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Civiltà materiale, economia e capitalismo (secoli XV-XVIII). Le strutture del quotidiano PDF

617 Pages·2006·13.704 MB·Italian
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CIVILTÀ MATERIALE, ECONOMIA E CAPITALISMO Le strutture del quotidiano (secoli XV-XVIII) Fernand Braudel traduzione di Corrado Vivanti (edited by: Abraham Zapruder) INTRODUZIONE Quando nel 1952 Lucien Febvre mi affidò la redazione di quest’opera per la collana «Destins du Monde», che aveva allora fondato, non immagi- navo certamente in quale avventura interminabile mi ero lanciato. In linea di massima doveva trattarsi infatti della semplice messa a punto dei lavori dedicati alla storia economica dell’Europa preindustriale. Ma a parte il fat- to che spesso ho sentito il bisogno di ritornare alle fonti, dove dire che nel corso delle ricerche sono rimasto sconcertato dall’osservazione diretta del- le cosiddette realtà economiche fra il secolo XV e il XVIII. Per il semplice fatto che esse s’inquadrano male o addirittura per niente negli schemi clas- sici tradizionali, si tratti di quello di Werner Sombart (1902), provvisto di un insieme esuberante di prove, oppure quello di Josef Kulischer (1928), o ancora quelli degli stessi economisti che vedono l’economia come una realtà omogenea, passibile di essere estratta a piacer nostro dal suo conte- sto storico e di essere misurata qual è, poiché nulla sarebbe intelligibile al di fuori del numero. Lo sviluppo dell’Europa preindustriale – presa in esa- me senza considerare minimamente il resto del mondo, quasi non esistesse – sarebbe il suo ingresso progressivo nelle razionalità del mercato, dell’impresa, degli investimenti capitalistici, fino all’avvento della rivolu- zione industriale, che ha tagliato in due la storia degli uomini. Di fatto, la realtà osservabile prima del secolo XIX è stata assai più complessa. Certo, si può seguire un’evoluzione, o meglio alcune evoluzio- ni che si scontrano, si spalleggiano o anche si contraddicono. Quanto a dire che non esiste una, ma alcune economie. Quella che di preferenza viene descritta è la cosiddetta economia di mercato, ossia i meccanismi della produzione e dello scambio legati alle attività rurali, alle botteghe, ai labo- ratori, alle borse, alle banche, alle fiere e naturalmente ai mercati. Appunto intorno a queste realtà chiare, «trasparenti», sui processi facili da afferrare che le animano, è cominciato il discorso costitutivo della scienza economi- ca, che si è quindi chiusa, fin dagli inizi, entro uno spettacolo privilegiato, a esclusione degli altri. Ora, una zona di opacità, spesso difficile da osservare per difetto di una sufficiente documentazione storica, si stende al di sotto del mercato: è l’attività elementare di base, che si incontra dappertutto e che ha un volu- me semplicemente fantastico. Questa zona tanto consistente, raso suolo, l'ho chiamata, in mancanza di migliori definizioni, vita materiale, civiltà materiale. È evidente l’ambiguità dell’espressione, ma penso che se il mio modo di vedere sarà condiviso per il passato, come da parte di taluni eco- nomisti sembra che lo sia per il presente, un giorno o l'altro si troverà un’etichetta più adatta, capace di designare questa infraeconomia, quest’altra metà informale dell’attività economica, quella dell’autosuffi- cienza, del baratto dei prodotti e dei servizi entro un raggio molto corto. D'altra parte, al di sopra, e non più al di sotto, della vasta superficie dei mercati si sono innalzate attive gerarchie sociali: esse falsano lo scam- bio a loro vantaggio, rovesciano l’ordine stabilito; lo vogliano o anche sen- za volerlo espressamente, esse creano delle anomalie, delle «turbolenze» e conducono i loro affari per vie molto particolari. A questo piano elevato, alcuni grossi mercanti di Amsterdam nel Settencento, oppure di Genova nel Cinquecento, sono in grado di sovvertire da lontano interi settori dell’economia europea o addirittura mondiale. Così alcuni gruppi di attori privilegiati si sono impegnati in circuiti e calcoli che i comuni mortali ignorano. Per esempio, il cambio, legato ai commerci lontani e ai comples- si giochi del credito, è un’arte sofisticata, aperta al più ad alcuni privilegia- ti. Questa seconda zona di opacità che, al di sopra delle chiarezze dell’eco- nomia di mercato ne costituisce in qualche modo il limite superiore, rap- presenta per me, come si vedrà, il terreno per eccellenza del capitalismo. Senza di essa, questo è impensabile: lì abita, è in casa sua, e lì prospera. Questo schema – una tripartizione che è venuta delineandosi via via che gli elementi d’osservazione si classificavano quasi da soli – è probabil- mente ciò che di più discutibile troveranno i lettori di quest’opera. Non si finisce forse col distinguere troppo nettamente e quasi col contrapporre economia di mercato e capitalismo? Io stesso non ho subito accettato – anzi ho esitato a lungo – questo modo di vedere. Poi ho finito con l’ammettere che l’economia di mercato era stata fra il secolo XV e il XVIII, e anche assai prima, un ordine costrittivo che, come ogni ordine co- strittivo (sociale, politico o culturale), aveva sviluppato opposizioni, con- tropoteri, verso l’alto come verso il basso. Ciò che mi ha veramente confortato nel mio punto di vista è stato il fatto di scorgere abbastanza presto e chiaramente, attraverso questa mede- sima griglia, le articolazioni delle società attuali. L’economia di mercato vi regge sempre la massa degli scambi che controllano le nostre statistiche. Ma la concorrenza, che è il suo segno distintivo, è lungi dal dominare – chi lo negherebbe? – tutta l’economia attuale. Esiste, oggi come ieri, un uni- verso a parte dove dimora un capitalismo d’eccezione, ai miei occhi il vero capitalismo, sempre multinazionale, parente di quello delle grandi Compa- gnie delle Indie e dei monopoli di tutte le misure, di diritto e di fatto, esi- stenti un tempo, analoghi nei loro principî ai monopoli odierni. Non si ha forse il diritto di sostenere che le imprese dei Fugger e dei Welser erano transnazionali, come si direbbe oggi, in quanto interessate all’intera Euro- pa con rappresentanti sia nelle Indie, sia nell’America spagnola? E gli affa- ri di Jacques Cœur non hanno avuto, nel secolo precedente, dimensioni analoghe dai Paesi Bassi al Levante? Ma le coincidenze si spingono anche oltre, perché nella scia della de- pressione economica succeduta alla crisi del 1973-74, ha cominciato a pro- liferare una forma, moderna in questo caso, di economia fuori mercato: lo scambio appena dissimulato, i servizi direttamente scambiati, il «lavoro nero», come si dice, più le numerose forme di lavoro domestico e di brico- lage. Questa massa di attività, al di sotto o al di fuori del mercato, si è gon- fiata abbastanza da attirare l’attenzione di alcuni economisti: non rappre- senta forse qualcosa fra il 30 e il 40 per cento del prodotto nazionale che sfugge a tutte le statistiche negli stessi paesi industrializzati? In questo modo uno schema tripartito è divenuto il punto di riferimen- to di un’opera che avevo deliberatamente concepito in margine alla teoria, a tutte le teorie, sotto il segno della sola osservazione concreta e della sto- ria comparata. Comparata attraverso il tempo, secondo il linguaggio, che non mi ha mai deluso, della lunga durata e della dialettica fra presente e passato; comparata attraverso lo spazio più ampio possibile, poiché il mio studio, nella misura in cui è alla mia portata, si è esteso a tutto il mondo. In ogni modo l’osservazione concreta rimane in primo piano. Il mio proposi- to, da un capo all’altro, è stato di vedere, di far vedere, lasciando agli spet- tacoli esaminati il loro spessore, la loro complessità, la loro eterogeneità, in quanto rappresentativi della stessa vita degli uomini. Se fosse possibile tagliare nel vivo e isolare i tre piani (che penso siano un utile modo di clas- sificarla), la storia sarebbe una scienza obiettiva, il che non è certo, eviden- temente. I tre volumi di quest’opera si intitolano: Le strutture del quotidiano: il possibile e l’impossibile, I giochi dello scambio, Il tempo del mondo. Quest’ultimo è uno studio cronologico delle forme e delle preponderanze successive dell’economia internazionale: in una parola, è una storia. I pri- mi due volumi, assai meno semplici, sacrificano largamente a una ricerca tipologica. Il primo (la cui prima edizione risale al 1967) è una specie di valutazione del mondo, come ha detto Pierre Chaunu, il riconoscimento dei limiti del possibile nel mondo preindustriale. Uno di questi limiti è ap- punto il posto – enorme, allora – occupato dalla vita materiale. Il secondo volume confronta l’economia con l’attività superiore del capitalismo: era necessario distinguere questi due strati elevati, spiegarli uno con l'altro, at- traverso il loro mischiarsi e il loro contrapporsi. Avrò convinto tutti? No di certo. Ma ho almeno trovato in questo gio- co dialettico un vantaggio senza pari: attraversare ed evitare per una nuova strada, in qualche modo tranquilla, le appassionate dispute suscitate dalla parola, sempre esplosiva, «capitalismo». D'altra parte, il terzo volume si è avvantaggiato delle spiegazioni e delle discussioni che lo precedono e non urterà nessuno. Così, anziché un libro, ne ho scritti tre. E il mio partito preso di «mon- dializzare» quest’opera mi ha spinto verso compiti nei cui confronti – sto- rico occidentale – ero quanto meno mal preparato. Soggiorni e tirocini pro- lungati in terra musulmana (dieci anni ad Algeri) e in America (quattro anni in Brasile) mi sono serviti molto. Ma ho visto il Giappone attraverso le spiegazioni e l’insegnamento particolare di Serge Elisseeff; la Cina, gra- zie all’aiuto di Etienne Balasz, di Jacques Gernet, di Denys Lombard. Da- niel Thorner, che sarebbe stato capace di fare di ogni persona di buona vo- lontà un indianista ai suoi primi passi, mi ha guidato con la sua vivacità e generosità irresistibile: un bel mattino mi capitava davanti con i panini e i croissants della prima colazione e con i libri che avevo bisogno di leggere. Metto il suo nome in cima a una lista che, se fosse completa, sarebbe inter- minabile. Tutti, ascoltatori, allievi, colleghi, amici, sono venuti in mio soc- corso. Non posso dimenticare l’aiuto filiale, ancora una volta, di Alberto e di Branislava Tenenti, la collaborazione di Michaël Keul e di Jean-Jacques Hémardinquer. Marie-Thérèse Labignette mi ha aiutato nelle ricerche d’archivio e bibliografiche, Annie Duchesne nell’interminabile lavoro del- le note. Josiane Ochoa ha pazientemente copiato a macchina più di dieci volte le mie sueccessive redazioni del lavoro. Roselyne de Ayala, attachée alla Casa editrice Armand Colin, si è occupata con efficienza e puntualità dei problemi editoriali. Che le sue collaboratrici trovino qui l’espressione della mia amicizia riconoscente. Finalmente, senza Paule Braudel, che si è unita quotidianamente alla mia ricerca, mi sarebbe mancato il coraggio di rifare il primo volume e di portare a termine i due volumi interminabili che lo seguono, per verificare la logica e la chiarezza necessarie delle spiega- zioni e delle messe a punto. Ancora una volta abbiamo lavorato a lungo, fianco a fianco. 16 marzo 1979. PREMESSA Eccomi sulla soglia del primo libro, il più complicato dei tre volumi che formano quest’opera. Non che ciascuno dei suoi capitoli non possa ap- parire semplice al lettore, ma la complicazione risulta insidiosamente dalla molteplicità dei fini perseguiti, dalla difficile scoperta di temi inconsueti, tutti da inserire in una storia coerente, insomma dal malagevole incastro di discorsi parastorici – la demografia, l’alimentazione, il costume, l’abitazio- ne, le tecniche, la moneta, le città – di solito isolati gli uni dagli altri e svi- luppati in margine ai racconti tradizionali. Perché riunirli? Essenzialmente per stringere da vicino il campo d’azione delle econo- mie preindustriali e afferrarlo in tutto il suo spessore. Non c'è forse un li- mite, un tetto che contiene l’intera vita degli uomini, che l’avvolge come una frontiera più o meno estesa, sempre difficile da raggiungere e ancor più da varcare? È il limite che in ogni epoca – anche nella nostra – si stabi- lisce fra il possibile e l’impossibile, fra ciò che è possibile raggiungere, non senza sforzo, e ciò che resta rifiutato agli uomini del tempo, ieri per- ché la loro alimentazione era insufficiente, il loro numero troppo scarso o troppo elevato (per le loro risorse), il loro lavoro non abbastanza produtti- vo, l’addomesticamento della natura appena abbozzato. Dal secolo XV alla fine del secolo XVIII questi limiti sono rimasti quasi immutati. E gli uomi- ni non sono nemmeno arrivati a tentare tutte le loro possibilità. Dobbiamo insistere su questa lentezza, su questa inerzia. I trasporti terrestri, per esempio, dispongono assai presto degli elementi che ne avreb- bero consentito il perfezionamento. Del resto, qua e là, vediamo le velocità accelerarsi grazie alla costruzione di strade moderne, alle migliorie appor- tate alle vetture che trasportano merci o viaggiatori, all’istituzione di sta- zioni di posta. Eppure questi progressi si generalizzeranno solo intorno agli anni ‘30 del secolo XIX, ossia alla vigilia della rivoluzione compiuta dalle ferrovie. Solo allora i trasporti per strada si moltiplicano, si fanno re- golari, si democratizzano, e solo allora il limite del possibile è raggiunto. Non è certo soltanto questo il campo dove si verifica un ritardo. Finalmen- te, non ci sarà rottura, innovazione, rivoluzione sul vasto fronte del possi- bile e dell’impossibile prima del secolo XIX e il totale sovvertimento del mondo. Ne consegue, per il nostro libro, una certa unità: è un lungo viaggio al di qua delle facilità e delle abitudini che la vita attuale ci prodiga. Di fatto, ci trasporta in un altro pianeta, in un altro universo di uomini. Certo, po- tremmo recarci a Ferney da Voltaire e, poiché una finzione non costa nien- te, intrattenerci con lui a lungo, senza grandi sorprese: per quel che riguar- da le idee, gli uomini del Settecento sono nostri contemporanei, i loro spi- rito, le loro passioni restano piuttosto vicine alle nostre perché non ci sen- tiamo spaesati. Ma se il signore di Ferney ci trattenesse presso di lui alcuni giorni, tutti i particolari della vita quotidiana, anche le cure che egli pren- derebbe della sua persona, ci sorprenderebbero notevolmente. Fra lui e noi si aprirebbero distanze vertiginose: l’illuminazione serale, il riscaldamen- to, i trasporti, il cibo, le malattie, i medicamenti… È dunque necessario strapparci una volta per tutte dalle nostre realtà ambientali per compiere, come si conviene, questo viaggio controcorrente nei secoli, per ritrovare le regole che hanno troppo a lungo racchiuso il mondo in una stabilità non molto spiegabile se si pensa alle fantastiche trasformazioni che sarebbero seguite. Redigendo questo inventario del possibile, abbiamo spesso incontrato quello che nell’introduzione ho chiamato la civiltà materiale. Perché il possibile non è soltanto limitato verso l’alto, lo è anche verso il basso dalla massa di quell’altra «metà» della produzione che rifiuta di entrare in pieno nel movimento degli scambi. Dappertutto, sempre presente, invadente, ri- petitiva, questa vita materiale è sotto il segno della routine: si semina il grano come lo si è sempre seminato, si pianta il mais come lo si è sempre piantato, si spiana il suolo della risaia come si è sempre fatto, si naviga il mar Rosso come sempre lo si è navigato… Un passato ostinatamente pre- sente, vorace, inghiotte monotono il fragile tempo degli uomini. E questa falda di storia stagnante è enorme: la vita rurale, ossia l’80 o il 90 per cen- to della popolazione, vi è dentro per larghissima parte. Certo, sarebbe diffi- cile precisare dove essa termina e dove comincia la fine e agile economia di mercato. Essa non si separa certamente dall’economia come l’acqua dall’olio. D'altronde, non è sempre possibile stabilire in modo perentorio se il tale agente, il tale attore, la tale azione, bene osservata, si trovano da una parte o dall’altra della barriera. E la civiltà materiale va presentata – come farò – al tempo stesso della civiltà economica (se così si può dire) che la circonda, la turba, la contraddice, la spiega. Ma che la barriera esi- sta, con conseguenze enormi, è indubbio. Il duplice registro – economico e materiale – è di fatto il prodotto di un’evoluzione secolare. La vita materiale, fra il secolo XV e il XVIII, è il prolungamento di una società, di un’economia antiche, trasformatesi molto lentamente, impercettibilmente, che a poco a poco hanno creato al di sopra di loro – con i successi e le deficienze che possiamo intuire – una società superiore di cui esse portano necessariamente il peso. E da sempre c'è stata coesistenza fra alto e basso, variazioni all’infinito dei loro rispettivi volu- mi. Nel secolo XVII, in Europa, la vita materiale non ha forse guadagnato terreno con il ripiegamento dell’economia? Essa avanza sicuramente, sotto i nostri occhi, con la regressione avviata dalla crisi degli anni 1973-74. Così, da una parte e dall’altra in questa frontiera indecisa per sua natura, coesistono il piano terra e il primo piano, questo in anticipo, l'altro in ritar- do. Un certo villaggio, a me ben noto, viveva all’incirca ancora nel 1929 come nel secolo XVII o XVIII. Ritardi del genere possono essere involon- tari o voluti. L’economia di mercato, prima del Settecento, non ha avuto la forza di afferrare e penetrare la massa dell’infraeconomia, spesso protetta dalla distanza e dall’isolamento. Oggi invece, se c'è un vasto settore fuori del mercato, fuori dell’«economia», è piuttosto per rifiuto alla base, non per negligenza o imperfezione dello scambio organizzato dallo Stato o dal- la società. Tuttavia il risultato, per più versi, non può non essere analogo. In ogni modo la coesistenza del basso e dell’alto impone allo storico una dialettica chiarificatrice. Come comprendere le città senza le campa- gne, la moneta senza il baratto, la vasta miseria senza il molteplice lusso, il pane bianco dei ricchi senza il pane nero dei poveri? Resta da giustificare un’ultima scelta: né più né meno l’introduzione della vita quotidiana nel campo della storia. È utile? È necessaria? La quo- tidianità è costituita da minuscoli fatti che si notano appena nel tempo e nello spazio. Più viene ristretto il campo di osservazione, più vi è la possi- bilità di trovarsi nell’ambito stesso della vita materiale: i vasti insiemi cor- rispondono di solito alla grande storia, al commercio di lontano, alle reti delle economie nazionali o urbane. Quando viene ristretto il tempo osser- vato in frazioni minuscole, si ha l’avvenimento o il fatterello; l’avveni- mento si pretende, si crede unico; il fatterello si ripete e in tal modo diven- ta generalità o meglio struttura. Invade la società in tutti i suoi piani, carat- terizza modi di essere e di agire perpetuati all’infinito. Talvolta qualche aneddoto basta perché un segnale luminoso si accenda, indichi taluni modi di vita. Un disegno mostra Massimiliano d’Austria a tavola verso il 1513: la sua mano è nel petto; un paio di secoli dopo la Palatina racconta che Luigi XIV, ammettendo i propri figli alla sua tavola per la prima volta, vie- tò loro di mangiare in modo diverso da quello che egli stesso era solito fare e di servirsi di una forchetta, come aveva insegnato loro un precettore trop- po zelante. Quando, allora, l'Europa ha inventato le buone maniere a tavo- la? Vedo un costume giapponese del secolo XV; lo ritrovo molto simile nel XVIII, e uno spagnolo racconta la sua conversazione con un dignitario nip- ponico, sorpreso e persino urtato nel vedere comparire gli europei a pochi anni di distanza con vesti ogni volta diverse. La follia della moda è decisa- mente europea. È futile? Seguendo i piccoli incidenti, le note di viaggio, vediamo rivelarsi una società. Il modo in cui, nei suoi vari strati, si man- gia, ci si veste, si dimora, non è mai indifferente. E queste istantanee mo- strano anche, da una società a un’altra, contrasti, differenze, diversità non sempre superficiali. È un gioco divertente, che non credo futile, ricompor- re questa serie di immagini.

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