UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI FIRENZE FACOLTÀ DI LETTERE E FILOSOFIA DOTTORATO INTERNAZIONALE IN CIVILTÀ DELL’UMANESIMO E DEL RINASCIMENTO XXI ciclo Andrea Severi L’ADOLESCENTIA DI BATTISTA SPAGNOLI MANTOVANO: EDIZIONE, STORIA DELLA TRADIZIONE E PRIMA RICEZIONE EUROPEA Coordinatore Prof. Roberto Cardini Tutores Prof. ssa Mariangela Regoliosi Prof. ssa Loredana Chines L-FIL-LET/13 Anni Accademici 2006-2008 Indice Introduzione 1. Prima dell’Adolescentia: la lunga gestazione di una raccolta bucolica Prologo p. 3 1.1 Il Suburbanum p. 5 1.2 Le due egloghe del periodo romano p. 22 1.2.1 I testimoni: descrizione dei codici p. 30 1.2.2 I testimoni: diffusione e relazioni p. 46 1.3 Il codice isidoriano 1.3.1 La lettera di dedica p. 56 1.3.2 Le postille all’egloga p. 59 1.4 Per una geografia dell’aegloga ad Falconem il Mantovano e l’umanesimo romano di fine secolo p. 62 1.5 Edizione dell’aegloga ad Falconem p. 67 1.5.1 Ortografia p. 71 1.5.2 Il testo p. 74 1.6 Edizione dell’aegloga ad Bernardum Bembum p. 79 1.6.1 Il testo p. 80 1.7 Tavola delle corrispondenze p. 83 2. «Con ogni diligenza corretto»? Alla ricerca dell’ultima volontà negli Omnia Opera bolognesi (1502) 2.1 La tradizione manoscritta dell’Adolescentia 2.1.1 Codici contenenti l’intera raccolta p. 87 2.1.2 Codici contenenti excerpta p. 92 2.2 La tradizione a stampa 2.2.1 Gli esemplari superstiti dell’editio princeps p. 94 2.2.2 Le edizioni successive p. 99 2.3 Le correzioni nell’edizione degli Opera Omnia bolognesi (1502) p. 104 2.4 Refusi tipografici ed errori di tradizione p. 114 2.5 La lingua dell’Adolescentia 2.5.1 Lessico p. 116 2.5.2 Morfologia p. 120 2.5.3 Sintassi p. 121 2.5.4 Particolarità metriche p. 122 2.5.5 Ortografia p. 123 Edizione dell’Adolescentia p. 130 3. Un nuovo classico cristiano nell’Europa di Erasmo 3.1 La creazione di un Christianus Maro p. 193 3.2 Il commento familiare di Josse Bade p. 220 Nota testuale p. 221 3.2.1 Bade grammatico p. 222 3.2.2 Bade e le fonti del testo p. 232 3.2.3 Bade interprete p. 240 3.2.4 Bade censore p. 252 Bibliografia p. 261 Tavola delle abbreviazioni p. 265 ii Introduzione Non si caratterizza un periodo esaminando in modo indiscriminato le opere che vi sono germinate, prescindendo dalla loro risonanza effettiva. Se si vuole comprendere un tempo, non si possono mettere sullo stesso piano i libri che tutti hanno letto ed amato, e quelli che quasi per miracolo sono sopravvissuti nell’universale silenzio. Diceva così Eugenio Garin, in apertura di un suo celebre libro,1 dando, da par suo, una piccola lezione di metodo. Il semplice censimento dei testimoni, manoscritti e a stampa, che tramandano un’opera letteraria, è un indice assai indicativo, benché non esauriente, del volume con cui quell’opera risuonò nelle stanze dei dotti, nei luoghi di cultura, nelle aule scolastiche e universitarie. È quindi singolare che lo stesso Garin, pur conoscendolo grazie ai suoi studi su Pico, non citi neanche una volta Battista Spagnoli Mantovano nel libro dove, forse, più che in ogni suo altro, qualche pagina a lui dedicata sarebbe stata doverosa: L’educazione in Europa (1400-1600): problemi e programmi. Ma fargliene una colpa sarebbe ingeneroso verso la sua grande eredità culturale e umana.2 Nato a Mantova nel 1447 (figlio di Pietro Spagnoli che, proveniente dalla penisola iberica,3 aveva fatto carriera diplomatica presso la corte dei Gonzaga), Battista fu iniziato agli studi umanistici nella sua città natale dal celebre umanista Gregorio Tifernate, come ricorderà spesso, e in seguito proseguì il cursus studiorum con uno dei suoi migliori allievi, Giorgio Merula. Nei primi anni Sessanta lo troviamo a Padova ad apprendere filosofia sotto il magistero di Paolo Bagelardi. Fu quasi improvvisa, sembra, la precoce decisione di entrare nell’odine carmelitano, comunicata al padre per lettera l’1 aprile 1464; dopo due anni di noviziato trascorsi a Ferrara il nostro, dismesso per sempre il suo nome secolare e acquisito quello di ‘Battista Mantovano’ (o Battista Carmelita), comincerà una fulgida carriera all’interno del suo ordine, al cui interno ricoprirà per ben sei volte il ruolo di vicario generale della Congregazione Mantovana e, al tramonto della sua vita, stanco e non più desideroso di ricevere incarichi politici, anche quello di priore generale di tutto l’ordine (1513). Oratore brillante, solido teologo, poeta tra i più prolifici del Quattrocento, con un animo intimamente riformatore, 1 GARIN, L’educazione in Europa, p. 15. 2 Il nome dello Spagnoli non compare peraltro nel recente e per certi aspetti pregevole BELLONI - DRUSI, Il Rinascimento italiano e l’Europa. 3 cfr. SPAGNOLI, In funere, c. A1v: «sub hoc Alfonso avus meus Antonius Cordubensis in Italiam iii Battista Mantovano è, si può dire, un grande intellettuale padano, in contatto, spesso in rapporto fraterno, con alcuni fra i migliori umanisti del suo tempo: basti fare i nomi di Filippo Beroaldo il Vecchio, Pomponio Leto, Giovanni e Giovanfrancesco Pico della Mirandola, Giovanni Pontano, Angelo Poliziano, Ermolao Barbaro. Già sul finire degli anni Ottanta del Quattrocento il suo prestigio come poeta e teologo era tale che Giovanni Sabadino degli Arienti lo faceva apparire come assoluto protagonista nella parte conclusiva delle sue Porretane, che terminano proprio con un discorso sull’anima affidato al maestro di «sacra teologia», equiparabile, «in cantar verso latino», «al divin Marone suo conterraneo». Praticò infatti, rinnovandoli cristianamente, molti generi della classicità (ad esempio il poema, l’epigramma, le silvae, i Fasti), ma non poco nocque alla sua reputazione, dopo il primo iniziale entusiasmo dei contemporanei, questa sua prolificità di scrittura ed esuberanza creativa. La sua vita, che si interruppe a Mantova un anno prima dello scoppio della Riforma protestante, il 20 marzo 1516, si svolse per gran parte tra Mantova e Bologna, con sporadiche sortite in città dove lo spingevano gli affari della sua Congregazione di riformati (a Roma, per esempio, negli anni Ottanta) o in quei conventi di cui era reggente o in cui lo invitavano a predicare (Brescia, Parma, Le Selve vicino a Firenze, Loreto). Sembra che non abbia mai valicato le Alpi, a conoscere quelle terre dove, ancora in vita, e molto lontano dal suo ultimo giorno, i suoi poemi religiosi conobbero una fortuna davvero eccezionale.4 È proprio dall’indice numerico relativo alle edizioni e ristampe europee delle sue dieci egloghe, raccolte nel 1498 sotto il nome di Adolescentia, che possiamo partire per rispondere alla impegnativa domanda: che cosa leggiamo quando leggiamo questo libretto? Leggiamo un classico del Rinascimento europeo, un best-seller della prima metà del Cinquecento, un vero e proprio tormentone scolastico che attanagliò alcune generazioni di studenti (non ultima, quella di Shakespeare). Leggiamo il libro del poeta italiano in lingua latina più stampato, per stare cauti, almeno nell’Europa di Erasmo. Può sembrare un’esagerazione retorica, ma è semplicemente quello che spetta, storicamente, a colui che oggi appare un Carneade come tanti; ma che cinquecento anni fa era considerato da molti come un miracoloso, redivivo Virgilio. «Quelli che a noi ora, per motivi estetici, possono sembrare mediocri, potevano ai loro tempi avere tutt’altra importanza, e guardare solo gli alberi grandi, ammirando la loro altezza, vuol dire venisse et meruisse se narrabat, cum ego adhuc puer senem admirarer». 4 Per gli ancora oggi ottimi contributi sulla vita e le opere dello Spagnoli rimando all’appendice in fondo al volume. iv trascurare quel che pare sottobosco e con ciò tutta l’ecologia della foresta della storia letteraria».5 Questo enorme successo risulterà ancora più prodigioso qualora si pensi alla limitata, spesso limitatissima circolazione della coeva produzione bucolica, rifiorita in maniera rapida ed esuberante nelle corti italiane della seconda metà del Quattrocento, ma sfiorita altrettanto rapidamente a causa del pesante allegorismo, dei pomposi intenti encomiastici, degli stringenti, spesso criptici, riferimenti storici. A tali contenuti contingenti, spesso espliciti, talvolta invece veicolati sotto il velamen di una allegoria di tipo virgiliano, si affianca molto spesso un intento cortigiano ed encomiastico che, se non è esplicitamente dichiarato, è comunque facilmente desumibile dal modo in cui l’umanista di turno presenta i personaggi potenti che sono argomento del suo canto. Non c’è da meravigliarsi che molta di questa raffinata ma algida produzione resti a tutt’oggi inedita, tramandata spesso da un solo testimone o, al massimo, da due o tre, tutti riconducibili ad una corte, a un signore, insomma, ad un ristretto entourage, in cui si iscrissero e fuori dal quale a stento sarebbero stati compresi. Pensiamo solo ai poeti maggiori (senza profonderci in quella «pastorelleria» minore e minima censita così minuziosamente dal Carrara e dal Grant6) e vediamo quanto poco abbiano circolato, a paragone del nostro, e quanta poca letteratura abbiano potuto influenzare, sempre fatte le debite proporzioni, le egloghe di un Naldo Naldi, quelle di un Cantalicio, quelle di uno Strozzi, o del suo nipote più celebre, Matteo Maria Boiardo. Anche stando alle sole edizioni italiane dell’Adolescentia, il paragone coi colleghi bucolici è ingeneroso; se poi da Bologna, Milano, Brescia, Venezia, Firenze lo sguardo valica le Alpi e si rivolge a Lipsia, Strasburgo, Lione, Parigi, Deventer, città in cui edizioni e ristampe delle opere del Mantovano si susseguono a ritmo incessante, spesso di mese in mese più che di anno in anno, allora il paragone, per reggere, andrà fatto coi grandi della nostra letteratura. Le Alpi sono infatti il vero discrimine per la fortuna di un poeta tanto più apprezzato in terra francese e tedesca, e poi inglese, quanto più ignorato o apertamente disprezzato in patria, con la pianura Padana a fare da camera di compensazione, data la presenza significativa di alcune edizioni, rispetto al vuoto pneumatico dell’Italia centrale e meridionale. La cosa che più colpisce, infatti, nei giudizi sullo Spagnoli, in senso tanto sincronico quanto diacronico, è la loro stridente divergenza. Se un giovane Erasmo era pronto, 5 GRAYSON, Il Rinascimento, p. 247. v sulla scorta di Johannem Tritheim, Robert Gaguin, Laurent Bureau e Jacob Wimphelings, a definirlo Christianus Maro già nel 1496, quando molti celebri insegnanti come Alexander Hegius, Josse Bade «Ascensius», Ravisius Textor lo stavano sostituendo a Virgilio nel ruolo di apripista scolastico della lingua latina (e non solo in quanto honest Mantuan, come lo definiranno gli inglesi, ma apprezzandone pure la florida vena poetica), in Italia, stretti fra le morse del nascente classicismo romano e quello veneziano, molti decisero di ignorarlo. Seguì questa strada tanta storiografia letteraria ufficiale tra la fine del Quattrocento e il primo Cinquecento: lo ignorò Vespasiano da Bisticci nelle sue Vite – anche se ha l’attenuante che, quando scriveva, la fama del Mantovano non aveva ancora raggiunto l’apice; lo ignorò Paolo Cortesi nel suo De hominibus doctis dialogus, così come, parecchi decenni più tardi, lo ignorerà Anton Francesco Doni nella sua Libraria. Qualche entusiastica voce di apprezzamento, a onor del vero, si levò, in controtendenza, fra il tramonto del Quattrocento e l’alba del Cinquecento: quella di qualche attardato o irregolare, che percorreva sentieri solitari invece della via maestra (dal punto di vista linguistico, ma anche di pensiero). Fu il Sabellico, che nel suo trattato De latinae linguae reparatione (c. 1489) addita lo Spagnoli come la nuova rivelazione della poesia cristiana: «Baptistae Mantuani, viri carmelitana religione, carmen nequeo satis admirari ob incredibiles virtutes. Scripsit ad hunc diem non pauca et de vita Virginis, de oratoris et poetae laudibus, de contemptu mortis; quod si ex iis quae ad nos delata sunt licet de hominis ingenio in universum iudicare, quem illi in hoc genere dicendi praeferas hodie habemus ferme neminem».7 Fu l’amico Giovanfrancesco Pico, che aveva in mente un cristianesimo diverso da quello che poi si affermò, e, con esso, una letteratura religiosa di cui già nel 1496 sapeva indicare chiaramente gli alfieri dei suoi tempi: «Quales apud veteres nostros fuere Prudentius, Sedulius, Damasus aliique nonnulli – afferma in un testo teorico di grande importanza per il filone dell’umanesimo cristiano8 – apud nostros Baptista carmelita, Mantuae spes altera, Lodovicus Pictorius ferrariensis, Ugolinus Verinus florentinus». Fu, infine, a Cinquecento avviato, il bizzarro umanista di Tredozio Faustino Perisauli,9 alla ricerca di patenti che legittimassero la manipolazione della lingua latina, per poter scorrazzare al 6 Per una breve bibliografia sulla letteratura pastorale umanistica si veda in fondo al volume. 7 SABELLICO, De latinae linguae, p. 161-62. 8 De studio divinae et humanae philosophiae, 1, 6-7, cfr. PICO G.F, Opera, I, 18. 9 Per l’umanista Faustino Perisauli da Tredozio è d’obbligo il richiamo al convegno tenutosi nel 1998, Faustino Perisauli, e al contributo di MASCANZONI, Un umanista di Tredozio. vi di fuori dagli angusti recinti tracciati dai ciceroniani, ad esaltare il nostro in compagnia di nomi illustri, nel proemio del suo De triumpho Stultitiae: «Asseruit Horatius, – ut omnes norunt – multa renascentur quae iam cecidere. Innumera Sidonius, Pontanus, Baptista Carmelita, nuperque Pollitianus [sic] innovarunt. Num ne eos poeticae ignaros facultatis asserere audebimus? Absit. Quid ergo miramini, aut sibilatis novum verbum in poësi?».10 Seguirono citazioni obbligate e ben poco lusinghiere in contesti di storiografia letteraria. Non lo potevano certo ignorare nelle loro ampie trattazioni di storiografia letteraria Lilio Gregorio Giraldi, Giulio Cesare Scaligero e Paolo Giovio, i quali, dovendolo citare per completezza di cronaca, lo stroncarono, chi più chi meno, malamente: «Laudo institutum piumque propositum – scrive il primo – verum extemporalis magis quam poeta maturus. Extant illius versus paene innumerabiles, ex quibus apud vulgus et barbaros quosdam laudem tantam est adeptus, ut unus prope poeta et alter paene Maro haberetur. At bone Deus, quam dispar ingenium! Nam ut ubique Maro perfectus, ita hic immodica et paene temeraria ubique usus est licentia, quam et magis atque magis in dies auxit […] Iuvenis ille quidem laudabilior poeta fuit; cum vero ei desedit calor ille et fervor iuvenilis, tanquam amnis sine obice extra ripas sordide diffluens coerceri non potuit. Vix enim ea legere possumus, quae longius ille aetate provectus carmina scripsit».11 «Mollis, languidus, fluxus, incompositus – dice invece di lui lo Scaligero – sine numeris, plebeius; non sine ingenio, sed sine arte. Dummodo scribat quod in mentem venerit, edat quod scripserat, susque deque habet».12 L’ultimo, il Giovio, scrive che il Mantovano dedicò la sua vita alla poesia, oltre che allo studio dell’ebraico, «sed incidit in ea tempora, quibus nullus mediocribus poetis locus erat»; allude tuttavia alle sue egloghe, che furono per lui motivo di lode sufficiente: «Caeterum Carmelitae satis ad laudem fuit, quod per quindecim secula neglectos a civibus Andinos fontes salubriter ebiberit».13 Ma il gap nel giudizio appare non meno evidente se dal lato sincronico passiamo a quello diacronico. Perché, se ancora facciamo riferimento a quell’aurea stagione primocinquecentesca, in cui molti umanisti francesi e tedeschi portarono in trionfo il poeta carmelitano, con lodi persino sperticate, non possiamo rimanere indifferenti di fronte ai severi giudizi pronunciati dai primi grandi storici moderni della letteratura 10 PERISAULI, De triumpho Stultitiae, p. 5. 11 GIRALDI, De poetis (I 30), p. 25. 12 SCALIGERO, Poetices (VI 4), p. 304. vii italiana: «Diversi sono i giudizi, che di questo Poeta han recato diversi scrittori – scrive il Tiraboschi14 – alcuni de’ quali non han dubitato di porlo a fianco a Virgilio; e io mi stupisco, che Erasmo, giudice per altro sì rigoroso, si lasciasse in tal modo sedurre da non so qual favorevole prevenzione riguardo a questo Poeta, che non temesse di dire, che sarebbe, credeva egli, venuto un giorno, in cui Batista si riputasse di poco inferiore all’antico suo Concittadino. A me sembra, che più giustamente di tutti ne abbia ragionato il Giraldi…». Un secolo più tardi il Carducci parlò dell’autore dell’Adolecentia come di un «osservatore triste, rozzo, sboccato; non osceno; ma delle donne e degli amori mette in mostra le dure verità con le crude parole […] non fior d’eleganza, efficacia volgare, verità prolissa: pare a certi passi prevenire la commedia rusticale, in altri anticipare il suo paesano Folengo».15 E, forse sulla sua scorta, qualche decennio dopo Vittorio Rossi definì il Mantovano un «rude ed efficace dipintore, nel suo torbido latino, di costumi e d’amori villerecci».16 Condivisibili o meno, non c’è dubbio che questi giudizi siano perlomeno il frutto di una lettura dell’opera del Mantovano, mentre è senz’altro da rigettare quella sintesi deteriore data recentemente dell’Adolescentia come opera dove «l’elemento bucolico si fonde […] con i temi e i motivi dell’umanesimo cristiano: la campagna diventa benigna, quasi paradisiaca, simbolizzando la pace della vita monastica, e il pastore offre al lettore un paradigma di comportamento cristiano».17 Destrutturare questa sintesi stereotipata ci permette di rispondere, da altra specola, alla domanda che ci siam posti sin dall’inizio: cosa leggiamo quando leggiamo l’Adolescentia? L’Adolescentia è, sì – e lo si evince già dal titolo – un’opera di formazione, un piccolo Bildungsroman, per dirla in termini moderni, dove si intravvede in filigrana, come da prassi ormai codificata del genere, la vicenda autobiografica dell’autore, sotto l’eteronimo pastorale di Candido; e l’itinerarium cristiano che si snoda dal rigetto della sensualità terrena all’accettazione della vita monacale, passate le strettorie di un bivio erculeo cristianamente declinato (Adol. VII), costituisce la ragion d’essere, abbastanza convenzionale, attorno alla quale si addensa il nucleo costitutivo delle prime otto egloghe. Ma da questa principale via maestra si dipartono vie secondarie, percorrendo le quali spesso si rischia di dimenticare donde si proviene; ovvero, sulla primaria istanza 13 GIOVIO, Elogia, pp. 74-75. 14 TIRABOSCHI, Storia, VI, t. 3, p. 959. 15 Opere, XIV, pp. 158-59. 16 ROSSI, Il Quattrocento, p. 756. 17 MANZOLI, Adulescentia. viii edificante, che è il Leit Motiv dell’operetta, entrano in gioco logiche digressive e diversive che innestano nelle composizioni una profonda polifonia, del tutto sconosciuta al genere bucolico classicamente inteso, generalmente monologico e monocorde tanto per lessico, quanto per timbro, impostazione e contenuto. Ha ragione Renata Fabbri quando scrive che nell’Adolescentia si assiste all’«intrusione di elementi estranei alla testura bucolica […] e di spunti e divagazioni di timbro anche fortemente satirico» che «compromettono, se non l’ambientazione, certo la struttura canonica, slabbrando la coesione del componimento poetico».18 Se la satira dell’avarizia dei signori (Adol. V) e quella, piuttosto convenzionale, dell’immoralità del clero romano (Adol. IX), sono annunciate sin dal titolo e costituiscono quindi l’argumentum stesso di componimenti nel complesso piuttosto omogenei, la satira dei cittadini e quella misogina, al contrario, si innestano quali elementi esogeni e “parassitari” nel corpus narrativo centrale, rispettivamente, della sesta e della quarta egloga, estromettendo ogni altra istanza della scrittuta poetica e segnando così un brusco cambio di registro nella regia compositiva. Altrove, invece, il passaggio da un genere ad un altro è molto più graduato: nella prima egloga, che il Grant ebbe a definire «probably the best-known Neo-Latin pastoral ever written in Europe»,19 dal convenzionalissimo lamento elegiaco di Fausto ammalato d’amore si arriva alla descrizione della rustica festa nuziale – chiusa in perfetto stile da canto di maritaggio o mariazzo padovano – attraverso lo stemperamento del dramma elegiaco nel genere comico-nenciale (la descrizione di Galla), la farsa rusticana e i sales et ioci di certe situazioni della commedia latina; il tutto inframmezzato e condito con i memorabili riassunti gnomici di Fortunato, che assolve con una certa fantasiosa maestria, da ottima spalla, il ruolo di interlocutore secondario. Verrebbe quasi da dire che il Mantovano fa dell’egloga un ‘macrotesto’, poiché egli allarga a tal punto i suoi confini così che essa possa includere al suo interno generi e funzioni letterarie non di propria pertinenza, squarciando quel velamen poetico che da Petrarca in avanti aveva appesantito e compromesso la leggibilità stessa di questi canti amebei.20 Da genere minore a macrogenere inclusivo, lo Spagnoli fa uscire la bucolica neolatina dal suo stato di minorità. Dopo le definitive considerazioni di Roberto Cardini e Donatella Coppini sulla 18 FABBRI, Le egloghe, p. 249. 19 GRANT, Neo-latin literature, p. 129. 20 Petrarca era ben consapevole delle critiche che, lui ancora in vita, venivano mosse al suo Bucolicum carmen: «Altior in Bucolicis, ut aiunt, stilus est meus quam pastorii carminis poscat humilitas» (Sen. II 1, 14). ix
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