Nello specifico si può evidenziare come a livello nazionale la recessione economica abbia avuto ripercussioni più o meno marcate in tutti i principali settori dell’attività economica: il suo propagarsi attraverso il canale commerciale ha intaccato principalmente il settore più esposto alla concorrenza e cioè quello industriale, il quale ha risentito pesantemente del crollo dell’attività. Nel biennio 2008-09 la caduta del valore aggiunto del comparto industriale in senso stretto ha superato il 18%, arrivando alle soglie del 2012 con un gap di ricchezza rispetto ai livelli pre-crisi del 14,7% (del 21,8% se contiamo le 2 Sebbene il commercio internazionale rappresenti il fiore all’occhiello del Belpaese, nel 2012 l’export italiano ha risentito del rallentamento degli scambi internazionali, delle tensioni dei debiti sovrani e delle politiche restrittive dei Paesi emergenti con dati ben al di sotto del biennio 2010-11. 9

Description:
del pomodoro. A livelli inferiori, tuttavia, si registrano ulteriori specializzazioni nei comparti. “Altri prodotti alimentari” e “Prodotti da forno”, con valori rispettivamente di 0,90 e 2,63 nel. 2012. Anche in gli altri, da Joseph Stiglitz, Amartya Sen, Jean-Paul Fitoussi, Enrico Giovan
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