. AMORE E CONOSCENZA All'ombra del padre Il rifiuto della storia quale programma di scrittura, che, come si è visto, denota lo specifico strutturale delle opere narrative della Maraini, prende, nella poesia, ima svolta interessante infrangendosi contro l’imperativo del ricordo. Il pensiero poetico, intriso com’è del momento di riflessione, elegge la memoria a luogo deputato dell’incontro tra l’io e il proprio destino. In termini della sensibilità femminile alla quale le opere della Maraini fanno riscontro, l’esperienza poetica mette a nudo, raffrontandola, la falsa coscienza della donna laddove l’inautenticità e la discriminazione hanno per secoli alimentato il sentimento di aliena zione. Per dirla con Biancamaria Frabotta (1976: 13), la poesia delle donne nasce dalla consapevolezza che non ci sono altre vie che possano facilitare una presa di coscienza all’infuori di guardare in faccia questa mancanza nel tentativo “di ripercorrere interi gli orrori della non-enti- tà”: Non si può evitare di conoscere e di amare le fattezze mostruose dell’oppressione che ci modella. Perché come nelle storie di catarsi 200 medievali, la conoscenza e l’amore uccidano il mostro per dar vita a nuove e mirabili forme. “Conoscenza e amore”1 sono, dunque, i sentimenti con cui la Maraini inizia, a ritroso, il lento “viaggio verso l’infanzia / denudata” (in ‘Porti- cello’, pp. 29-30) all’ombra del padre amato, viaggio che, a giudicare dal titolo prolettico di questa prima raccolta di poesie, Crudeltà all’aria aperta, testimonia, oltre alla volontà di adesione al processo conosciti vo, il doloroso travaglio imposto dall’attività di scavo nei meandri della memoria. E significativo, quindi, che al centro della raccolta si trovino i versi di ‘Mancanza di memoria’: La mia mancanza di memoria è rifiuto della storia. Perdo me stessa e non ricordo come né quando mi sono persa. Per meglio capire la portata dello sforzo mnemonico esercitato dall’io poetico, è da ricordare la convergenza di due tendenze opposte che appare nella letteratura della Maraini durante questo periodo: alla presente raccolta di poesie, pubblicata nel 1966, si contrappone, nel 1967, il romanzo A memoria, nel quale il dramma esistenziale della protagonista, Maria, dalla perdita di memoria, si risolve nel nichilismo che la spinge, infine, all’autodistruzione. E se è lecito riprendere l’im magine della Frabotta per estenderla, oltre la coscienza, anche alla forma stessa della poesia al femminile, le sessanta poesie raccolte dalla Maraini, all’interno della produzione italiana di una poetica di ‘conte- stazione’,2 danno vita a nuove proposte stilistiche che, a tutti gli effetti, meritano di essere guardate con attenzione. La caratteristica fondamentale delle poesie di questa raccolta è la scelta del ‘parlato’ come mezzo effettivo di superamento del divario tra la memoria recalcitrante e le esigenze di una polemica dedita alla rivalsa dell’ideologia femminista per cui presente e futuro costituiscono la promessa di un passaggio dallo stato virtuale all’attualizzazione dei propri principi. Innestando l’esperienza politica al ‘privato’, il discorso si fa racconto e confessione, atto comunicativo, quindi, spontaneo, in cui la presa di coscienza dell’individuo impegna l’interesse di tutto il collettivo. D’altra parte, lo ‘spontaneismo’ della Maraini investe anche l’oggetto del discorso poetico in quanto, a contatto con fatti o persone, invocati di tempo in tempo dal caso o dalla necessità, l’occhio dell’io parlante si posa amorevolmente su di loro nel tentativo di un pieno recupero della loro autonomia fisica: 201 Nella concretezza della lirica, nella sua testualità, l’altro è l’ogget to desiderato che corrisponde all’interiorità del desiderio. Toccarlo è toccarne l’intimo, raggiungerne l’essenza e portarla al contatto con la propria soggettività inquieta, intramata di contraddizioni e di non-sapere ma decisa a procedere giù nei centri bui del proprio essere. La meccanica dell’esperienza interiore, che è viag gio ai limiti dell’indicibile ma anche regolazione del desiderio (un prendere godimento del corpo altrui attraverso il proprio corpo) per conoscersi e conoscere, è quella insomma che governa l’espe rienza.3 La sensualità che scaturisce da tale rapporto con le cose e i personaggi contrassegna tutta la produzione lirica della Maraini che, stando alle affermazioni di De Santi (1985: 11), rappresenta uno dei pochi esem plari di poesia erotica in Italia. Figura ubiqua dell’infanzia e dell’adolescenza, il padre, per il quale l’io parlante rivela un amore incommensurabile, funge da elemento cata lizzante nella poetica della Maraini, significante primario del tessuto testuale, chiave indispensabile dell’entrata nella complessità dei rap porti emotivi con il mondo e con il proprio corpo. A distanza di anni dalla data di composizione delle poesie in Crudeltà all’aria aperta e a riprova di quanto detto sopra (si veda pure l’opera autobiografica, Bagheria del 1993), la Maraini, in occasione di un intervento scritto sul modo di fare cinema, spiega la natura della tensione emotiva con il padre, rivelando, pertanto, il nesso tra questo legame e la propria arte: Ho girato un film a soggetto, tutto fatto di sogni e di ripetizioni. Era come scrivere una poesia. Riandavo indietro nella mia infan zia, ripercorrevo le strade dolorose del rapporto con mio padre, troppo amato, troppo rifiutato; un padre che non riuscivo mai a uccidere del tutto dentro di me.4 Nel complesso, le prime poesie in questa raccolta assumono la forma di un lungo monologo liricizzante che l’io parlante rivolge al proprio padre, allocutario nel presente dell’enunciazione e potenza attanziale del discorso amoroso. Inoltre, la visione frammentata dei ricordi si articola secondo la natura inconsistente dei sogni in cui i quadri narrativi si spezzano e si duplicano, riaffacciandosi con insistenza là dove la tensione si fa più emotivamente incalzante. Alla labilità della memoria, l’io parlante contrappone, nel discorso, l’immagine concreta degli oggetti e delle persone rievocati. 202 Quanto sopra è evidente fin dai primi versi di ‘Bagheria’ (pp. 7-9), poesia di apertura nella quale riaffiorano i dati autobiografici, parame tri entro i quali si situano due momenti importanti nella vita della Maraini: l’anno 1946 in cui la famiglia, rientrando dal Giappone, si stabilisce nella “villa barocca” della nonna materna a Bagheria in “provincia di Palermo”, e il 1957, periodo in cui si trasferisce a Roma con il padre dopo la separazione dei genitori. I due aspetti temporali tracciano, inoltre, la distanza tra il momento della presa di coscienza e la compiutezza del passato, distanza entro la quale l’io parlante cerca di rievocare la presenza di ima parte del proprio essere che l’inesperien za della vita aveva all’epoca messo a tacere, negandole la parola.5 Alludono alle stesse circostanze i versi conclusivi in ‘Zinnie’ (p. 33): “il mio / occhio di bambina si spalancava muto e / acceso, senza poter vedere ma pur vedendo / ciò che poi non potrà più non vedere”. Tutto sommato, l’appello a questo terzo attante in ‘Bagheria’, al suo io fanciullesco riesumato, mette in evidenza l’importanza di tale recupero nell’ambito del processo di conoscenza: non eravamo noi due, anzi noi tre in quella villa barocca a succhiare dolci arabi e sigarette americane. (p. 7) E ancora un esempio: in questa Roma fangosa i ricordi si disfano e noi due, anzi noi tre. (p. 7) Ai sintagmi dell’incertezza, “ma non so, forse non ricordo bene”, “non so, mi pare”, le cui varianti vengono ad intercalarsi nel testo per indicare la difficoltà del salto temporale, l’io poetico ne affianca altri, sensoriali, pronti a riscattare il rapporto con il quotidiano: “a succhiare / dolci arabi e sigarette americane”; “si vedevano gli alberi di ulivo e gli ibiscus / un odore vegetale e di pizza calda all’acciuga”; “ci preparò una cassata / ripiena di ricotta”. Tramite i sensi, dunque, l’io poetico rista bilisce i contatti con il proprio passato specificando, insieme, i confini relazionali entro i quali si viene a trovare: “e tu mi eri padre e io ti ero figlia”. Sotto lo sguardo errabondo della memoria, le stagioni si contraggono, e, al quadro idillico dell’infanzia, sopraggiungono, nella poesia, le prime immagini discordanti in cui la nascente sessualità rivolta in 203 assoluto verso il padre e la penosa consapevolezza della propria imma turità fisica, “la gelosia infingarda e l’esangue magrezza / di un corpo”, trovano un loro correlativo nel mondo esterno: “quell’uomo dalle baset te lunghe / che mi mostrò il pene”; “il figlio di Pasqua / infilava una gamba fra le gambe”; “le figlie del vaccaro dietro i cespugli di alloro / si masturbavano fra l’erba alta, sotto un limone”. Né le immagini trala sciano la violenza della guerra: “quando nel giardino scoppiò una mina tedesca / e Anna sollevò il moncherino insanguinato”. Né esse nascon dono l’aura di superstizione con cui i più ingenui avviluppano i potenti quando il ritratto del nonno morto, una volta ricco e fastoso, si confonde nel ricordo con la cieca devozione del popolo per la reliquia di una santa: “pare che passino una ciotola per le case / e raccolgano milioni, anche lui, raccoglieva / lo sperma in una tazza e se lo beveva”. È a contatto con questo mondo che il rapporto con il padre viene meno: “ma già allora m’insegnavi che andare / contro il mondo è gravissimo peccato / e comunque non conviene”. Di qui, soggiunge il momento riflessivo dove l’appello accorato, “and father, how can I love you?”, segnala il senso di perdita che si cela dietro il recupero mnemonico: “father, in quella villa barocca / m’insegnavi a non soffrire e a pedalare in fretta / ma non ero innamorata di uno che mi faceva ammattire di gelosia?”. Dall’urto delle contraddizioni nell’essere amato e dal suo rifiuto di rendersi disponibile alla figlia, il padre, il maestro, perde la sua consistenza di immagine positiva: “mi ricordo di te / e della villa barocca dove mi hai insegnato a mentire”. Il paradigma del padre come maestro di vita viene ripreso nelle seguen ti poesie in cui le varianti sviluppano ulteriormente la struttura poetica sulla matrice del risentimento e del rancore. Sempre con un linguaggio scabro e, allo stesso tempo, umile, in quanto rivolto all’oggetto amato, i versi della ‘Rosa del buon senso’giocano sul dislocamento semantico di “occhio” che, come simbolo, determina le connotazioni di conoscenza e sapienza. La variante testuale inizia con una frase descrittiva dell’oc chio in cui il codice del guardare serve come veicolo della metafora: L’occhio dalle ciglia forti e candide giudicante e fermo, di carne sangue e vetro tu hai messo una mano su quell’occhio perché tacesse il suo obliquo attonito stupore e il gusto del, parlo sempre con te, mia origine mia radice ... (p. 10) 204 L’occhio dell’io poetico, girando lo sguardo verso quello del padre, per amore in esso si riflette, vittima, nella perdita di sé, del suo modo di guardare: “il tuo occhio nascosto era chiuso / premuto sotto stoffe e cinture e il buonsenso cittadino / mattiniero che sapeva di lavanda e di burro crudo”; “tu la odiavi la corruzione / e anch’io, ma l’occhio stupito e casto dentro di te / tu lo temevi e lo chiudevi con un dito”; “tappavi fermamente l’occhio inquieto vigilante”. Alla propria inquietudine, il padre risponde con fare mondano rifugiandosi nei suoi libri, e la figlia, pur identificando l’impotenza dell’idealista, sa di averne subito il con tagio per troppo amore: “temo di ripetere / nel calco delle viscere la tua aridità, e la voce / non è uscita che già dubito e mi pento”. Ancora più ironica è l’allusione alla natura degli insegnamenti del padre sulla vita e al suo nascondersi dietro una visione ideale del mondo in poesie come ‘La scissione’ (pp. 14-15) dove, ripercorrendo la storia di famiglia, l’io individua la lunga catena di condizionamenti che ogni generazione subisce per mano dei padri, il suo incluso. ‘Il Circolo Chaplin’, d’altra parte, spinge il discorso in quella zona delle prime esperienze sessuali quando lei, lasciandosi sedurre dall’amico del pa dre, il quale nulla vede e nulla sospetta - “i tuoi occhi ciechi e fulgidi” - non trova, cercandolo, l’appoggio del genitore: “ma tu dov’eri, sempre a passeggiare e additare / la bellezza un po’ malata del barocco sicilia no?”. Né si materializza la promessa di una rinascita nella Roma del padre, lontana dal peso delle tradizioni della casa aristocratica della nonna materna, “Villa Valguamera’ (pp. 22-23). La coscienza del tradimento, emersa dall’inabissarsi dell’io nell’oggetto amato, s’inasprisce intanto che l’attività di scavo rivela gradualmente un’immagine di sé priva di una propria identità. “[E]ro già del tutto un oggetto”; “ero un / confuso animale senza cuore, senza dita / per capire e toccare”, dice l’io parlante di sé, all’età di tredici anni, quando, nella poesia ‘Bovary a due pezzi’ (pp. 24-25), si fa complice degli amori segreti del padre. Si ritrova, in questo ricordo di ragazza, la figura di Anna nella Vacanza, il cui stupore l’io ora riscatta lanciando l’appello al padre: “dove, quando ci / siamo truffati l’un l’altro?”. E, tuttavia, in ‘Cordelia’ (pp. 26-28), poema improntato sul calco del tragico amore tra padre e figlia del dramma shakespeariano, che, per mezzo della con giunzione e dell’avversativa, stilema ricorrente in questa raccolta di poesie, il grido di chi è scisso dall’amore e dal rancore si fa disperato: tu non sapevi, mio amore, quanto di te [...] tu non sai dicevo [...] eppure c’era qualcosa 205 di vero e di sentito nel tuo, insomma tu non sai quanto di te è germogliato in me e come, se la memoria è un sentimento io odio te stesso in me e ma quando sono morta? (p. 28) Sebbene ostacolato dalla discontinuità sintattica, il tentativo dell’io di recuperare la forza vitale dell’amore paterno attraverso il ricordo, esplode, momentaneamente, nella sensualità delle immagini poetiche, per infrangersi e annullarsi infine contro la consapevolezza del presen te. Nonostante il senso di morte, di chiusura, che pervade queste prime poesie della Maraini, persiste, tuttavia, il desiderio dell’io che il discor so d’amore possa fungere come possibile fonte di rinnovamento nel rapporto tra padre e figlia. La dinamica del discorso poetico in ‘Un gran pesce di vetro e la sua figlia senza cuore’ (pp. 12-13) si appoggia, pertanto, sul periodo ipotetico, “Morrei che tu e io”, dove la “tomba”, topos della non-vi ta, viene metaforicamente rovesciata a luogo di ferti lità: “in una tomba molto fresca / e grondante d’acqua”; “in una tomba tersa e profumata”; “in una tomba fresca di verze”. Ma il presupposto della rinascita, presente solo nella realizzazione verbale, volge sempre verso il polo alternativo dell’assenza, della non esistenza e, quindi, della morte, controparte del discorso ipotetico:6 ecco vorrei sapere se tu ed io una volta, padre mio ci potremo toccare e capire tu ed io ormai sapendo e conoscendo tutte le astuzie e le simulazioni delle vanità e dell’egoismo in quella tomba grondante di capelveneri ci parleremo o moriremo. (p. 13) La ricerca dell’amore quale impulso vitale dell’io, cede il posto alla fissa legge del passato, al suo processo irreversibile, e alla stessa natura aleatoria dei ricordi. A questo punto, i versi della raccolta della Maraini registrano il crescente pessimismo dell’io. Il “moderno padre di biscot to” non ama “ripetere [...] il cammino / verso il fondo dell’infanzia”, spiega la poesia ‘Zinnie’ (pp. 31-33) nella quale il soggetto, scoraggiato dalla propria parola solitaria, teme l’astrazione dei ricordi come evasio- 206 ne dalla verità. Pertanto l’io recita, nei versi di ‘Alla memoria dissan guata’ (pp. 41-42), una litania “per la mia memoria perduta”, la memo ria “pazza e stanca”; “corrotta”; “malata”; “dissanguata”; “morta e asciutta”. Tuttavia, in Ti taglierò la testa’ (p. 36), l’io passa alla denuncia e alla rivalsa: “Ero dura a morire. Io. Di me”. L’io, inoltre, contrappone alla propria morte, metafora sulla quale posa la matrice della perdita dell’innocenza - “Perdevo il sangue verde” -, il desiderio di annullamento dell’altro: “Dico di avere ucciso del / tutto spontanea mente”. La separazione, comunque, non avviene con un atto di volontà ma dalla inevitabile esclusione dell’oggetto amato dalla coscienza del presente. In ‘Sabbie della carestia’ (pp. 49-50), il distacco viene sentito come “mutilazione”, per cui l’io, in “lutto”, sa di avere perso l’essere amato, “nei ventricoli / dell’amore una forza dolce si consuma, / perde forma”, perdita in quanto conseguenza naturale della consapevolezza della propria alterità: mi volterò, sorriderò, fingendo che sia io a fuggirti, nelle nostre fortune nuove che incalzano, nei pensieri che sciacquano la testa, nel trillo persistente della sveglia ... (p. 49) Il ciclo di poesie dedicate al padre occupa per intero la prima metà della raccolta e la Maraini conclude l’atto di separazione e di assenza della figura amata con una poesia epilogo, ‘Filastrocca’ (pp. 52-56), in cui, alla maniera dei racconti fiabeschi, si celebra la storia di un re e delle sue tre figlie come rappresentazione allegorica della vita. ‘Filastrocca’, dunque, come simbolo del rapporto padre-figlia, narra come il re che, pur avendo tutto ciò che il denaro possa comprare, muore dalla noia e, per distrarsi, prende a vittimizzare le figlie, uccidendole brutalmente una alla volta. Nel rito si compiono, per il solo diletto, le sevizie più atroci, non escluso l’incesto, che le figlie subiscono per volere del padre, ma questi, perversamente pentito in ultimo di non avere più figlie, si rende conto di non potere più sfuggire al proprio destino: io non provo alcun diletto se del dio che è nei cieli non infrango qualche legge come quella che ci dice che le figlie vanno amate e rispettate. E perciò noia mia, da oggi in poi sei mia padrona, e mai più ti sfuggirò. (p. 56) 207 La figlia quale oggetto del piacere paterno trova anche la sua amplifi cazione teorica nei pensieri della Marami. In essi, come nella poesia appena trattata, si rivendica la posizione della donna denunciando la perversione con cui l’uomo si è appropriato del potere: Non avendo Da donna] conoscenza ideologica di sé, non si accor geva nemmeno dei saccheggi fatti dalla società maschile ai danni della sua fantasia, della sua vitalità artistica. Non c’è dubbio che i ‘padri’si sono nutriti della immaginazione delle ‘figlie’compien do dei veri e propri atti di cannibalismo artistico.7 Un altro aspetto di rilievo, rimasto fino ad ora tangenziale al rapporto padre-figlia in questa prima parte di Crudeltà all’aria aperta, è la messa a fuoco della figura materna. Concentrata nell’unica poesia che la rappresenta, ‘Madre canina’(p. 43), l’immagine della madre assume una duplice consistenza: oggetto espulso dalla relazione con il padre e complice del tradimento di questi verso la figlia - a seconda della prospettiva temporale adottata dall’io nel discorso poetico, ossia a livello dell’enunciato o dell’enunciazione.8 Nei versi introduttivi di ‘Madre canina’, infatti, il riferimento alle immagini animalesche ogget tivizza dapprima la figura materna, distanziandola dall’io parlante - “Dita canine, madre, moglie, bue” - e relegandola alla pura funzione fisica esente di ima propria autonomia psichica o morale. Tuttavia, dietro questo rifiuto, si cela una realtà contro la quale il discorso lirico viene a scontrarsi. Dalla coscienza del soggetto dell’enunciazione, “mi sono domandata, / mi sono diagnosticata”, e sotto l’apprendimento della propria assoggettazione all’ideale paterno, l’io accomuna il pro prio destino a quello della madre, “madre canina, moglie, sorella”, e ne rovescia l’ordine della parentela, “madre, figlia, generatrice”, nell’ap- prendere il meccanismo di ciclicità che rende la donna, ogni donna, vittima della mancanza di una propria identità, “la tua purezza / senza storia, la tua dolce inesistenza”. Tale consapevolezza non toglie, tuttavia, il dolore della propria sconfit ta, né pertanto rende la posizione della madre più tollerabile, “non voglio dirti che mi sei nemica, la tua / colpevolezza è dei quattro venti”. Il conflitto dell’io, come Enrica nell 'Età del malessere, nasce dal rifiuto di una madre nella cui immagine l’io vede riflesso il proprio destino: e non vorrei chiamarti nemica, da quando hai perso la coscienza, da quando l’hai resa calcarea e scintillante come la perla dei tuoi bronchi, 208 da quando la tua inerzia ti ha rammollito i fianchi, da quando in un prato disteso e secco della tua ariosa testa non giochi più e neghi e neghi paurosamente chinandoti sull’orifizio della mortalità e della delusione dei sensi. (p. 43) Spinta dalla necessità di trascendere un tale destino dove alla donna manca uno spazio per rappresentarsi, l’io parlante respinge la “negazio ne’ di sé, e, addentrandosi negli abissi dell’Ade, si soffermerà “sull’ori fizio / della mortalità e della delusione dei sensi” nel tentativo di ravvisare la faccia del proprio non essere. Le poesie della seconda parte della raccolta, dunque, riflettono questo affacciarsi sul vuoto che sgorga dalla scissione tra l’io e l’essere amato. Con l’ecclissarsi della figura del padre, le immagini poetiche perdono la pulsione erotica e il linguaggio, senza vitalità, si fa più atono, aritmico; i singoli quadri, d’altra parte, si profilano rapidamente anco ra più privi di connettivi, mentre il personaggio femminile, scorrendo per questa landa deserta, cerca faticosamente di afferrare e di fissare, da ciascun frammento, ima parte di sé che possa aiutarla a rifarsi, ad avviarla fuori dal vortice dell’annientamento. Nel campo della tematica, le modalità discorsive delineano due zone di attività poetica in conflitto tra loro. Da una parte, si riscontra la contrazione del desiderio d’amore, e quindi della parola, nella misura in cui la figura paterna recede, rifiutata dall’io: “Se vieni domani, ti / orinerò sulle mani, mio tanto amico” (in Ti orinerò sulle mani’, p. 60). Dall’altra, l’espansione del desiderio di amore attraverso un atto di volontà scaturito dalla certezza del non sapere: “Occhi di marmo”, dice la poesia dal titolo omonimo (p. 63) che veicola nella metafora il sentimento d’impotenza, “non è la prima inesperienza / che ti maciulla il petto, ma la monotonia / delle tue incertezze stellari”. Si risolve all’insegna della coppia binaria, contrazione/espansione, il processo di significazione nella poesia ‘Io corro’ (p. 76), nella quale la funzione attanziale di oppositore e di adiuvante viene affidata a sintagmi verbali tutti incentrati sul nucleo sintattico del titolo, sintagmi che esplicitano figurativamente lo stato interno dell’io parlante: Per la fredda avarizia e l’ingorgo dei sensi. Io corro. Per del mio vuoto colmare l’enigma. Io correrò ancora. Verso di te col tuo fallo 209 INVITO —P
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