Antonio Sabetta IL RUOLO DELLA CRITICA DEISTA NELLA DETERMINAZIONE DEL TRATTATO APOLOGETICO MODERNO DE REVELATIONE Uloga deističke kritike u određivanju modernog apologetskog traktata o Objavi The role of deistic criticism in determining the modern apologetic treatise on Revelation UDK: 27-285.2:27-22]:141-42 1Toland, J. 1Collins, A. 489 11Tindal, M. 4 l 17. Izvorni znanstveni članak Original scientific paper Primljeno 8/2017. Sažetak Polazeći od pojma da se riječ/pojam “Objava” danas koristi ne samo da identificira ili opiše određeni aspekt kršćanske vjere, već da odredi i njezinu globalnu stvarnost, u članku se raspravlja o važnosti deističke kritike Objave u određivanju Objave kao središ- nje kategorije kršćanskog samo-razumijevanja i iznad svega same strukture suvremenog apologetskog traktata. Ovu deistička kritika prikazujemo preko najistaknutijih autora - Toland, Collins, Tindal - zatim ispitujemo kako se došlo do “trodijelnog” priručnika: O Reli- giji – O Objavi – O Crkvi, naglašavajući središnjost Objave unutar priručnika te njegove uske veze s deističkom kritikom Objave. Ključne riječi: otkrivenje; deistička kritika; apologetika; Obja- va; kršćanska vjera intrOduZiOne La parola/concetto “rivelazione”, viene impiegata non solo per identificare o descrivere un aspetto particolare della fede cri- stiana, ma per designare la realtà globale della stessa, al punto che lo specifico del contenuto che contraddistingue il cristiane- simo viene ricondotto alla parola “rivelazione”. Nonostante l’av- Antonio Sabetta, Il ruolo della critica deista nella determinazione del trattato ... vertimento di qualche autore, secondo il quale il tempo in cui “rivelazione” come centro dell’autointelligenza cristiana sarebbe ormai al termine1, sta di fatto che ancora oggi continuiamo a rap- presentare il cristianesimo come religione storica rivelata e a fare della rivelazione “la chiave di sistematizzazione di tutte le singo- le tematiche e di tutte quante le possibili categorie teologiche”2. Ora “rivelazione” diviene progressivamente e definitivamente nella modernità compiuta la parola centrale dell’autocompren- sione cristiana. Infatti, se guardiamo la teologia precedente e la stessa Sacra Scrittura, ci accorgiamo che né la Bibbia presen- ta un concetto chiaro ed univoco di rivelazione, né agli inizi del 490 cristianesimo vi era un’idea di rivelazione corrispondente all’ac- cezione odierna e comunque tale da assurgere al ruolo di catego- ria centrale e identificante l’essenza della fede cristiana. Di fatto anche nella riflessione magisteriale la parola rivelazione fa il suo ingresso tardi, al Concilio Vaticano I che dedica non solo un capi- tolo – in questo caso il cap. 2 della Dei Filius che s’intitola proprio De revelatione – ma l’intera costituzione dogmatica alla questione della rivelazione e dei temi correlati; fino al 1870, nell’unico altro luogo conciliare in cui ci si era occupati non della rivelazione in generale ma della sua trasmissione – il Concilio di Trento –, era stata impiegata la parola “vangelo” e non rivelazione. Bisognerà attendere il Vaticano II per una riflessione orga- nica, ampia e svincolata da ragioni polemiche e contingenti sulla rivelazione, cosa che farà la Dei Verbum – “il primo grande docu- mento della Chiesa che affronta direttamente il problema della rivelazione”3 –, la quale si apre proprio con un capitolo su cosa sia la rivelazione. E così ancora oggi, nonostante non siano mancati anche dal fronte teologico, perplessità o addirittura rifiuti all’idea di attribuire così grande peso alla parola rivelazione4, questo non 1 Così Hans WaldenFels, Rivelazione. Bibbia, tradizione, teologia e pluralismo reli- gioso, ed. it. San Paolo, Cinisello Balsamo, 1999, 5. 2 Peter eicher, Offenbarung. Prinzip neuzeitlicher Theologie, Kösel, München, 1977, 48. 3 rené latOurelle, Come Dio si rivela al mondo. Lettura commentata della costitu- zione del Vaticano II sulla “Parola di Dio”, Cittadella, Assisi, 2000, 9. 4 Si pensi alle critiche di P. Althaus di diversi decenni fa che parlava di “inflazione del concetto di rivelazione”: Cf Paul althaus, Die Inflation des Begriff der Offenba- rung in der gegenwärtigen Theologie, in Zeitschrift für systematische Theologie 18 (1941), 134-149. Ad Althaus sono seguiti altri autori (per le cui posizioni cf Max seckler - m. kessler, La critica della rivelazione, in Walter kern - hermann jose- ph. pOttmeyer - max seckler [edd.], Corso di Teologia fondamentale. II. La rivela- Služba Božja 57 (2017), br. 4, str. 489 - 521 ha impedito al concetto di rivelazione il diventare “sinonimo del- la dottrina cristiana, il legittimatore e il valido fondamento del- le rivendicazioni cristiane esplicitate nelle dottrine, la categoria apologetica legittimatrice e il fattore sistematico fondamentale”5, insomma “il concetto più fondamentale del cristianesimo”6. Ora quello che intendo mostrare nelle pagine che seguono è di ordine duplice: anzitutto la ragione dell’assurgere la parola rivelazione a concetto chiave del cristianesimo affonda ed è tipi- camente moderna, poiché è proprio la critica serrata della rivela- zione nella modernità che spinge il cristianesimo ad identificare la sua specificità in una rivelazione positiva nella storia, la sola 491 vera e definitiva. È vero che il trattato De revelatione (De vera reli- gione) non esaurisce l’apologetica moderna, ma ne costituisce la parte più ampia, significativa e la sola capace di unire nello sforzo apologetico tanto i teologi cattolici quanto i riformati. In secondo luogo la centralità della rivendicazione cristiana come religione rivelata è determinata da quel movimento della modernità così essenziale per l’apologetica moderna che fu il deismo. Raccolgo, condivido e cerco di dare corpo all’affermazione di H. Bouillard che alcuni decenni fa scriveva: “il trattato classico sulla rivela- zione si è costituito contro il deismo” e “le sue diverse tesi sono state suscitate o modificate dallo sviluppo crescente e sistematico di questo movimento”7. Poco dopo aggiungeva: “è la lotta contro il deismo che è all’origine del trattato classico della rivelazione, che ne ha determinato gli elementi e la struttura e che ne ha fat- to il cuore della nostra teologia fondamentale”8. Su questa linea si colloca lo studio fondamentale di g. heinZ, Divinam christia- nae religionis originem probare (1984). Nell’introduzione l’auto- re ricorda che la categoria di rivelazione rappresenta il concetto chiave (Schlüsselbegriff) dell’autocomprensione cristiana riflessa, zione, ed. it. Queriniana, Brescia, 1990, 56-62) a partire dalle cui critiche Rug- gieri concludeva l’illegittimità della fondazione dell’evento cristiano sulla base di quei concetti a cui, come nel caso di rivelazione, è stato dato storicamente un privilegio. Cf giuseppe ruggieri, La problematica della rivelazione come “concet- to fondamentale” del cristianesimo, in assOciaZiOne teOlOgica italiana, La teologia della rivelazione, a cura di d. valentini, Messaggero, Padova, 1996, 101-105. 5 H. WaldenFels, Rivelazione, 135. 6 Karl rahner, Sollecitudine per la Chiesa, in id., Nuovi Saggi VIII, ed. it. Paoline, Roma, 1982, 57. 7 Henry bOuillard, La tâche actuelle de la théologie fondamentale, in institut cathO- lique de paris (ed.), Recherches actuelles – II, Beauchense, Paris 1972, 14. 8 Ibid., 15. Antonio Sabetta, Il ruolo della critica deista nella determinazione del trattato ... mediante cui la teologia qualifica in modo trascendentale e fon- damentale la questione del cristianesimo e la sua specifica iden- tità. Ora tale posizione così centrale del concetto di rivelazione è stata guadagnata nel corso della modernità (Neuzeit) non sulla base di uno sviluppo interno alla teologia ma a partire dalla mes- sa in questione della pretesa della rivelazione, proveniente dalla cerchia del pensiero laico. E fu proprio dal confronto con queste correnti critiche verso la rivelazione che questa divenne l’oggetto di un trattato specifico da analizzare in forma razionale9. Procederò pertanto in questo modo; in un primo momento presenterò la critica deista della rivelazione come si configura 492 nelle tre figure chiave del movimento (Toland, Collins e Tindal), quindi cercherò di riepilogare a grandi linee le caratteristiche del trattato moderno di apologetica evidenziando il suo debito con la critica della rivelazione deista (ed illuminista). 1. il cOntenstO nuOvO della mOdernità e il prOgressivO cOnFigurarsi dell’apOlOgetica mOderna Non è questo il luogo per poter ripercorrere le rivoluzioni del- la modernità che hanno segnato radicali cambiamenti nel pensie- ro. La modernità configura un nuovo inizio del pensiero e segna l’ingresso significativo di alcuni fattori nuovi che modificheranno profondamente la riflessione apologetica. Gli eventi più impor- tanti sono da un lato il mutamento di paradigma filosofico che crea l’autonomia e la separazione fra ragione e fede, per cui la filosofia è ormai indipendente dalla conoscenza di fede (si veda il neoaristotelismo di Pomponazzi), dall’altro quell’evento scon- volgente dal punto di vista non solo religioso ma anche politico, sociale e filosofico che fu la riforma protestante, la rottura dell’u- nità religiosa in Occidente e la conseguente esperienza tragica delle guerre di religione. Anche questo fenomeno determinerà un esilio della ragione dalla fede, ragione che si vedrà costretta ad assumersi l’onere dell’elaborazione di una piattaforma condivi- sa e autonoma sulla base della quale ricostruire la convivenza pacifica dei popoli europei dinanzi alla manifesta incapacità e al palese fallimento del cristianesimo, ormai tragicamente divi- 9 Cf gerhard heinZ, Divinam christianae religionis originem probare. Untersu- chung zur Entstehung des fundamental-theologischen Offenbarungstraktates der katholischen Schultheologie, M. Grünenwald, Mainz, 1984. Služba Božja 57 (2017), br. 4, str. 489 - 521 so. Tra l’altro l’esigenza di andare oltre la prospettiva cristiana spingerà verso un affrancamento dal cristianesimo non solo del fondamento delle istituzioni, ma anche della stessa esperienza religiosa che ora comincia ad essere messa sotto la tutela della ragione. Si tratta della “religione della ragione” che nel Seicento si configura come deismo e nell’illuminismo troverà svolgimento singolare nella prospettiva kantiana. Tutto questo determina compiti nuovi per la teologia, impe- gnata a rendere conto della speranza cristiana, e soprattutto spinge verso un’elaborazione sempre più polemica rispetto ai due nuovi fronti in cui racchiudere i “destinatari” dell’impresa 493 apologetica: da un lato i delatori esterni al cristianesimo, ovvero tutti coloro che da un punto di vista filosofico (libertini, scettici, non credenti, deisti, illuministi) rifiutano e combattono la fede cristiana; dall’altro tutte le forme di contrapposizione al cattoli- cesimo dal di dentro del cristianesimo, fattore che ispirò il tratto controversistico della teologia. Proprio perché il contesto era fatto di attacchi e scontri, il confronto a poco a poco caricò l’apologe- tica cattolica di una duplice inimicizia: anzitutto (e soprattutto) verso la modernità e – successivamente – verso il protestantesi- mo. Questo clima di scontro polemico segnerà la riflessione apo- logetica sia nei toni che nei contenuti, perché la preoccupazione della difesa o il sentirsi aggrediti la costringeva entro ambiti piut- tosto ristretti e condizionati e allo stesso tempo rendeva difficile, se non impossibile, un dialogo e una reciproca composizione tra illuminismo e pensiero cristiano10. 2. il prender cOrpO della critica della rivelaZiOne 2.1. Prodromi: Spinoza Proprio il fronte dell’incredulità, nelle sue varie forme e sfac- cettature, veniva a costituire un elemento decisamente nuovo nella modernità. Dapprima in Italia con alcune figure del Rina- scimento, poi soprattutto in Francia, e quindi dunque in Euro- pa, si delinea il volto dell’altro che sarà il principale bersaglio dell’apologetica cattolica tra Cinquecento e Seicento: il libertino e, soprattutto, gli spinozisti, i deisti e infine gli illuministi. 10 Cf Alberto prandi, Cristianesimo offeso e difeso. Deismo e apologetica cristiana nel secondo Settecento, Il Mulino, Bologna, 1975, 25-26. Antonio Sabetta, Il ruolo della critica deista nella determinazione del trattato ... Un ruolo significativo in questo fronte dell’incredulità lo svol- se Spinoza (1632-1677), di cui soprattutto il Tractatus theologi- cus-politicus (pubblicato anonimo nel 1670, lo stesso anno in cui venivano editati i Pensieri di Pascal) sconvolgerà l’equilibrio apologetico determinando una nuova sensibilità. Nel Tractatus Spinoza intende proporre la sua “religione” con il metodo della filosofia, definita dal cosiddetto “credo minimo” del cap. XIV11, i cui dogmi sono: l’esistenza di Dio; l’unicità di Dio; la sua onnipre- senza (tutto gli è noto); Dio detiene il diritto e agisce con libertà; la giustizia e la carità come vero culto di Dio; la salvezza riservata solo a coloro che obbediscono a Dio; Dio che condona i peccati a 494 chi si pente12. Mentre la filosofia si ripromette di cercare e cono- scere la verità, la fede segue la via dell’obbedienza e della pietà: per questo non vi può essere tra loro né accordo, né affinità. Sono soprattutto due i punti nevralgici introdotti da Spinoza che richiederanno una risposta adeguata. Il primo è la negazione di una rivelazione positiva di Dio: la rivelazione nella storia non esiste, esiste solo la conoscenza razionale di Dio. Il secondo è la considerazione della Scrittura come un libro meramente umano, al punto da negare la paternità mosaica del pentateuco o la pos- sibilità dei miracoli. Con la critica dei miracoli, svolta nel cap. VI del Trattato, Spinoza toglieva ogni residua illusione circa l’origi- ne divina della religione rivelata di cui il miracolo rappresentava la credibile e certa attestazione; i miracoli, dichiarati metafisi- camente impossibili, erano anche considerati inutili per cono- scere la verità religiosa. La stessa Scrittura perdeva così valore di conoscenza della verità. L’esito è alquanto problematico e lo riassume bene M. Sina: “La scissione tra fede e ragione diventa- va radicale: come non era la ragione che poteva condurre all’ade- sione alla religione rivelata, così dalla rivelazione la ragione non avrebbe potuto ricevere alcuna luce utile alla conoscenza. Uni- co fondamento dell’adesione dell’uomo ad una religione rivelata poteva essere solo un’opzione di fede”13. 11 Cf Baruch spinOZa, Trattato teologico-politico, ed. it. a cura di a. dini, Rusconi, Milano, 1999, 473-491. 12 Cf ibid., 483-485. 13 mario sina, I dibattiti sulla religione rivelata agli albori del secolo dei Lumi, in “Rivi- sta di Filosofia Neo-Scolastica” 96 (2004), 68. Služba Božja 57 (2017), br. 4, str. 489 - 521 2.2. La critica deista della rivelazione 2.2.1. Herbert di Cherbury L’ulteriore allargamento del fronte degli increduli si ha con la diffusione anche nel continente del deismo, erede del rina- scimento italiano e del libertinismo, che avvia una critica della rivelazione la quale poi segnerà profondamente l’illuminismo da Lessing a Fichte14. Ad occupare una posizione significativa nella critica della rivelazione di stampo deista fu Herbert di Cherbury (1582/3- 1648). Pur non ostile per principio alla religione e alla rivelazio- 495 ne, il barone di Cherbury intende restaurare la “vera” religione la quale è essenzialmente la conoscenza e il culto razionale di Dio a partire dall’assenso morale. La ragione diventa in Herbert il luogo del controllo della rivelazione sia sul piano procedurale (nello stabilire quando una cosa può essere considerata sopran- naturale dal punto di vista del processo di comunicazione), sia sul piano essenziale (i contenuti della rivelazione)15. Nella sua opera De veritate prout distinguitur a revelatione, a verisimili, a possibili et a falso (1623), Herbert afferma che esisto- no nell’uomo delle “nozioni comuni” (notitiae communes) che Dio ha messo in lui a mo’ di verità innate che precedono l’esperien- za. Tra queste, cinque riguardano la religione naturale e sono: 1) esiste una divinità suprema sotto diverse forme che possiamo chiamare Dio e Provvidenza; 2) questo Dio deve essere adorato; 3) la virtù unita alla pietà costituisce la parte più importante del- la religione; 4) tutti i vizi e i crimini sono odiosi e vanno espiati con la penitenza; 5) dopo la vita presente saremo ricompensati o puniti per quello che abbiamo fatto su questa terra16. Herbert non nega la rivelazione e la definisce come la “comu- nicazione non mediata da parte di Dio a qualcuno con cui si 14 Cf stefano cavallOttO, La vicenda dell’illuminismo, in rino Fisichella (a cura di), Storia della teologia. 3. Da Vitus Pichler a Henri de Lubac, Ed. Dehoniane, Roma-Bologna, 1996, 16-31. Più ampiamente cf jacqueline lagrée, La raison ardente. Religion naturelle et raison au XVIIe siècle. Traduction en Appendice du Meletius de Hugo Grotius, Vrin, Paris, 1991. 15 Cf M. seckler - m. kessler, La critica della rivelazione, 36-37. 16 Per l’edizione del De veritate cf De veritate prout distinguitur a revelatione, a veri- simili, a possibili et a falso cui operi additi sunt duo alii tractatus: De causis erro- rum, De religione laici, auctore Edoardo Barone Herbert de Cherbury in Anglia, Londini 1645; le notitiae communae sulla religione sono alle pp. 208-222. Que- ste cinque verità/principi saranno ripetuti nell’opera del 1645 Religio laici. Antonio Sabetta, Il ruolo della critica deista nella determinazione del trattato ... manifesta e si mostra una verità o un certo bene importante che avviene in modo soprannaturale ed il cui contenuto supera la ragione”17; tuttavia egli ritiene che sia compito della ragione (religiosa) giudicare cosa possa essere considerato rivelazione; in questo modo i cinque principi religiosi fondamentali sopra elen- cati diventano il criterio di controllo di ogni religione e di ogni affermazione che si pretende rivelata, nonché il fondamento e ciò che limita o impedisce dal punto di vista dei contenuti ogni ulteriore rivelazione18. Quando però si fa riferimento alla critica deista alla rivelazio- ne sono soprattutto tre gli autori più considerati: John Toland, 496 Anthony Collins e Matthew Tindal. Non potendo occuparmi ana- liticamente di tutti, preciserò alcuni aspetti di Toland e Tindal che diventeranno di riferimento nell’apologetica19 2.2.2. John Toland Il primo ad intervenire sulla rivelazione, facendo propria nel- la conoscenza religiosa la dottrina delle idee di Locke, fu il filo- sofo irlandese, solitario e stravagante, John Toland (1670-1722) che nel 1696 pubblica il testo Christianity not mysterious20 il cui scopo è mostrare come non ci sia nulla nel Vangelo che sia con- tro o al di sopra della ragione e che possa essere propriamente chiamato mistero. Non c’è nulla di più contrario al cristianesi- mo che il mistero, mentre invece la rivelazione viene compresa e rischiarata con la ragione, e dunque il ritrovamento del vero cristianesimo passa per il ricorso all’unico strumento adeguato di correzione e purificazione che è la ragione; essa deve garanti- 17 Cf l’elenchus verborum premesso al De Veritate. 18 Cf De veritate, 226-231. 19 È interessante che a questi due autori – oltre che a John Locke che ne è all’ori- gine – si riferisce C. Taylor nel descrivere le quattro svolte portate nella cultura moderna dal deismo, in particolare a Tindal per l’eclissi del senso di uno scopo ulteriore nella vita oltre il conseguimento del nostro bene, e a Toland per la dis- soluzione del senso del mistero. Cf c. taylOr, L’età secolare, ed. it. a cura di P. Costa, Feltrinelli, Milano 2009, 285-302. 20 Cf John tOland, Christianity not Mysterious: or, a Treatise Shewing, That there is nothing in the Gospel Contrary to Reason, Nor Above it: And that no Christian Doctrine can be properly call’d a Mystery; citiamo dall’edizione del 1702 (Lon- don). Su Toland cf m. sina, L’avvento della ragione, 439-507 (soprattutto 439- 451, dedicate a Christianity not Mysterious). Non è peregrino ricordare che solo il “primo” Toland può essere considerato un deista, mentre successivamente la sua posizione tenderà sempre più a scivolare verso il panteismo (cf G. mOri, L’a- teismo dei moderni, 147-161). Služba Božja 57 (2017), br. 4, str. 489 - 521 re quel convincimento personale esibendo motivi di persuasio- ne (ground of persuasion). Mentre una religione ridotta a mistero bandisce la ragione, solo la riconduzione della rivelazione nell’o- rizzonte della ragione la tutela nella sua realtà e plausibilità. Come leggiamo nella Prefazione, “dal momento che la religio- ne è concepita per creature ragionevoli, è la convinzione e non l’autorità che dovrebbe avere effetto su di loro”21, perciò non c’è articolo della religione che possa essere accettato senza la più completa evidenza22; e poiché la ragione è il solo fondamento di ogni certezza, nessun oggetto della rivelazione è escluso dall’in- dagine della ragione23. Nella sez. III,I Toland ricorda che ogni fede 497 o persuasione deve necessariamente consistere di due parti: la conoscenza e l’assenso. Se è l’assenso a costituire l’atto forma- le della fede, tuttavia non si può assentire senza l’evidenza della conoscenza e in questo egli eredita il criterio epistemologico car- tesiano estendendolo anche all’ambito teologico; detto altrimenti, se è vero che la fede proviene dall’ascolto (cf Rm 10,17), tuttavia senza la comprensione (ovvero l’avere ragioni solide24) tale ascol- to non avrebbe alcun significato25. Per Toland vi sono quanti dinanzi a ciò che non si compren- de della religione cristiana ci dicono che dobbiamo riconoscere il mistero e adorarlo, piuttosto che pretendere di capirlo, perché la ragione non è adatta (fit) quando impiegata nelle cose rivelate della religione; e vi sono poi quanti concedono che si usi la ragio- ne come strumento ma non come regola della fede. Così i primi affermano che alcuni misteri possono essere o almeno sembrare contrari alla ragione, e tuttavia sono accettati per fede, mentre i secondi ritengono che nessun mistero è contrario alla ragione ma semplicemente è al di sopra di lei; entrambi concordano nel pensare che molte dottrine del Nuovo Testamento non apparten- gono alle indagini della ragione e la ragione ha qualcosa da dire solo per provare che esse sono divinamente rivelate e che resta- no ancora propriamente misteri26. In realtà per Toland, poiché la ragione è il fondamento di ogni certezza, nessun oggetto apparte- 21 Ibid., Prefazione. 22 Cf ibidem. 23 Cf ibidem, The State of the question, 6. 24 Cf ibidem, III, cap. 4,57. 25 Cf ibidem, III, cap. 4,53. 26 Cf ibid., The State of the question, 1-6. Si riprende la già analizzata distinzione di Locke (e della teologia latitudinaria) tra verità according, contrary e above reason. Antonio Sabetta, Il ruolo della critica deista nella determinazione del trattato ... nente alla rivelazione – sia quanto alla sua esistenza che quan- to alla sua realtà – può essere escluso dall’indagine razionale. Ora, secondo Toland, quando si tratta di ragione bisogna distinguere tra mezzi di informazione/conoscenza (means of information) e motivi di persuasione (ground of persuasion)27. I mezzi di informazione (ovvero l’esperienza e l’autorità, tanto uma- na quanto divina) sono quelli che ci permettono che una cosa giunga alla conoscenza in modo naturale, senza necessariamen- te richiedere il nostro assenso; viceversa i motivi di persuasione sono quelle regole mediante le quali giudichiamo di ogni verità e che convincono la mente in modo irresistibile (il criterio dell’e- 498 videnza). Poiché la rivelazione è strumento di informazione e non moti- vo di assenso necessario, non bisogna confondere il modo in cui giungiamo alla conoscenza di una cosa con i motivi che abbiamo per credere ad essa. Un uomo può informarmi su tanti oggetti o fatti che non ho mai sentito prima, ma se gli credo non posso farlo confidando unicamente sulla sua parola senza l’evidenza delle cose stesse: il motivo della mia persuasione non è la mera autorità con cui lui parla ma il concetto chiaro che mi formo a partire da ciò che dice. Ora non può essere diversamente quando a parlare è l’onnipotenza divina. Dio si è compiaciuto di rivelarci nella Scrittura numerose straordinarie cose (matters of fact) – la creazione del mondo, il giudizio finale ecc. – che nessun uomo abbandonato a se stesso potrebbe nemmeno immaginare, non di più di quanto una creatura può essere sicura dei pensieri del suo creatore; ma noi non riceviamo queste cose soltanto perché sono rivelate; infatti, accanto alla testimonianza infallibile della rivelazione dobbiamo vedere in ogni cosa il carattere della sapien- za divina e l’aspetto razionale (sound reason), che sono le uni- che caratteristiche di cui tener conto per distinguere gli oracoli e la volontà di Dio dalle imposture e dalle tradizioni degli uomini. Chiunque rivela, qualunque cosa sia rivelata, cioè chiun- que ci dice cose che noi non conoscevamo prima, le sue parole devono essere intellegibili e i fatti rivelati possibili. Questa regola rimane tale e valida sia quando è l’uomo che quando è Dio colui che rivela. Come con la ragione giungiamo alla certezza dell’esi- stenza di Dio, così facciamo discernimento nella sua rivelazione partendo dalla conformità di quest’ultima con la nostra cono- 27 Cf ibid., sec. I, cap. 3,10-18.
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