Dinora Corsi Donne medievali tra fama e infamia: leges e narrationes Leges «La fama è stata così chiamata poiché fando, ovvero parlando, si diffonde attraverso i tralci delle lingue e degli orecchi come un serpente. È il nome sia delle buone che delle cattive cose».1 Scriveva così nelle sue Etymologiae Isidoro di Siviglia, l’esperto traghettato- re dell’antichità classica verso il mondo medievale, e continuava: a volte si tratta di «fama felicitatis», a volte invece di fama negativa, come nel verso di Virgilio: «La fama, più veloce della quale non esiste male alcuno».2 La fama dunque, conclude, è un nome di va- lore indefinito, estremamente bugiardo, in quanto ingigantisce o altera di molto la verità.3 Parimenti Isidoro si occupa dell’infamia che considera sinonimo dell’ignominia: «L’ignominia, scrive, è così chiamata in quanto chi è colto in stato di flagranza perde il no- men honestatis, ossia la reputazione di onestà: si dice ignominia, infatti, 1 «Fama autem dicta quia fando, id est loquendo, pervagatur per traduces linguarum et aurium serpens. Est autem nomen et bonarum rerum et malarum», Isidoro di Siviglia, Etymologiae, XXVII, 26; diversi secoli dopo di lui anche Papias scriveva: «Fama dicta quod fando pervagatur; est autem nomen et bonarum rerum et malarum», Papias Vocabulista, Torino, Bottega d’Erasmo, 1966, sub voce fama. Isi- doro è ripreso ancora nel XIII secolo da Guglielmo Brito che aggiunge il passaggio classico dell’Eneide dove si descrive la fama personificata, cfr. Summa Britonis sive Guil- lelmi Britonis expositiones vocabulorum Biblie, ed. a cura di LLoyd W. Daly e Bernadine A. Daly, Patavii, in aedibus Antenoreis, 1975, sub voce fama. 2 Virgilio, Eneide, IV, 174. 3 Isidoro di Siviglia, Etymologiae, XXVII, 27. Storia delle donne, 6/7(2010/11), pp. 107-138 ISSN 1826-7505 ©2011 FirenzeUniversity Press 108 quasi a dire sine nomine. […] Altra denominazione dell’ignominia è infamia, quasi a dire senza buona fama [sine bona fama]».4 Sono evi- denti nelle sue parole i riverberi di autori romani se si pensa, oltre a Virgilio direttamente citato da Isidoro, a Varrone –che legava il termine fama alla radice di fari e dunque al significato di “dire”5– a Cicerone6 e più tardi a Quintiliano7 che la intendono come la repu- tazione di cui un uomo gode presso l’opinione pubblica e può esse- re, quindi, buona o cattiva. Existimatio sarà uno dei suoi significati accanto a una costellazione di sinonimi di diverso grado, concetto e intensità come rumor, communis opinio, dignitas. Cui fa da contraltare, in negativo, il termine infamia.8 Dal testo isidoriano non si ricavano, naturalmente, informazioni sull’uso di questi termini, né è possibile seguirne qui l’avventura dei significati e usi nell’ampio campo semantico positivo-negativo dei linguaggi durante i mille anni del Medioevo. Possiamo solo molto genericamente dire che la parola fama è assai diffusa negli scritti in latino, mentre le lingue volgari hanno, naturalmente, vocaboli pro- pri e differenti. Inoltre essa compare frequentemente nei testi della tradizione giuridica romana, specialmente dell’Italia, Francia meri- dionale e Spagna, ma in quelli della Francia del nord, Inghilterra e Germania, questo termine –e i suoi affini– si trova più raramente.9 Dagli storici del diritto sappiamo che la fama mantiene nel Cor- pus iuris civilis giustinianeo il suo carattere indeterminato, cosicché è sempre ricondotta all’infamia (defectus famae) e alle pene di stima, senza rivestire mai una chiara, definita connotazione positiva.10 Per tutto l’alto Medioevo, e anche oltre, l’infamia del sistema accusa- torio romano era la sola conosciuta nel diritto: si trattava di uno statuto giuridico che rendeva “incapace” (in particolare di accusare e di testimoniare) colui che era stato condannato per certi crimini. A partire dalla metà del XII secolo, la dottrina giuridica aveva co- 4 Ibidem, XXVII, 25-2. 5 Varrone, De lingua latina, VI, 55. 6 Cicerone, La retorica a Gaio Erennio, 11, 12. 7 Quintiliano, Institutionis oratoriae, V, 3. 8 Sull’uso e il significato del termine fama e del suo «flottement de valeurs», cfr. Jean-Pierre Néraudau, La fama dans la Rome antique, «Médiévales», 1993, n. 24, pp. 27-34. 9 Si vedano alcune interessanti osservazioni in Anne Grondeux, Le vocabulaire latin de la renommée au Moyen Âge, «Médiévales», 1993, n. 24, pp. 15-26 e Thelma Fenster, Daniel Lord Smail (a cura di), Fama. The politics of talk and reputation in Medieval Europe, Ithaca (N.Y.), Cornell University Press, 2003. 10 Francesco Migliorino, Fama e infamia. Problemi della società medievale nel pensiero giuridico nei secoli XII e XIII, Catania, Giannotta, 1985, pp. 55-56. 109 minciato a formalizzare la nozione di infamia iuris (infamia di diritto) e infamia facti (infamia di fatto): «La si denominava ormai come infa- mia iuris per distinguerla da un nuovo tipo di infamia legale, l’infamia facti, che recuperava una infamia informale emanata dal mondo sociale, la cattiva reputazione attaccata addosso a una persona»: l’infamia nel senso di mala fama et conversatio di cui un soggetto “go- deva” in seno alla comunità assumeva una importanza giuridica e giudiziaria senza precedenti.11 Le ragioni per cui si incorre nella mala fama sono le più diverse e non sembrano avere granché in comune; infame, per esempio, è la donna sorpresa in adulterio, infame è il padre che fa risposare le figlia vedova durante l’anno di lutto, chi è stato condannato per delitti privati (furto, rapina, iniuria) o per frode, chi sconta la pena infamante dell’esilio, ma anche l’istrione e il commediante. L’atten- zione con cui si guarda alle due ultime categorie di persone rivela una pericolosa tendenza che emerge specialmente a partire dal XIII secolo ed è la propensione dei civilisti a estendere l’infamia di fatto a quanti esercitavano métiers dévalorisants e, più in generale, a coloro che appartenevano alle classi più umili,12 cosa che apriva il campo a conseguenze di non poco conto: il colpevole di un misfatto, più del reato compiuto, doveva “temere” la reputazione della sua vittima. Questo risvolto del diritto colpirà le donne e, in special modo, le vittime di violenza carnale. Nei reati di stupro, l’inchiesta sarà cen- trata sulla fama della donna abusata: se ella ha dubbia reputazione, se è una donna leggera, se è una vilis persona, una inhonesta mulier, una donna poco raccomandabile, una meretrice, si presume che il col- pevole dell’abuso sia stato denunciato per puro malanimo e dunque non sarà perseguito né, a maggior ragione, condannato. Semmai 11 Julien Théry, Fama: l’opinion publique comme preuve judiciaire. Aperçu sur la révolution médiévale de l’inquisitoire (XIIe-XVe siècle), in Bruno Lemesle (a cura di), La preuve en justice de l’Antiquité à nos jours, Rennes, Presses Universitaires de Rennes, 2003, p. 140; secondo Francesco Migliorino (Fama e infamia, p. 8) «Furono i primi glossatori a sentire l’esigenza di mantenere accanto all’infamia legale, formalmente definita e delimitata dal diritto romano, una categoria di infamia di fatto, sociale e giuridica ad un tempo, che scaturisce dal giudizio della collettività e produce una diminuzione delle capacità delle persone nel campo del diritto privato pubblico e penale». 12 Théry, Fama, p. 141; Antonio Pertile, Storia del diritto italiano dalla caduta dell’impero romano alla codificazione, Torino, UTET, 1894, III, pp. 229-230: «L’infamia si estende pure a coloro che avevano fatto cessione dei beni, ai professanti mestieri turpi o spregiati, fra cui non vogliono pensarsi solo le meretrici e i lenoni, i barattieri e i ribaldi, ma anche gente di teatro, quelli che facevano mestiere del combattere i duelli per altri e il carnefice». 110 la sua vittima, se è una prostituta, potrà chiedere in risarcimento il compenso di una normale prestazione sessuale, magari aumentato da una indennità supplementare nel caso le fosse stato rovinato il vestito durante la violenza carnale.13 Con queste procedure siamo in un tempo (seconda metà del Trecento) in cui la fama communis o publica si propone ormai come espressione di publica opinio. Ma già a partire dalla fine del XII e inizi del XIII secolo, scrive Julien Théry, la fama communis o publica assume sempre maggiore importanza nelle fonti giudiziarie assieme a «un vo- cabolario teso a delimitare l’opinione pubblica (rumor, clamor, clamosa insinuatio, vox communis, o communis opinio). […] Contemporaneamente, e benché non acceda mai pienamente allo statuto di nomen iuris, la fama è divenuta un tema privilegiato del diritto sia nella riflessione dei giuristi sulla dottrina che nella legislazione, nei coutumiers, nella manualistica degli ordines judiciarii e nella procedura dei tribunali. Se il concetto acquista tale importanza, ciò è dovuto alla funzione cruciale che assume nella procedura inquisitoria il cui sviluppo, fra XII e XIII secolo, fu al centro di una rivoluzione non solamente giudiziaria e di governo, ma anche, più generalmente, socio-politica e conoscitiva».14 All’aprirsi del XIII secolo, infatti, la fama assunse un ruolo inedi- to nell’ordo processuale quando il Concilio Laterano IV (1215) fissò le modalità di una nuova procedura, la inquisitio, destinata a sostituirsi alla accusatio della tradizione giuridica romana. Il Canone 8 del con- cilio (Qualiter et quando) assegna alla fama una funzione determinante: «Non soltanto quando un suddito [nel significato di soggetto alla giu- risdizione di], ma anche quando un prelato commette dei misfatti, se per clamore e fama (per clamorem et famam) giungono agli orecchi del superiore, non già da parte di malvagi e di malelingue, ma da parte di gente onesta, non una sola volta ma spesso, ciò che il clamore indica e la diffamatio manifesta, allora questo superiore dovrà accuratamente cercare la verità davanti ai seniores della sua chiesa affinché, se la cosa lo esige, la severità dei canoni punisca la colpa del delinquente».15 Per 13 Annick Porteau-Bitker, Annie Talazac-Laurent, La renommée dans le droit pénal laïque du XIIIe au XVe siècle, «Médiévales», 1993, n. 24, p. 76. 14 Théry, Fama, pp. 120-121; l’infamia è definita dai coutumiers e dai testi le- gislativi, la bona fama, invece, è accertata in quanto contrapposta all’infamia: «L’infa- mie est seulement perçue à travers les excès qui font classer les individus qui lés com- mettent comme infâmes», cfr. Porteau-Bitker, Talazac-Laurent, La renommée, p. 76. 15 «[...] Quod non solum cum subditus, verum etiam cum praelatus ex- cedit, si per clamorem et famam ad aures superioris pervenerit, non quidam a malevolis et maledicis, sed a providis et honestis, ne semel tantum, sed saepe, quod clamor innuit et diffamatio manifestat, debet coram ecclesiae senioribus verita- 111 assicurare indiscutibile autorità alla normativa, il Canone richiama- va, significativamente, due passi delle Scritture, si tratta di Genesi 18, 20-21: «Disse allora il Signore: Il grido contro Sodoma e Gomorra è troppo grande e il loro peccato molto grave. Voglio scendere a vedere se proprio hanno fatto tutto il male di cui è giunto il grido fino a me; lo voglio sapere!»; e Luca 16, 2: «Lo chiamò [l’amministratore infede- le] e gli disse: Che è questo che sento dire di te? Rendi conto della tua amministrazione perché non puoi più essere amministratore». Innocenzo III aveva voluto questo provvedimento per accresce- re il potere dei vescovi nella loro diocesi, certo, ma soprattutto per dare attuazione alla giurisdizione esercitata dal pontefice su di loro. È evidente il disegno di abbattere l’ostacolo princeps che, sulla stra- da dell’antica accusatio, aveva reso quasi impossibile alle persone di condizione inferiore accusare quelle di rango superiore. Il Canone 8 istituiva così un regime procedurale secondo cui, in certe condizioni, un superiore ecclesiastico poteva aprire procedimenti contro chiun- que senza per questo avvalersi di un qualsivoglia accusatore la cui funzione poteva benissimo essere assunta dalla pubblica fama che, trasformata così in agente denunciante, assumeva in qualche modo personalità giuridica in grado di far iniziare un processo senza che ci fosse bisogno della parte accusatrice. Il giudice, come dice il canone del Laterano IV, poteva quindi procedere «quasi denunciante fama vel deferente clamore».16 Il valore probatorio della fama era dunque altissimo e i testi canonici, come il Liber Extra, iniziarono a forzare il diritto classico di impronta romana che invece aveva riservato alla fama una sostanziale diffidenza come mezzo probatorio.17 Questo sovvertimento della procedura giudiziaria, queste inchieste che ave- vano lo scopo tanto di esercitare il controllo che di mettere in atto la repressione, si abbatterono ben presto sui soggetti deboli della societas christiana: gli eretici e le eretiche, prima di tutti, e più tardi le streghe: per loro le inchieste si aprirono per publica vox et fama (di mala fama tem diligentius perscrutari ut, si rei poposcerit qualitas, canonica districtio culpam feriat delinquentis», Corpus iuris canonici, ed. a cura di Emil Fiedberg, II, Lipsia, Tauchnitz, 1886, c. 746. 16 Théry, Fama, p. 129 ss.; si veda anche Richard M. Fraher, IV Lateran’s revolution in criminal procedure: the birth of inquisitio, the end of ordeal and Innocent III’s vision of ecclesiastical politics, in Rosalius Josephus Castillo Lara (a cura di), Studia in onorem eminentissimi cardianlis Alphonsi M. Stickler, Rome, Libreria Ateneo Salesiano, 1992, pp. 97-111. 17 Massimo Vallerani, La fama nel processo tra costruzioni giuridiche e modelli sociali nel tardo Medioevo, in Paolo Prodi (a cura di), La fiducia secondo i linguaggi del potere, Bologna, il Mulino, 2007, p. 100. 112 naturalmente si trattava) e, sull’onda di un’opinione pubblica non di rado artatamente fomentata, ebbero il rogo nel loro destino. Questa pratica pontificia mostra con particolare evidenza «i le- gami fra potere pubblico centralizzato, procedura inquisitoria e co- struzione dell’opinione pubblica negli ultimi secoli del Medioevo. Prerogativa del potere sovrano per eccellenza, nell’esercizio della sua giurisdizione diretta sui suoi principali “operatori”, l’inchiesta sui crimina enormia dei prelati offre un osservatorio privilegiato su un fenomeno di estensione molto più larga che concerne anche, più o meno, tutti i poteri secolari a partire dal XIII secolo»,18 i quali adottarono, svilupparono e incentivarono la procedura inquisitoria allo scopo di stabilire prima ed esercitare poi un pesante dominio sulle comunità. Accade nei regni d’Inghilterra e di Francia dove, per pubblica opinione, si potrà essere imprigionati e sottoposti a giudizio. E accade anche nei Comuni italiani in cui, dalla metà del Duecento, comincia a manifestarsi «l’emersione di un ordine pena- le pubblico»19 e dove gli statuti sempre più spesso fanno riferimento alla fama in relazione alle ampie competenze dell’inchiesta d’ufficio conferita ai magistrati in materia di crimini pubblici. Di concerto con queste norme che regolavano la vita della co- munità si muove la dottrina giurisprudenziale, ne è prova il Tractatus de maleficiis, il celebre trattato di procedura inquisitoriale che Alber- to da Gandino redasse alla fine del Duecento.20 In quest’opera l’or- dinario ricorso al procedimento inquisitorio è giustificato col fatto che l’autore di un crimine non lede soltanto gli interessi della sua vittima, ma anche quelli della cosa pubblica della città: «quia omnis delinquens offendit rem publicam civitatis, ubi maleficium commit- titur, et illum quem ledit».21 Nella sua trattazione Alberto da Gan- 18 Théry, Fama, p. 136. 19 Mario Sbriccoli, “Vidi communiter observari”. L’emersione di un ordine penale pubblico nelle città italiane del XIII secolo, «Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno», 27, 1998, pp. 231-268; Jean-Claude Maire-Vigueur, Justice et politique dans l’Italie communale de la seconde moitié du XIIIe siècle: l’exemple de Perouse, in Académie des Inscriptions et Belles-Lettres, Comptes rendus de séances, 1986, pp. 312-330. 20 Alberto da Gandino fu giudice dal 1281 al 1310 prevalentemente a Bo- logna e Perugia, il suo Tractatus de maleficiis, in Hermann U. Kantorowicz, Albertus Gandinus und das Strafrecht der Scholastik, II (Die Praxis), Berlin-Leipzig, J. Guttentag, 1926; su Alberto, cfr. anche: Sbriccoli, “Vidi communiter observari”; Diego Qua- glioni, Alberto Gandino e le origini della trattatistica penale, «Materiali per una storia della cultura giuridica», 29, 1999, pp. 49-63. 21 Théry, Fama, p. 138; la citazione da Sbriccoli, “Vidi communiter observari”, p. 260. 113 dino accoglieva la duplice tradizione sulla fama, intesa come buona reputazione di un soggetto o come conoscenza collettiva di un fat- to.22 Più ristretta l’accezione che ne dava il maestro di diritto civile presso lo studio di Bologna Tommaso di Piperata che, nella seconda metà del Duecento, scrisse il Tractatus de fama proponendosi di «eli- minare molti dubbi che nei giudizi accadeva nascessero a proposito della fama»; egli iniziava infatti il suo scritto chiarendo che la fama su cui avrebbe argomentato non coincideva con l’existimatio o opinio definite dal Digesto, si trattava semmai di ciò che tutti gli uomini di un certo luogo, insieme, credono, pensano o sentono («communiter opinantur et existimant sive sentiunt»), e la fama, continuava, «non potest esse nisi publica».23 Voci autorevoli quelle di Alberto e di Tommaso, entrambe cen- trate sugli individui, su uomini e donne e la bona fama, l’existimatio, l’opinio che si conquistano nella comunità in cui vivono e operano. Si conquistano o perdono, quando l’apprezzamento viene meno, e allo- ra per «defectus famae» o «privatio famae» si entra nel vasto dominio dell’infamia.24 Già agli inizi del XIII secolo il Liber iuris Florentinus (IV, 6, 4), nel capitolo De fama et infamia, si domandava «quid sit fama, quid infamia» e rispondeva che la fama «vel existimatio» è uno status «illese dignitatis», facendo chiaro riferimento al buon nome di un in- dividuo, e definiva l’infamia come «privatio famae vel commaculatio famae», con evidente collegamento al termine macula come sfregio che offende, agli occhi di tutti, la reputazione di una persona.25 Ispirata a questi principi giuridici e dettata da attenti sistemi di controllo sociale, comincia a comparire nei Comuni italiani dalla metà del Duecento quella pratica che la storiografia moderna ha chiamato “pittura infamante”, un linguaggio figurato che appar- 22 Alberto da Gandino, Tractatus de maleficiis, tit. “Quid sit fama”, p. 51 e tit. “De rumore manifesto et occulto”, p. 99. 23 «Licet dixerim quod fama publica et opinio publica sint idem, tamen in aliquo differunt, quia fama non potest esse nisi publica, est enim super eo quod omnibus, vel maiori parte sentitur ut supra probatum est, et infra tangetur, et ideo dum lex loquitur de fama, non curavit dicere publica, sed opinio et existimatio potest esse publica, et si intelliguntur leges allegatae», cfr. Thomae de Piperata, Tractatus de fama, in Tractatus universi iuris, Città del Vaticano, Sub signo Stellae, 2001, XI/1, c. 9r., §§ 11-12; Tommaso di Piperata (m. prima del 1282) fu maestro di diritto civile allo studio di Bologna. 24 L’infamia produce una serie di incapacità rilevanti sul piano processuale, cfr. Migliorino, Fama e infamia, p. 47. 25 Das Florentiner Rechtsbuch. Ein System römischen Privatrechtes aus der Glossatorenzeit. Aus einer Florentiner Handschrift zum ersten mal herausgegeben und eingeleitet von dr. Max Conrat Cohn, Berlin, Weidmann, 1882, p. 54. 114 tiene a quella definizione di «nuove grammatiche e nuove sintassi nella comunicazione».26 Era comminata dalle autorità comunali e consisteva nella raffigurazione dei rei contumaci, dipinta di solito in luoghi significativi e di intenso uso collettivo: sul palazzo del pode- stà, sul palazzo del comune, dell’esecutore di giustizia, alle porte di accesso alla città, sui muri prospicienti le vie e le piazze principali. Si trattava di una pena la cui evidente funzione –infamante– era in grado di incidere «sullo status giuridico del punito ribadendone, certificandone o anche provocandone l’infamia».27 Si punivano così i colpevoli di reati politici (tradimento, sedizione, brigantaggio) o di natura più chiaramente civile (frode finanziaria –specialmente la bancarotta– falso e appropriazione indebita), con pesanti esiti quan- to alla condizione giuridica di chi fosse oltraggiato in immagine.28 Nella documentazione coeva si trova testimonianza di dipinti eseguiti «ad infamiam» o «ad vituperium, ad memoriam, in signum confusionis, in dapnum, ad obrobrium, ad dedecus», specchi poli- semici di una realtà del fenomeno in cui la fama entra con diverso grado, ma sempre con l’evidente fine di coinvolgere l’opinione co- mune e orientare il giudizio collettivo. E decretare talvolta la damna- tio memoriae. Se malfattori e anonimi cittadini ricevevano impedimenti da que- ste condanne, ben altro era il nocumento che apportava a personaggi illustri, a uomini di potere per i quali l’onore costituiva un prestigioso elemento identitario e non a caso, dunque, colpire l’onore e mac- chiare la fama assunse nel tempo una valenza sempre più politica 26 Gherardo Ortalli, Colpire la fama e garantire il credito tra legge e propaganda. Il ricorso all’immagine, in Paolo Prodi (a cura di), La fiducia secondo i linguaggi del potere, Bologna, il Mulino, 2007, p. 325; sulla pittura infamante cfr. Id., “… pingatur in Palatio …”. La pittura infamante nei secoli XIII-XIV, Roma, Juvence, 1979; Id., La rappresentazione politica e i nuovi confini dell’immagine nel secolo XIII, in Jérôme Bachet, Jean-Claude Schmitt (a cura di), L’image. Fonctions et usages des images dans l’Occident médiéval, Paris, Le Léopard d’or, 1996, pp. 251-273; Id., L’immagine infamante e il sistema di insulto nell’Italia dei comuni, in Loredana Olivato, Giuseppe Barbieri (a cura di), Lezioni di metodo. Studi in onore di Lionello Puppi, Vicenza, Terra Ferma, 202, pp. 332-340; David Freedberg, Il potere delle immagini. Il mondo delle figure: reazioni e emozioni del pubblico, Torino, Einaudi, 2009. L’uso delle immagini d’infamia inizia nella seconda metà del Duecento, dapprima in Toscana ed Emilia per estendersi poi, nel Trecento, in Piemonte, Lombardia, Veneto, Marche, Umbria; declina lentamente nel XV secolo fino a scomparire nella prima metà del Cinquecento. 27 Ortalli, “… pingatur in palatio …”, p. 184; si veda anche Giuliano Milani, Pittura infamante e damnatio memoriae. Note su Brescia e Mantova, in Isa Lori Sanfilippo, Antonio Rigon (a cura di), Condannare all’oblio. Pratiche della damnatio memoriae nel Medioevo, Roma, Istituto Storico Italiano per il Medio Evo, 2010, p. 181 ss. 28 Ortalli, Colpire la fama, p. 329. 115 rispetto al primigenio significato legale e giudiziario. «Non leggero stimar perder fama, ché menore male sarea perdere vita», scriveva Guittone d’Arezzo.29 Gli farà eco Francesco da Buti: «E così è che per questa opera l’autore nostro [Dante] è venuto in notizia in molti chia- ra e manifesta, et è da lor lodato; e la infamia è contraria alla gloria: imperò che infamia è notizia sozza con vituperazione e biasimo».30 Quasi niente è rimasto di quelle immagini, sappiamo che in origine la pittura infamante presentava una notevole varietà di temi e che col tempo si fissò in un modello, quello dell’impiccato a testa in giù appeso alla forca per un piede, in genere il sinistro.31 È inte- ressante ricordare che esecutori di pitture d’infamia furono anche grandi maestri: Andrea Del Castagno (nel 1440 dipinse i fiorentini fuorusciti e travolti nella battaglia di Anghiari), Sandro Botticelli (nel 1478 dipinse gli uomini coinvolti nella congiura dei Pazzi) e Andrea del Sarto (durante l’assedio di Firenze del 1530 gli fu dato l’incarico di infamare in immagine alcuni traditori).32 I reati che questa pena colpisce sono in tutta evidenza reati di genere, imputabili cioè in modo quasi esclusivo agli uomini: gestio- ne del potere, lotte politiche, pratiche della mercatura e onorabilità negli affari erano quasi del tutto “affari loro”, ragione per cui di donne infamate in immagine se ne conoscono davvero poche anche se, come vedremo, non si rinuncia certo a usarle per aggiungere spregio all’infamia degli uomini. Sappiamo di una monna Tana, moglie Lapo Riccomanni, dipinta a Firenze nel 1320 «forse per fallimento»,33 e sappiamo di due bolognesi, dipinte non per deme- riti propri ma per colpa del capofamiglia: era il 1300 quando il podestà bandì dalla città Noclerio dei Pavanensi con tutta la fami- glia, assieme a lui e al figlio maschio, anche la moglie Caterina e la figlia Grisella vennero dipinte sul palazzo comunale e, come gli uomini, ebbero tre immagini ciascuna, se ne ha notizia da un prov- 29 Guittone d’Arezzo, Le lettere, ed. a cura di Claude Margueron, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 1990, lettera 10, p. 132. 30 Francesco da Buti, Commento sopra la Divina Commedia, I, Pisa, Nistri, 1858, p. 412, commento al canto XV dell’Inferno. 31 Il supplizio è notoriamente ignominioso, cfr. Antonio Pertile (Storia del diritto italiano, V, p. 263-265) che scrive: «[…] lasciandolo lì finché morisse, come praticavasi principalmente cogli ebrei»; vedi anche Ortalli, Colpire la fama, p. 334 ss. 32 Per maggiori informazioni, si veda Ortalli, Colpire la fama, pp. 337-340. 33 Ne dà una scarna nota Gino Masi, La pittura infamante nella legislazione e nella vita del comune fiorentino (secc. XIII-XVI), Roma, Società editrice del “Foro Italiano”, 1931, p. 19: «Del 1320 è la pittura infamante di Francesco e monna Tana, moglie di Lapo Riccomanni, forse falliti». 116 vedimento dello stesso podestà in cui viene deliberato di pagare il pittore Amirato «pro eo quod pinsit dominam Chaterinam […] et dominam Ghisellam».34 Non è dato sapere come fossero le forme della rappresentazione delle donne infamate e se, e in che cosa, differissero da quelle degli uomini,35 e dunque è rischiosa ogni ipotesi che volesse avventurarsi in questo dominio. Tuttavia altri moduli figurativi d’infamia la storia ce li propone e possono essere usati come utili riferimenti. Fig. 1. Presunta immagine dell’imperato- Fig. 2. Presunta immagine dell’imperatrice re Federico Barbarossa, bassorilievo, fine Beatrice di Borgogna, bassorilievo, fine XII XII secolo, Milano, Castello Sforzesco, secolo, Milano, Castello Sforzesco, Rac- Raccolte d’Arte Antica. colte d’Arte Antica. Osserviamo le figure 1 e 2: una lunga, e controversa, tradizione vi riconosce le immagini infamanti di Federico I Barbarossa e di sua moglie Beatrice di Borgogna. I bassorilievi erano un tempo collocati 34 Francesco Filippini, Guido Zucchini, Miniatori e pittori di Bologna. Documenti dei secoli XIII e XIV, Firenze, Sansoni, 1947, p. 6. 35 Quanto alla “forma” della pena, Ortalli scrive (“… pingatur in palatio …”, p. 139, n. 18): «Gli statuti ascolani forse introducono una differenza di comportamento nei confronti dei due sessi quanto alla pittura infamante: all’uomo tocca la pena del capo, la confisca dei beni, il bando dei figli e la pittura in palazzo; per la donna si vuole il rogo e la confisca dei beni dotali, non si parla dei discendenti e si tace della pittura» e rinvia agli Statuti d’Ascoli Piceno dell’anno 1377, ed. a cura di Ludovico Zdekauer e Pietro Sella, Roma, Forzani e C. tipografi del Senato, 1910, pp. 94-95.
Description: