Antonio Fogazzaro Il santo www.liberliber.it 1 Questo e-book è stato realizzato anche grazie al sostegno di: E-text Editoria, Web design, Multimedia http://www.e-text.it/ QUESTO E-BOOK: TITOLO: Il santo AUTORE: Fogazzaro, Antonio TRADUTTORE: CURATORE: NOTE: la punteggiatura (unicamente per quanto riguarda gli spazi) e gli accenti (con l'inserimento di quelli acuti ove necessario) sono stati normalizzati secondo le convenzioni moderne. DIRITTI D'AUTORE: no LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet: http://www.liberliber.it/biblioteca/licenze/ TRATTO DA: "Il santo", di Antonio Fogazzaro; collezione: Biblioteca moderna Mondadori; Editore A. Mondatori, Milano, 1953 CODICE ISBN: informazione non disponibile 1a EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 26 marzo 2002 2a EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 15 aprile 2005 INDICE DI AFFIDABILITA': 2 0: affidabilità bassa 1: affidabilità media 2: affidabilità buona 3: affidabilità ottima ALLA EDIZIONE ELETTRONICA HANNO CONTRIBUITO: Gli studenti del "Laboratorio di Analisi, Trattamento e Produzione di Testi" del D.A.M.S. dell'Università Cattolica del Sacro Cuore di Brescia, a.a. 1999-2000: Cristiano Anelli, Manuela Bambini, Francesca Bandera, Matteo Bolli,Alessandra Botta, Luisa Capitanio, Gianenrico Colombo, Emilio Corbari, Emiliano Corsi, Elisa Dossena, Marina Giazzi, Claudia La Delfa, LudovicaLamberti, Giuseppe Manzi, Viviana Marino, Andrea Monili, Sara Pirovano, Marzia Portesani, Laura Romele, Elena Romiti,Elena Rossi, Delia Rotelli, Gabriella Salghetti, Emanuele Sana, Elena Scalvinoni, Stefania Serina, Sara Sirtori, Emma Soncini, Enrico Tagliani, Francesca Venturini, Paolo Viel. Coordinamento: Mariacristina Ardizzone, [email protected] REVISIONE: Claudio Paganelli, [email protected] PUBBLICATO DA: Davide de Caro Informazioni sul "progetto Manuzio" Il "progetto Manuzio" è una iniziativa dell'associazione culturale Liber Liber. Aperto a chiunque voglia collaborare, si pone come scopo la pubblicazione e la diffusione gratuita di opere letterarie in formato elettronico. Ulteriori informazioni sono disponibili sul sito Internet: http://www.liberliber.it/ Aiuta anche tu il "progetto Manuzio" 2 Se questo "libro elettronico" è stato di tuo gradimento, o se condividi le finalità del "progetto Manuzio", invia una donazione a Liber Liber. Il tuo sostegno ci aiuterà a far crescere ulteriormente la nostra biblioteca. Qui le istruzioni: http://www.liberliber.it/sostieni/ 3 ANTONIO FOGAZZARO IL SANTO ROMANZO 4 INDICE CAPITOLO PRIMO. – Lac d’amour » SECONDO. – Don Clemente » TERZO. – Notte di tempeste » QUARTO. – A fronte » QUINTO. – Il Santo » SESTO. – Tre lettere » SETTIMO. – Nel turbine del mondo » OTTAVO. – Jeanne » NONO. – Nel turbine di Dio 5 CAPITOLO PRIMO. Lac d’amour. Jeanne si posò aperto sulle ginocchia il volumetto sottile che stava leggendo presso la finestra. Contemplò pensosa dentro la ovale acqua plumbea dormente a’ suoi piedi il passar delle nubi primaverili che ad ora ad ora trascoloravano la villetta, il giardino deserto, gli alberi dell’altra sponda, le campagne lontane, a sinistra il ponte, a destra le quiete vie che si perdevano dietro il Bèguinage, e i tetti acuti della grande mistica morta, Bruges. Ah se quella Intruse di cui stava leggendo, se quella funerea visitatrice movesse ora, invisibile, per la città sepolcrale, se le rughe brevi dell’acqua plumbea fossero l’orma sua, s’ella toccasse già la riva, la soglia della villetta, con il suo sospirato dono di sonno eterno! Suonarono le cinque; su su, presso le bianche nubi, magiche voci d’innumerevoli campane cantarono sopra le case, le piazze, le vie di Bruges il malinconico incantesimo che ne eterna il sopore. Jeanne si sentì su gli occhi due mani fresche, un’aura profumata sul viso, e sui capelli un alito, un sussurro «encore une intruse!» un bacio. Non parve sorpresa. Alzò la mano ad accarezzare il viso chino sopra di lei e disse solamente: «Addio, Noemi. Magari fossi tu l’Intruse!» La signorina Noemi non intese. «Magari?» diss’ella. «È italiano, questo? Non è arabo? Spiegati subito.» Jeanne si alzò. «Non capiresti lo stesso» diss’ella con un sorriso triste. «Dobbiamo fare il nostro esercizio di conversazione italiana, adesso?» «Ma, prego!» «Dove sei andata con mio fratello?» «All’Ospitale di S. Giovanni a salutare Memling.» «Bene, parla di Memling. — No, prima dimmi se Carlino ti ha fatto dichiarazioni.» La signorina rise. «Sì, mi ha dichiarato la guerra e io gli.» «E io a lui, si dice. — Vorrei che s’innamorasse di te» soggiunse Jeanne, seria. La signorina aggrottò le ciglia. «Io non vorrei» diss’ella. «Perché? Non è simpatico? Non ha spirito? Non è colto? Non è distinto? Ed è anche ricco, poi, sai. Disprezziamo pure la ricchezza, ma è una cosa comoda.» Noemi d’Arxel posò le mani sulle spalle dell’amica e la guardò nelle pupille. Gli azzurri occhi erano gravi e tristi. I bruni occhi indagati sostenevano quello sguardo con fermezza lampeggiante a vicenda di sfida, di cruccio e di riso. «Intanto» disse la signorina «il signor Carlino mi piace per vedere Memling, per suonare a quattro mani musica classica e anche per farmi leggere Kempis, benché questo suo nuovo amore di Kempis pare una profanazione pensando che crede niente. Je suis catholique autant qu’on peut l’être lorsqu’on ne l’est pas, eppure quando sento un miscredente come tuo fratello leggere Kempis così bene, perdo quasi anche la mia fede cristiana! Gli voglio poi bene perché è tuo fratello, ma è tutto! Oh, questa signora Jeanne Dessalle dice qualche volta cose… cose…! Non so, non so, non so. Ma warte nur, du Räthsel, mi diceva la mia istitutrice. Aspetta, enigma!» «Cosa devo aspettare?» Noemi cinse di un braccio il collo dell’amica: «Io ti sonderò l’anima con una sonda che porterà su perle tanto grandi, tanto belle e anche forse qualche alga, qualche poco di fango del fondo e forse una piccolissima piœuvre.» «Non mi conosci» replicò Jeanne. «Sei la sola persona, fra i miei amici, che non mi conosce.» «Già, solamente quelli che ti adorano ti conoscono, penso io, eh? Oh sì, questa è una mania che hai, di credere che tutta la gente ti adora.» 6 Jeanne fece la solita boccuccia di bambina infastidita. «Che sciocca!» diss’ella. E subito corresse la parola con un bacio e una smorfia, mezzo sorriso, mezzo lamento. «Le donne!» riprese. «Le donne, ti ho sempre detto, mi adorano! Vuoi dire che non mi adori, tu?» «Mais point du tout!» esclamò Noemi. Jeanne brillò negli occhi di malizia e di dolcezza: «In italiano si dice: sì, di tutto cuore!» I fratelli Dessalle avevano passato l’estate precedente a Maloja, Jeanne studiandosi di essere una compagna gradevole, nascondendo quanto poteva la sua insanabile piaga; Carlino cercando, nelle ore mistiche, a Sils Maria e nei dintorni, le traccie di Nietzsche, farfalleggiando nelle ore mondane di dama in dama, pranzando spesso a S. Moritz e persino a Pontresina, facendo musica con un addetto militare dell’ambasciata germanica di Roma e con Noemi d’Arxel, discorrendo di religione con la sorella e il cognato di lei. Le due sorelle d’Arxel, orfane, erano belghe di nascita, olandesi di origine e protestanti. La maggiore di esse, Maria, aveva sposato, dopo un idillio singolare e poetico, il vecchio pensatore italiano Giovanni Selva, che sarebbe popolare in Italia se gl’italiani avessero maggiore interesse per gli studi religiosi; poiché il Selva è forse il più legittimo rappresentante italiano del cattolicesimo progressista. Maria si era fatta cattolica prima del matrimonio. I Selva passavano l’inverno a Roma, il resto dell’anno a Subiaco. Noemi, serbatasi fedele alla religione de’ suoi padri, alternava Bruxelles con l’Italia. Ora la vecchia istitutrice, colla quale viveva, era morta a Bruxelles da un mese, alla fine di marzo. Né Giovanni Selva né sua moglie avevano potuto, per una indisposizione del primo, venire ad assistere Noemi in quei frangenti. Jeanne Dessalle, che si era legata particolarmente a Noemi, aveva persuaso il fratello a un viaggio nel Belgio, da lui non conosciuto, e quindi offerto ai Selva di recarsi a Bruxelles in loro vece. Così era avvenuto che Noemi si trovasse con i Dessalle a Bruges verso la fine di aprile. Vi abitavano una villetta in riva al breve specchio d’acqua che chiamano Lac d’amour. Carlino si era innamorato di Bruges e particolarmente del Lac d’amour come titolo di un romanzo che andava sognando di scrivere, senza tenerne ancora in mente molto più che la compiacenza profetica di aver mostrato al mondo uno squisito e originale magistero di arte. «En tout cas» replicò Noemi «di tutto cuore, no!» «Perché?» «Perché il mio cuore lo sto dedicando a un’altra persona.» «A chi?» «A un frate.» Jeanne trasalì, e Noemi, confidente dell’amica, del suo insanabile amore per l’uomo scomparso, probabilmente sepolto in qualche ignota solitudine claustrale, tremò di aver sbagliato il tôno dell’esordio di un discorso che aveva in mente. «A proposito, Memling!» diss’ella arrossendo forte. «Dobbiamo parlare di Memling!» Lo disse in francese e Jeanne le sussurrò: «Sai che devi parlare italiano.» Gli occhi suoi erano così tristi e amari che Noemi non parlò italiano, le disse, ancora in francese, tante cose tenere, implorò una parola buona, un bacio, ebbe l’una e l’altro. Non riuscì a rasserenare Jeanne che tuttavia, blandendo a due mani l’amica lungo l’arco dei capelli e guardando il proprio lavoro amoroso, le diceva piano che non temesse di averla ferita. Triste, sì, lo era. Che novità! Vero, gaia non era mai, Noemi lo ammise; oggi però le nuvole interne parevano più dense. Colpa della Intruse, forse. Jeanne fece «proprio!» con un viso e un accento che significavano come l’Intruse colpevole della sua malinconia non fosse quella immaginaria del libro ma la Falciatrice terribile in persona. «Ho avuto una lettera dall’Italia» diss’ella dopo aver debolmente resistito alle domande pressanti di Noemi. «È morto don Giuseppe Flores.» Flores? Chi era? Noemi non lo ricordava più e Jeanne la rimproverò con acerbità, come se una tale smemoratezza la rendesse indegna del suo ufficio di confidente. Don Giuseppe Flores era il 7 vecchio prete veneto che le aveva portato a villa Diedo l’ultimo messaggio di Piero Maironi. Ella lo aveva creduto consigliere all’amante della sua uscita dal mondo e non le era bastato di fargli un’accoglienza gelida, lo aveva trafitto di allusioni ironiche all’azione sua, proprio degna di un ministro della infinita Pietà. Il vecchio le aveva risposto con tanto lume, nelle parole gravi e soavi, di sapienza spirituale, il suo bel viso si era fatto, parlando, così augusto, ch’ella aveva finito con domandargli perdono e pregarlo di venire qualche volta da lei. C’era infatti ritornato due volte e mai ella non s’era trovata in casa. Allora lo aveva visitato lei nella sua villa solitaria e di quella visita, di quella conversazione col vecchio tanto alto d’intelletto, tanto umile di cuore, tanto caldo nell’anima, tanto verecondo e quasi timido nella parola, serbava ricordi non cancellabili. Egli era morto, le scrivevano, donandosi dolcemente alla Divina Volontà. Poco prima di morire, durante una notte intera, aveva sognato senza tregua le parole del servo fedele nella parabola dei talenti: «ecce superlucratus sum alia quinque» e l’ultima voce era stata: «non fiat voluntas mea sed tua.» Chi le aveva scritto non sapeva che, malgrado certi turbamenti del senso interno, malgrado certi assalti di desideri religiosi, Jeanne respingeva, tanto inesorabilmente quanto in passato, Iddio e l’immortalità umana come illusioni eterne, ch’ella andava di quando in quando a messa per non darsi l’aria spiacente di libera pensatrice e non per altro. Ella non raccontò a Noemi quei particolari della morte di don Giuseppe, ma li ripensava con l’oscuro senso, mortalmente amaro, di una ben altra sorte che le sarebbe toccata s’ella pure avesse potuto credere così; perché in fondo all’anima di Piero Maironi vi era sempre stata una religiosità atavica e oggi ella era convinta che confessandogli, la sera dell’eclissi, di non credere, aveva scritto la propria sventura nel libro del destino. E pensava un’altra taciuta parte angosciosa della lettera venuta dall’Italia. Si vedeva il suo soffrire benché non lo dicesse. Noemi le posò, le fermò silenziosamente le labbra in fronte, vi sentì l’occulto dolore che accettava la sua pietà, si sciolse infine dal bacio lenta lenta, quasi temendo guastar qualche delicato filo tra le congiunte anime, mormorò: «Forse questo vecchio buono sapeva dove…. Credi che fosse in relazione…?» Jeanne accennò di no. Nel settembre successivo al luglio doloroso il suo disgraziato marito era morto a Venezia, di delirium tremens. Ella era andata a villa Flores nell’ottobre e là nello stesso giardino dove anche la marchesa Scremin era venuta aprendo a Don Giuseppe il suo povero vecchio cuore tribolato, gli aveva espresso il desiderio che Piero sapesse di questa morte, sapesse di poter pensare a lei, se ciò gli avvenisse mai, senza ombra di colpa. Don Giuseppe l’aveva prima dolcemente sconsigliata dal perdersi dietro a quel sogno, e poi le aveva detto, con sincerità intera, che nessuna notizia gli era pervenuta mai di Piero dal giorno della sua scomparsa. Temendo altre domande, schiva di sentirsi toccar la ferita da mani inesperte, Jeanne desiderò uscire dall’argomento. «Raccontami pure del tuo frate» diss’ella. Ma proprio allora si udì nell’anticamera la voce di Carlino. «Adesso no» rispose Noemi. «Stasera.» Carlino entrò, fasciato il collo di seta bianca, brontolando contro il Lac d’amour che infine era una grandissima corbellatura, e infettava poi anche l’aria di piccole creature odiose, velenose per le sue tonsille. «Già» diss’egli. «L’amore stesso non vale meglio.» Noemi gli volle proibire di parlar dell’amore. Lui, parlarne, che non lo intendeva! Carlino la ringraziò. Stava appunto per innamorarsi di lei, ne aveva avuto una paura enorme. Queste parole venute presto presto dopo l’apparizione di certa disordinata piuma sopra un cappello detestabile e dopo certa frase molto borghesemente ammirativa su quel povero diavolo noioso di Mendelssohn, lo avevano salvato à jamais. I due si scambiarono altre impertinenze e Carlino fu tanto brioso malgrado le tonsille infette, che la signorina d’Arxel lo felicitò per il suo romanzo. «Si capisce che va bene» diss’ella. 8 «Che! Punto!» rispose il romanziere. Non andava punto bene, anzi aveva dato nelle secche di una situazione disperata. Lo sapeva l’esofago dell’autore che ci aveva lì due personaggi incapaci di scendere e di risalire, uno grasso e buono, l’altro sottile e pungente, similissimo alla signorina d’Arxel. Gli pareva di aver inghiottito insieme un fico e un’ape, come certo disgraziato contadino toscano che n’era morto in quei giorni. L’ape capì che aveva voglia di parlarne, lo punse e lo ripunse tanto che infatti ne parlò. Il suo romanzo poggiava sopra un caso curioso di contagio spirituale. Il protagonista era un prete francese di ottant’anni, pio, puro e dotto. Francese? Perché francese? Ma! Perché il personaggio abbisognava di certo colore di fantasia poetica, di certa mobilità sentimentale e queste belle cose non si trovano in un prete italiano, secondo Carlino, a sgusciarne mille. Accadeva un giorno a questo prete di confessare un uomo di grande ingegno, combattuto da terribili dubbi circa la fede. A confessione finita il penitente se n’andava tranquillo e il confessore rimaneva scosso nelle credenze proprie. Qui doveva seguire un’analisi minuta e lunga dei successivi stati di coscienza di questo vecchio, che aspettava la morte di giorno in giorno con lo sgomento di uno scolare il quale attenda nell’anticamera della scuola il suo turno di esame e non si trovi più in testa niente. Egli capita a Bruges. Qui l’ostile interruttrice esclamò: «A Bruges? Perché?» «Perché io sono il suo Papa» rispose Carlino «e lo mando dove voglio. Perché a Bruges c’è un silenzio di anticamera dell’Eternità e quel carillon, che in fondo comincia a seccarmi, può anche passare per un richiamo di angeli. Finalmente perché a Bruges c’è una signorina brunetta, sottile, alta e che si può anche dire intelligente benché parli l’italiano male e non capisca la musica.» Noemi porse le labbra e arricciò il naso. «Che sciocchezza!» diss’ella. Carlino proseguì dicendo che non sapeva ancora come, ma che insomma, in qualche modo, la brunetta sarebbe diventata penitente del vecchio prete. Noemi protestò ridendo: come mai? allora non era lei! Un’eretica? Confessarsi? Carlino si strinse nelle spalle. Dramma di follia più, dramma di follia meno, protestantesimo e cattolicismo erano la stessa cosa. Dunque il vecchio prete ritroverebbe la sua fede antica nel contatto di quella semplice e sicura di lei. Qui Carlino aperse una parentesi nel suo racconto per confessare che veramente non sapeva che qualità di fede avesse Noemi. Ella arrossì, rispose che aveva la fede protestante. Protestante, sì; ma semplice? Ma sicura? Noemi s’impazientì. «Insomma sono protestante» diss’ella «e Lei non si occupi della mia fede!» In fatto Noemi era molto ferma nella propria religione non per virtù di ragionamenti ma per affetto riverente alla memoria dei genitori; e in cuor suo non aveva approvato la conversione della sorella. Carlino tirò avanti. Una influenza mistica del sesso conduce il vecchio a ricercare un’armonia di anime con la fanciulla. «Che pasticcio!» fece Noemi con il solito atto delle labbra. E Carlino tirò imperterrito avanti. Il fine, il nuovo, lo squisito del suo libro era l’analisi appunto di questa recondita influenza del sesso sul vecchio prete e anche sulla fanciulla. «Carlino!» fece Jeanne. «Cosa ti viene in mente? Un vecchio di ottant’anni?» Carlino guardò in aria come per dire a qualche invisibile amico superiore: «Non capiscono niente!» Il suo desiderio era d’invecchiare ancora il prete e dargliene novanta degli anni, farne una specie di essere intermedio fra l’uomo e lo spirito, che avesse negli occhi le profondità nebulose delle cose eterne imminenti. E la signorina avrebbe nel sangue quella misteriosa inclinazione ai vecchi, non rarissima nel suo sesso, ch’è il vero stigma della nobiltà femminile, per il quale la donna si distingue dalla femmina. Carlino si sentiva in mente delle cose divine a dire su questo mistico senso che attrae la fanciulla di ventiquattro anni verso l’uomo di novanta, sacerdote, quasi già eternato, diafano, non però curvo né tremolo né infiacchito nella voce. Si vedono di questi vecchioni che lo spirito alto erige, invitti dal tempo. Ma come finirebbe poi tutto ciò? Né Noemi né Jeanne sapevano immaginarlo. Eh già, Carlino lo aveva ben detto fino dal principio, il fico e l’ape che non potevano né scendere né risalire. Se ne consolava però. Questa necessità di finire, in fondo, 9 è un pregiudizio da droghiere. Cosa finisce mai al mondo? Va bene, dicevano le signore, ma il libro deve pure avere una fine. Oh certo! L’ultima scena, di bellezza ineffabile, sarebbe una passeggiata notturna, al chiaro di luna, del prete e della giovine per le vie di Bruges, dove le loro anime si aprirebbero a confidenze quasi di amanti, a sogni quasi di profeti. I due si troverebbero a mezzanotte davanti alle acque addormentate del Lac d’amour, ascolterebbero immobili il suono mistico del carillon sotto le nuvole e avrebbero allora la rivelazione vaga di una sessualità delle loro anime, di un avvenire di amore nella stella Fomalhaut. «Perché mai proprio in Fomalhaut?» esclamò Noemi. «Lei è insopportabile!» rispose Carlino. «Perché è un nome delizioso, ha il suono di una parola indurita dal gelo tedesco ma piena di anima, che si scioglie nel sole di Oriente.» «Dio mio, che chimica! A me piace Algol.» «Lei e il Suo pastore andranno in Algol.» Noemi rise, e Carlino si appellò a Jeanne. Quale stella preferiva? Jeanne non sapeva, non aveva fatto attenzione. Carlino ne fu irritatissimo, parve volerla rimproverare non tanto della sua distrazione quanto degli occulti pensieri che ne fossero in colpa, e, quasi temendo dir troppo, la mandò a meditare, a sognare, a scrivere la filosofia del fumo e delle nuvole. Ma poi quand’ella, niente malcontenta, se n’andava, la richiamò per domandarle se almeno avesse udito come il romanzo si sarebbe chiuso. Sì, questo lo aveva udito: con una passeggiata dell’eroina e dell’eroe per Bruges, al chiaro di luna. «Bene» fece Carlino «siccome stasera c’è luna, io ho bisogno di passeggiare dalle dieci a mezzanotte con Noemi e te per prender note.» «Debbo vestirmi da prete?» rispose Jeanne, uscendo. Noemi voleva seguirla ma la stessa Jeanne la pregò di rimanere. Rimase per dire a Carlino ch’egli era indegno di una simile sorella. Carlino andò a pescare nel portamusica un fascicolo di Bach brontolandole che lei non sapeva niente, non sapeva niente. Scaramucciarono alquanto e neppure Bach li poté pacificare subito; per un bel pezzo tennero duro, anche suonando, a insolentirsi, prima per Jeanne, poi per le note sbagliate. Finalmente il musicale rivo limpido che le loro collere rompevano come sassi spumeggianti, le soverchiò, corse via liscio, specchiando cielo e idilliache sponde. Jeanne si portò in camera l’Intruse, ma non la lesse più. Anche la sua camera guardava il Lac d’amour. Sedette presso la finestra contemplando di là da un ponte, di là da vette spoglie di alberi tondeggianti fra casa e casa, il fantasma piramidale di una torre altissima velata di nebbioline azzurrognole. Udiva discorrere pietosamente la vena limpida di Bach e pensava a don Giuseppe col malinconico senso di chi si allontana per sempre da una casa diletta, e vi torna con lo sguardo ogni momento, e ad una svolta del cammino ne vede sparire l’ultimo angolo, l’ultima finestra. La sua tristezza aveva una viva punta inquieta. Le avevano scritto che fra le carte del morto si era trovato un plico suggellato con questa soprascritta di suo pugno: «da consegnarsi per cura del mio esecutore testamentario nelle mani di Monsignor Vescovo». L’incarico era stato adempiuto e voci uscite dall’episcopio dicevano che fossero nel plico una lettera di don Giuseppe a Sua Eccellenza e una busta suggellata con la scritta di altra mano «Da aprirsi dopo la morte di Piero Maironi.» Riferivano pure questo motto del Vescovo: «Speriamo che il signor Piero Maironi, d’ignota dimora, ricomparisca per farci sapere che è morto.» Jeanne ignorava che Piero Maironi, prima della notte in cui era fuggito di casa senza lasciare traccia di sé, avesse consegnato a don Giuseppe il racconto scritto di una visione della propria vita nel futuro e della propria morte, visione pure ignorata da lei, avuta da Piero nella chiesetta vicina al manicomio dove sua moglie stava morendo. Che mai poteva contenere la busta suggellata? Certo uno scritto suo; ma quale? Una confessione, probabilmente, delle sue colpe. Il concetto e la forma dell’atto rispondevano bene al suo misticismo innato, al predominio della sua fantasia sulla ragione, alla sua fisionomia intellettuale. Tre anni erano corsi dal giorno in cui Jeanne, disperata, a Vena di Fonte Alta, si era detto che non avrebbe più voluto amare Piero e che niente altro mai avrebbe 10
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