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Atque. Materiali tra filosofia e psicoterapia. Nuova serie. 13/2013. Prima e terza persona. Forme dell'identità e declinazioni del conoscere PDF

220 Pages·2013·1.017 MB·Italian
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a cura di Fabrizio Desideri e Paolo Francesco Pieri prima e terza persona forme dell’identità e declinazioni del conoscere Giampiero Arciero, Arnaldo Ballerini, Fabrizio Desideri, Michele Di Francesco, Rossella Fabbrichesi, Carlo Gabbani, Roberta Lanfredini, Mauro Mandrioli, Patrizia Pedrini, Pietro Perconti, Mariagrazia Portera, Alfredo Tomasetta con un saggio di Gertrude Elizabeth Margaret Anscombe SOMMARIO INTRODUZIONE Parva tragoedia gramaticalisovvero Impossible love 11 Fabrizio Desideri TESTI Dalla clinica del “caso” all’incontro: verso una psicopatologia della prima persona 21 Arnaldo Ballerini Materia cosciente fra prima e terza persona 41 Roberta Lanfredini Sé, io, me: la psicologia della coscienza di Georg Herbert Mead 59 Rossella Fabbrichesi Chi sono io? Forme dell’individuo fra filosofia e biologia 81 Mariagrazia Portera, Mauro Mandrioli Mente cosciente e identità personale 105 Michele Di Francesco, Alfredo Tomasetta I limiti delle storie su se stessi 131 Pietro Perconti Sul fallimento dell’autorità epistemica in prima persona 145 Patrizia Pedrini Il problema difficile e la fine della psicologia 157 Giampiero Arciero MATERIALI La prima persona 187 Gertrude Elizabeth Margaret Anscombe Nota bio-bibliografica 213 Carlo Gabbani Gli Autori 219 INTRODUZIONE Fabrizio Desideri Parva tragoedia gramaticalis ovvero Impossible love Scena a due voci. A parlare sono la Prima e la Terza persona. La Prima (Ego/Io) parla/canta con lo stesso timbro di voce, a cambiare sono gli accenti: dal supplichevole allo scorato e così via. L’impressione, in ogni caso, è quella di un tono di voce impostato, leggermente artificioso e pateticamente teatrale. La Terza parla/canta alternando tre diversi registri (medio, acuto e grave) e si pre- senta con tre diverse figure equivalenti ai tre diversi generi: Ille/Lui, Illa/Lei, Illud/Esso (naturalmente i tre diversi registri si mescolano, con prevedibili pre- valenze). Si tratta però della stessa Persona. Sempre si ha l’impressione di un dire/cantare naturale e disinvolto. A prevalere, anche laddove il discorso si fa concettualmente aspro dal punto di vista dell’astrazione, è il tono di una sovra- na e bonaria ironia. A fronteggiarsi, dunque, sono solo due voci. Questo, però, non è un dialogo. È la rappresentazione della sua grammaticale impossibilità. Il dire delle voci è quasi cantato in forma di recitativo, tranne alcune eccezioni quasi tutte riguardanti la Prima persona. Ego: Chi mi ascolta? C’è qualcuno capace di udirmi? Sono forse solo… Se qualcuno mi udisse, potrei finalmente dirgli chi sono. Po- trei finalmente dirgli che sono Io, nient’altro che Io. Senza la solita paura di sbagliarmi. Così cancellerei quel dubbio che mi rode. Il dubbio che le mie siano soltanto parole, parole senza voce forse. Co- me vorrei che qualcuno mi sentisse! Ille: Io stolto e inavveduto! Illuso, illuso e soltanto illuso. Non si accorge che le sue parole sono solo voce: pura voce e nient’altro. 11 Fabrizio Desideri Non sa, dunque, di essere una voce senza corpo. Vox tantum e non gli rimangono nemmeno le ossa! Caro Io non sei e non fosti mai una ninfa. Non c’è Eco in te. Voxsola: senza corpo e, perciò, senza fiato [sussurrando tra sé] oltre che senza testa, naturalmente . Eppure chi dice “Io” dovrebbe sapere come funziona un’inferenza. Ego: Nel fondo di oscure rappresentazioni – di sogni, forse, chi può dirlo? – mi sono cercato senza trovarmi. Nient’altro che imma- gini, immagini irriconoscibili. Immagini senza figura. Ma chi mai po- trebbe dire di averle viste o almeno pur tacitamente intuite. Confu- se, aggrovigliate, senza memoria. Immagini d’inganno. Prive di for- ma e contorno. Nient’altro che pensieri, solo pensieri, ahimé! Così, forse, posso chiamarli, anche prima che vengano alla parola, anche senza essere mai detti. Ti sembra di afferrarli, ma sfuggono subito. Evaporano o scoppiano senza rumore come bolle di sapone. Ille: Ma cosa sta farneticando? Crede ancora di pensare. Gioca al gioco del “Cogito”. Si crede una vox cartesiana. S’illude che il suo sia un discorrere silente: un pensiero prima di ogni parola. Magari un dialogo muto dell’anima con sé. Ma di chi? Dell’anima??? Verrebbe da ridere, se questo riso qualcuno potesse capirlo. [Quasi borbottan- do]Egli ride sempre da solo e nessun Io può condividere il suo riso. Il riso dell’Io è impartecipabile. Osservato da qua, visto da fuori, non è più nemmeno un Io. Catturato dall’illeità, non scappa. O se lo fa, lo fa solo per tornare nella sua insopportabile prigione. Altrimen- ti… Ride e basta allo stesso modo che Piove. Del resto qui non c’è niente da ridere. Né da piangere. Dove c’è Io, non c’è anima: non c’è il respiro di Psychè. La voce dell’Ego – la voce Io – non sarà e non potrà mai essere divisa in sé. Gli è negato il dialogo. Fin dall’origine. Io è solo quello che dice. O meglio quello che si presenta su questa pagina. O su questa scena senza sfondo e platea. Uno schermo, un display: pixel, nient’altro che pixel. Poveretta e tre volte ignara, la voce dell’Io. Ignara di sé. Intermezzo musicale per violino e pianoforte: alternarsi di pianissimi e fortis- simi, rarefatti contrasti, voce stonata del violino, accenti gelidi e beffardi del pianoforte. 12 Parva tragoedia gramaticalisovvero Impossible love Ego: Almeno un’Eco mi rispondesse! Conoscerei il tepore del dialogo, la dolcezza dell’accordo o l’amarezza dell’incomprensione. Così è impossibile sia l’intendersi sia il fraintendersi. Sono soltanto Io: Io sempre sazio e sempre affamato. Almeno riconoscessi che questi stati sono divisi, scissi. In questo dolore mi riconoscerei. Nel dolore del differire, sentirei che qualcosa permane. Nella differenza, pur dolorosa e lacerata fino allo spasimo, coglierei l’identità; nel di- stinto intuirei l’invarianza. Ma proprio questo non posso. Ille: Non può, perché la sua voce è cieca circa la propria natura. Non sa, non vede che è viva soltanto alla lettera. Letteralmente viva. Viva sempre e solo nello spazio di una proposizione. Qui Io unica- mente respira. Respira come la Prima persona di una gramatica singu- laris. Singolare, al punto che forse esiste solo in questa pagina. In ogni caso non esiste solo per una volta. La regola che esprime, come ogni regola, sta fuori del tempo. E va beh, amici filosofi: sta dentro e fuori tutte quelle volte in cui esibisce la sua validità. Asserendo anzi tutto che in essa non esiste dualità, c’è solo la differenza tra il primo e il ter- zo. E così il due è l’asintote di un’infinita divergenza tra l’Io e l’Egli. Il dolore dell’Io, quel dolore in Prima persona su cui tanto si specula, è qui un dolore letterale: un dolore da prendersi soltanto in parola. In parola e come parola, parola dell’Io: Io senza Sé. Ego non animal: ego solus ipse. Né distinto né invariante; né identico né differente. Ego: Eppure, eppure Io sono; Io ci sono: sono qui. Ma, ahimè, sono soltanto qui e soltanto Io. Almeno potessi, Io che sono qui e soltanto qui, dire, seppur senza solennità, che Io sono Io. Che sono tale anche quando sono là. Ille: Ma là, veramente là, non c’è Io, se Io è qui. Se Io fosse e qui e là, non sarebbe più tale. Il poveretto questo non lo vede. Per que- sto batte la testa solamente nella propria fronte. Se così si potesse di- re, naturalmente… Proprio questo sbattere della sua fronte contro se stessa – contro ogni evidenza (ma non diceva il sommo e schivo custode della Legge che il vero unico ostacolo è il proprio osso fron- tale?) – è la prova più efficace che questo Io è tutt’altro che Assolu- to. Io non ab-solutus, libero, sciolto da vincoli. Ma sempre prigionie- 13 Fabrizio Desideri ro di sé fino alla cecità: perfettamente inscius sui. Gonfio di sapere, ma chiuso nella propria dannata identità. Ego: Pare dunque proprio impossibile uscire dal “qui” ed essere, insieme, anche “là”. Posso alludervi, ma rimarrò sempre radicato nel mio qui. Qui è la mia prigione. Non il corpo, come diceva qualcuno. Se riuscissi a essere là, in altro luogo da “qui”, potrei finalmente sta- re fuori di me. Sarei pur sempre un Io estatico. Ma là dov’è un “fuo- ri”, là Io non arriva mai. Non c’è una terra di mezzo da attraversare o una palude da bonificare. Anche il là diventa di nuovo qui, sempre lo stesso. Qui o là, allora, Io non esce mai da sé. Attesta pur sempre la regola di cui è funzione: la regola di cui Io è servo (il contrario dell’assoluto). Così Io non pare dunque poter mai dalla proposizio- ne che lo dice. Ille: Che strano, sembra quasi che cominci a rendersi conto. [Par- lando da sé e con accento lievemente beffardo, quasi commiserando] Stiamo a vedere… Ego: Da questa prigione dunque non esco? Qualcuno o qualcosa viene in mio soccorso e da dove? Viene forse un’immagine, sognata o pensata nella fragilità di un momento, a spezzare questa regola che m’incatena a un luogo dove non c’è né dentro né fuori? Scorrono in silenzio sedici pannelli neri; al limite dell’aniconico: tra il quadrato nero di Malevicˇ e dettagli degli untitleddi Rothko. Illa: Et nunc adveniat imago… Ma l’immagine non può essere qui d’alcun aiuto, caro Io. Non può soccorrere, come l’amata viene in soccorso dell’amante. Per Io non c’è amore, nemmeno quello dell’im- magine. Impossible love, impossible love – canta Melody. Anche Ima- go, ogni immagine – per quanto labile, incostante, fluida, fluttuante, evanescente e mutevole sia – per Io se ne resta caparbiamente in sé. Ogni immagine, perfino nella sua apparente ambiguità, resta a una di- stanza che Io mai potrà raggiungere. È pur sempre illa imago; è pur 14

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