Alma Mater Studiorum – Università di Bologna DOTTORATO DI RICERCA IN Bisanzio ed Eurasia secc. V-XVI Ciclo XXV Settore Concorsuale di afferenza: 10/N2 Settore Scientifico disciplinare: L-OR/14 L’inno avestico agli Aməa Spəṇta (Yašt 2) Testo critico e traduzione con commentario storico-religioso Presentata da: Birgit Costazza Coordinatore Dottorato Relatore Chiar.mo Prof. Antonio R. Carile Chiar.mo Prof. Antonio C. D. Panaino Esame finale anno 2014 Indice Prefazione 1 Introduzione 6 La tradizione manoscritta 10 Premessa alla traduzione 15 Presentazione del testo liturgico e della sua struttura 19 compositiva Formule di apertura e chiusura 27 Testo Avestico e Traduzione Italiana 31 Commento e analisi delle stanze 0-10 65 Analisi linguistica e stilistica stanze 11-14 82 Commento storico-religioso 99 Conclusioni 106 Bibliografia 108 Prefazione Questo studio è dedicato all’edizione critica (con traduzione e commento) dell’inno avestico agli Aməa Spәṇta, compresi i capitoli introduttivi e conclusivi; esso include, inoltre, diverse considerazioni sul suo utilizzo liturgico. L’inno dedicato agli Aməa Spәṇta secondo la numerazione degli Yašt1 si trova in seconda posizione e segue quello dedicato ad Ahura Mazdā. Tenendo presente che Ahura Mazdā è spesso indicato come uno degli stessi Aməa Spәṇta, tale sequenza non deve pertanto meravigliare. Yt. 2 fa parte del gruppo di composizioni considerate “minori” all’interno del corpus avestico, non solo per via della loro redazione tardiva e della minore estensione, ma anche a causa del loro carattere palesemente secondario, ripetitivo e, spesso, grammaticalmente inadeguato. Tale testo, infatti, in più casi si presenta come un mosaico di formule estrapolate da altri testi zoroastriani in lingua avestica. Per tali motivi non deve sorprendere se Lommel ha affermato in proposito che: “Dies ist wohl unter allen Yäšts das erbärmlichste Machwerk. Im Mittelteil werden die Aməa Spәṇtas mit zugehörigen Genien in nichtssagenden Formeln angerufen, und daß die unverständlichen Teile in § 12, 13, 14 nichts Vernünftiges enthalten, soviel kann man ihnen wohl ansehen”.2 Affermazioni come quella sopra citata costituiscono sicuramente una delle cause per le quali il mondo scientifico si è concentrato principalmente sull’edizione e traduzione dei cosiddetti “Grandi Yašt”, a discapito delle composizioni minori alle quali ci si rivolge soltanto nelle traduzioni complessive dell’innario avestico preso nel suo insieme oppure nel contesto di edizioni dell’intero corpus avestico. Nonostante il fatto che gli inni minori siano una compilazione relativamente molto tarda, forse posteriore addirittura a quella del Vidēvdād, ciò non implica che il loro materiale costitutivo debba per forza essere tutto di produzione recente. Trattandosi in alcuni casi di parti di un testo di “reimpiego” è possibile che in questo 1 Il termine Yašt è il corrispettivo pahlavi dell’avestico yešti- e significa nient’altro che “inno”. Si vedano a proposito però anche le considerazioni di Panaino 1994. 2 Lommel 1927 p. 19. 1 patchwork avestico siano stati affiancati frammenti arcaici a sezioni o stanze più “moderne”. Così Yt. 2.2-5 corrisponde a Sīh-rōzag 1.3-7, testo che, a sua volta, fa parte della produzione avestica recenziore e comprende alcune parti già presenti nello Yasna. Come afferma la Narten: “Allem Anschein nach hat also der jungavestische Verfasser des oben zitierten Textes [Yt. 2.7 = S. 2.4] aus Y. 51 geschöpft.”3 Il rapporto cronologico fra questi passi è ancora oggetto di discussione; Kellens riguardo il Sīh-rōzag sostiene che alcuni passi corrispondenti con quelli propri dello Yasna sarebbero stati derivati da una Vorlage originariamente appartenente al testo degli Yašt.4 A questo punto appare necessario spendere qualche parola sulla questione difficile e controversa della datazione dei testi avestici sia in termini di cronologia relativa sia assoluta. La parte normalmente considerata più arcaica è quella composta dalle Gāϑā (Y. 28-34; 43-51; 53), dallo Yasna Haptaŋhāiti (Y. 35-41) e dalle quattro grandi preghiere di Y. 27.5 Tali testi sembrerebbero probabilmente più antichi di qualche secolo e comunque la loro facies linguistica appare certamente pù arcaica di quella dei testi “migliori” in avestico recente. A dispetto del fatto che non sia stato possibile datare con esattezza tutte queste composizioni, si suppone che i “Canti” possano essere collocati attorno all’inizio del primo millennio avanti la nostra era. I testi successivi, composti in un “dialetto” tradizionalmente definito come “avestico recente” sembrano invece più o meno contemporanei ai grandi monumenti linguistici in antico-persiano. Il Vidēvdād, a sua volta, risulterebbe posteriore alla composizione stessa degli Yašt e dello Yasna, ma qualche studioso sostiene, invece, che si potrebbe trattare anche semplicemente della produzione di una scuola liturgica differente. D’altronde, non vi sono indicatori linguistici o testuali che possano supportare o smentire tale ipotesi. Comunque, è importante tenere a mente 3 Narten 1982 p. 127. 4 Kellens 1996. 5L'effettiva arcaicità delle quattro grandi preghiere è al momento fonte di discussione tra gli studiosi, nonostante la tradizione interna assegni loro un'origine molto arcaica, i testi presentano alcune caratteristiche linguistiche che farebbero pensare ad una relativa recenziorità che potrebbe però anche essere motivata dalla trasmissione e quindi corruzione secondaria del testo. Si veda Gippert 2002. 2 che l’intera produzione e la successiva trasmissione sono avvenute per via orale, mentre non vi sono indizi certi a favore dell’esistenza di una redazione scritta dell’Avesta prima dell’avvento dell’era sasanide,6 né si può ammettere che eventuali versioni più antiche trascritte secondo altri sistemi grafemici abbiano influito direttamente sulla redazione della versione sasanide finale. Per quanto riguarda la cronologia relativa nel processo di composizione dei vari Yaš t si pone un problema metodologico non indifferente: come già aveva sottolineato Skjærvø (1994), sarebbe affrettato assumere che le composizioni considerate minori siano per forza seriori. L’individuazione di corruzioni o errori in tali inni brevi è sicuramente discutibile. Stabilire che un gruppo di inni è da considerarsi “inferiore” per importanza rispetto ai restanti testi implica una valutazione che, in linea di principio, non dovrebbe competere allo scienziato moderno, soprattutto se non si chiarisce di quale genere di “inferiorità” si stia trattando. Per un fedele zoroastriano, gli Yašt 1-4 probabilmente dovevano essere importanti tanto quanto gli altri inni, dato che proprio queste composizioni sono dedicate ad Ahura Mazdā e agli Aməa Spәṇta, quindi, agli esseri più nominati e venerati nell’intero corpus avestico. In particolar modo è da sottolineare che, come afferma Skjærvø (1994 p. 235): “… the text of Yt 1, for instance, is quite correct, and the degree of corruption in it can easily be ascribed to the fact that the extant text is that transmitted in the Xorde Avesta tradition, the “prayer book” tradition of the Zoroastrians …”. Inoltre, Yt. 1 risulta l’inno più documentato nei manoscritti di tipo Xorda Avesta.7 Si può, dunque, affermare che non tutti gli inni considerati minori presentino tutte le caratteristiche che hanno spinto gli studiosi a classificarli come tali. Tenendo in considerazione anche la tradizione codicologica si nota che la frequenza degli inni minori mostra una notevole 6 Diversamente da quanto espresso nelle fonti medievali, le quali narrano la leggenda di un testo scritto sin dalle origini dello zoroastrismo. Infatti, Ahura Mazdā stesso avrebbe creato l’Avesta e lo avrebbe poi donato a Zaraϑuštra il quale lo portò al re Vištāspa. Si veda per esempio Kellens 1987. 7 König 2012 p. 376 s. 3 discrepanza. Infatti Yt. 1 è documentato nella maggior parte dei manoscritti, mentre Yt. 2 appare molto più raramente tra gli inni inclusi nei codici.8 Da un punto di vista pratico-rituale è importante tenere presente che gli inni cosiddetti “minori” rientrano tra i testi più utilizzati dalla comunità zoroastriana, oggi come in passato. Si prenda, per esempio, il Wanand Yašt: non solo si tratta dell’inno avestico più breve in assoluto (una sola stanza, più le formule di apertura e conclusione), ma si trova anche in ultima posizione (ventunesima) e assieme a Yt. 20 fa parte degli unici due inni che non presentano un giorno omonimo nel calendario zoroastriano. Nonostante ciò, si tratta di un testo ben documentato nei manoscritti e molto popolare ancora in epoca moderna presso le comunità parsi. La popolarità dell’inno a Vanaṇt è forse data dalla sua forza “magica” specificamente invocata per respingere gli xrafstra-, ovvero gli esseri abominevoli, volanti e striscianti, creature ahremaniche che con la loro presenza “inquinano” il mondo.9 Da questo esempio si evince che né l’estensione né la qualità compositiva di un inno possono essere parametri esclusivi per valutare l’importanza del testo sul piano religioso e rituale. Anche Yt. 2, soprattutto nella parte centrale, potrebbe aver avuto un’origine “magica”, come suppone Pirart: “ L’auteur du collage paraît avoir voulu rassembler des passages, peut- être à l’usage de quelque exorciste, dans lesquels la Druj est chassée.”10 La presenza di una formula magica all’interno dell’inno non costituisce di per se stessa un elemento distintivo dagli altri inni, quanto piuttosto rappresenta una caratteristica accomunante diverse fonti di natura religiosa esplicitamente importanti per la loro funzione protettiva ed antidemoniaca. Lo Yašt successivo (dedicato ad Aa Vahišta) è in gran parte composto da formule apotropaiche ed esorcistiche. Infine, si noterà che giudizi di di carattere estetico relativi alla “superiorità” o “inferiorità” di un testo religioso, soprattutto alla luce di valutazioni puristiche, fondate sulla sua maggiore o minore prossimità ad un modello linguistico teorico più rappresentativo della supposta eleganza grammaticale dell’avestico, preso come lingua da laboratorio glottologico, 8 A tal proposito si veda la tabella pubblicata da König 2012 p. 378 s. 9 Panaino 1989 e 1991 (publ. 1993-94). 10 Pirart 2002 p.24. 4 costituisce un criterio inaccettabile dato che anche un testo “corrotto” e grammaticalmente impreciso, se riflette uno stato reale di diversa com- petenza linguistica, ormai palesemente recenziore, ma purtuttavia reale, resta fonte storico-linguistica preziosa, anche (anzi, a maggior ragione) grazie alla sua “corruzione”. 5 Introduzione La prima traduzione in una lingua europea dell’inno dedicato agli Aməa Spәṇta risale all’opera di Anquetil-Duperron.11 L’orientalista francese presentò nella seconda metà del XVIII secolo la prima traduzione dell’intero Avesta in lingua francese; tale opera pionieristica ha portato i testi sacri degli zoroastriani all’attenzione degli studiosi occidentali. Nonostante qualche dotto dell’epoca avesse mosso seri dubbi sull’autenticità del testo avestico riportato dall’India e tradotto dallo stesso Anquetil-Duperron,12 l’opera venne ri-tradotta in tedesco da Kleuker, il quale non aggiunse sostanziali modifiche o innovazioni da un punto di vista scientifico. A distanza di quasi un secolo, Westergaard pubblicò un’edizione critica dell’intero Avesta.13 Malgrado lo studioso avesse a disposizione un numero molto limitato di manoscritti, rea- lizzò un lavoro scientificamente ben organizzato, sebbene purtroppo incompleto. Per le prime dieci stanze dello Haftān Yašt, oltre ai sette manoscritti a lui disponibili e contenenti l’inno (K12, 19; L11, 18; Or; P13; Kh1), lo studioso danese ebbe anche modo di prendere in considerazione le copie del Sīh-rōzag14 che contenevano ampie sezioni aparallele a quelle presenti nell’inno oggetto del nostro studio. Nel 1863 Spiegel pubblica, dopo una sua edizione critica di parte della liturgia avestica e di cui tratteremo oltre, una nuova traduzione completa dell’Avesta, seguita cinque anni dopo da un ampio commentario. Già nel 1864 tale traduzione di Spiegel venne tradotta in inglese con l’ausilio anche della “locale” versione in Gujarati, comprensibilmente molto popolare presso i Parsi e certamente di grande utilità per i continui riferimenti ad un ramo, quello indiano, della tradizione folklorica e popolare. Tale pubblicazione era destinata ad un’ampia diffusione, soprattutto in India e, di riflesso, nel mondo anglosassone. Meno nota l’edizione critica che Spiegel pubblicò nel 1853-58; si tratta della prima edizione critica del testo avestico completo di 11 Anquetill-Duperron 1771 vol II p. 152 ss. 12 Soprattutto William Jones e alcuni studiosi tedeschi ad eccezione di Kleuker e Herder du- bitarono dell’autenticità dei testi avestici. 13 Spiegel editò anche un’edizione critica (1853-58) che non comprendeva il testo dell’innario; vedi oltre nel testo. 14 Westergaard 1852-54 Vol. I p. 149 nota II. 6 commentario pahlavi (e in questa importante caratteristica anche la sola). Purtroppo tale edizione non comprendeva l’innario avestico, nonostante alcuni Yašt siano corredati di traduzioni e/o di commenti e glosse in pahlavi. Nel 1875 De Harlez completava la traduzione dell’Avesta in lingua francese e proponeva una traduzione dell’intero inno agli Aməa Spәṇta anche se egli aggiunse in nota che, per quanto riguardava i passi 2.11-15: “Tout ce passage est altéré et mutilé, on ne peut lui donner qu’un sens conjectural”. A sua volta, Darmesteter nel 1882 e nel 1892-93 pubblica una traduzione completa prima in lingua inglese nella serie Sacred Books of the East (SBE) e poi una in francese. In generale, la seconda versione di Darmesteter spicca per una maggiore accuratezza nella parte dedicata al commento filologico del testo. Nelle note vengono indicati i passi paralleli (soprattutto del Sīh-rōzag) e possibili letture alternative. Purtroppo la sezione Yt. 2.12 non viene tradotta dal Darmesteter.15 In questo periodo di grande fioritura degli studi avestici in Occidente si inserisce il monumentale lavoro di Geldner; la sua “nuova” edizione critica dell’Avesta in tre volumi appare, nella versione tedesca (introduzione e note), tra il 1886 e il 1895, nella versione inglese, redatta specificatamente per soddisfare i munifici sponsors zoroastriani d’India (nonché per ragioni di carattere diplomatico), esce a sua volta tra il 1891 e il 1896. Rispetto alla precedente edizione di Westergaard, il Geldner aveva a disposizione non solo un numero nettamente superiore di manoscritti (oltre 120),16 ma anche numerosi codici di elevata “qualità” (per esempio F1 per gli inni) non disponibili a Westergaard. Oltre a fornire un testo completo e schematico sud- diviso in tre volumi e di facile impiego per gli studiosi, l’opera del Geldner comprende anche una descrizione di tutti i manoscritti impiegati e, dove possibile, la ricostruzione dello Stemma Codicum pertinente i singoli corpora testuali (vedi Prolegomena). Purtroppo, per quanto riguarda i manoscritti impiegati per l’edizione critica degli Yašt, manca lo Stemma Codicum dei singoli inni. L’edizione di Geldner venne pubblicata sia in tedesco sia in inglese, per il presente lavoro si fa riferimento all’edizione inglese. 15 L’autore segna in nota: “I am unable to make anything out of this section.” p. 38 nota 5. 16 Sedici manoscritti per Yt.2. 7 Nel 1910 appare la traduzione tedesca di Wolff, il quale basa il suo lavoro sull’edizione critica del Geldner e per quanto concerne la traduzione segue in modo molto fedele, anche pedante, l’Altiranisches Wörterbuch di Bartholomae, già pubblicato nel 1904. Nonostante il Geldner avesse suddiviso il testo, dove possibile, in versi e posto, quindi, anche grande attenzione all’aspetto metrico-poetico delle singole composizioni,17 tale caratteristica viene trascurata dal Wolff. Die heiligen Bücher der Parsen di Wolff risulta, comunque, un lavoro scientificamente molto moderno per l’epoca e utile agli studiosi di innologia antico-iranica sino al 1927, quando Lommel dedica un intero volume esclusivamente agli Yašt. Tale monografia si distingue soprattutto per la sezione dedicata alle formule introduttive e conclusive, in cui precisa alcune riflessioni anticipate da Darmsteter; inoltre, vi è una dettagliata prefazione per ogni singolo inno con una descrizione delle peculiarità dello Yašt in questione e della divinità onorata in tale testo. Per quanto concerne specificamente l’inno dedicato agli Aməa Spәṇta, il Lommel definisce tale composizione come misera e in gran parte priva di contenuto sensato. Il nucleo “originale”, ovvero 2.11-14, viene tradotto dal Lommel in modo frammentario con la prudente, ma forse semplicistica, annotazione: “Überlieferung schlecht, Übersetzung ungewiß. In den folgenden §§ ists noch schlimmer.” Nel 1982 la Narten pubblica una monografia dedicata agli Aməa Spәṇta nei testi avestici. Il volume contiene inevitabilmente anche traduzioni di parti importanti dell’inno dedicato ai “sette immortali”, soprattutto nel caso dei passi che coincidono con quelli inglobati anche nel Sīh-rōzag.18 Pirart in un articolo (2002) si concentra principalmente sui problemi linguistici della sezione 2.11-14, ovvero sulla parte considerata “originale”. La sua traduzione è fortemente motivata dallo scopo di produrre una ricostruzione del significato etimologico attribuibile o ricostruibile per i numerosi termini rari o isolati che risultano attestati nei passi in questione; 17 Il Geldner aveva pubblicato nel 1877 uno studio sulla metrica nell'Avesta recente (“Über die Metrik des jüngeren Avesta”), la posizione che l'autore assume nel contesto dell'edizione critica è molto più moderata rispetto allo studio precedentemente pubblicato, ma segue comunque la medesima impostazione. 18 La studiosa cita e traduce anche l’inizio di Yt. 2.12, ma asserisce che il contesto è corrotto. Narten 1982 p.1. 8
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