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Storie di vita e soggettività sotto assedio PDF

43 Pages·2013·0.41 MB·Italian
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Flavia Cuturi Storie di vita e soggettività sotto assedio La soggettività dilaga… Non è certo una novità che nella contemporaneità la soggettività imperversi. Sotto qualsiasi forma e modalità espressiva, la soggettività incombe nel nostro mondo mettendo a rischio la convivenza con il “Noi” e, con ogni probabilità con “Loro” e gli “Altri”. Non paga delle continue opportunità per auto esporsi, essa a volte percepisce se stessa con angustia se, come ha affermato il pittore e fotografo Julian Schnabel intervistato recentemente da Fabio Fazio (1-10-2011), “siamo prigionieri della nostra soggettività”. È a causa di questa forzata convivenza con se stessa e dell’ineludibile confronto con le altre, che la soggettività è assillata dalla ricerca di affermazione, ed è alla ricerca di contesti sempre più vasti e diversificati per esporsi e narrarsi? I processi di distinzione che possono essere messi in moto per raggiungere una visibilità riconosciuta vanno dalla più comune adesione a movimenti, mode, blog, alle certosine costruzioni di sé analoghe a quelle dei personaggi di un romanzo, come Andrea Sperelli, decadente creatura dannunziana de Il piacere, secondo cui “bisogna fare la propria vita come si fa un’opera d’arte”. Quali sono oggi gli spazi per l’auto-esposizione? Quali i generi più utilizzati? Raccontare la propria storia di vita o frammenti di essa attraverso le parole dette o scritte, a volte accompagnate da immagini, è il genere discorsivo nel quale la soggettività sembra continuare a dispiegarsi più a suo agio. Ciò che rispetto a un tempo sta variando è il moltiplicarsi degli strumenti e dei luoghi dove le narrazioni si affollano per disperdersi, apparentemente fuori controllo, verso mete incerte e ascoltatori anonimi potenzialmente illimitati (in termini numerici): la rete e i suoi contenitori, le trasmissioni televisive, i riproduttori digitali multifunzionali ad altro ancora, senza dimenticare carta e penna. Vorrei proporre alcune suggestioni, non esaustive, sull’attuale esplosione nel “nostro” mondo di “produzioni” in proprio delle storie di vita, domandandomi quale possa essere l’attenzione che dovremmo prestare a tale fenomeno, quanto esso ci debba coinvolgere e ci interessi per i suoi contenuti e/o per gli strumenti 30 uri ut divulgativi che vengono utilizzati. Affronterò queste tematiche a partire da C a alcune latenti incomprensioni e recenti estremizzazioni tra antropologia e vi Fla storie di vita, comprendendo tra queste anche quelle degli antropologi. Il tema è vasto e forse anche ambizioso, ma l’intento è quello di proporre alcuni spunti di riflessione, anche paradossali, attraverso uno sguardo d’assieme a fenomeni di grande portata. Ciascun paragrafo affrontando uno dei tanti aspetti possibili della relazione tra storie di vita e soggettività, in realtà potrebbe essere ampliato a dismisura sia argomentativamente sia bibliograficamente. Storie di vita nella quotidianità della ricerca etnografica Per l’antropologia le storie di vita dovrebbero essere un genere di riferimento consolidato e sperimentato. Ma la realtà non è così lineare. I dati etnografici sono costruiti soprattutto a partire da “storie di vita” di persone con cui ciascun ricercatore è entrato direttamente o indirettamente in relazione durante il suo vissuto di ricerca, in particolare con la vita dei suoi collaboratori o dei suoi interlocutori. Tali “storie” spesso sono parziali e provvisori spaccati di vita, frammenti di ricordi, evocazioni esperienziali, esplicitamente o implicitamente enunciate, inserite in considerazioni, descrizioni, commenti, ragionamenti di massima degli interlocutori, generalizzazioni sollecitate anche involontariamente dal ricercatore. Non tutte le considerazioni degli interlocutori nascono come soggettive, anzi spesso si propongono come punti di vista maggioritari per rispondere al tipo di domande del ricercatore, soprattutto se non è propriamente interessato a lui come “soggetto” ma come “interprete esemplare” della sua comunità. Molto inoltre dipende dagli strumenti che la lingua del ricercatore e del suo interlocutore, ha a disposizione per comunicare livelli diversificati di generalizzazione e di soggettività. Gli spaccati di vita delle persone della società in cui uno studioso fa ricerca, al di là della loro natura più o meno nascosta nei discorsi dei suoi interlocutori, sono comunque sotto i suoi occhi: sono parte del quotidiano del ricercatore e dei ragionamenti a cui partecipa, sono alla base del suo interesse primario e quindi fonti e testimonianze che, qualunque sia il settore esplorato, sono trasformati in dati, in testo scritto, o registrazione, fotografia o video o fanno parte del suo silente ma attivo bagaglio esperienziale e conoscitivo. Le storie di vita da questo punto di vista non sono solo quelle riconducibili a interlocutori privilegiati, a collaboratori stretti di un ricercatore, quelle che emergono da fitti e intensi scambi quotidiani, o che trovano sfogo a partire da un reciproco stato di empatia e di fiducia che può nascere tra un ricercatore e il suo collaboratore. Storie di vita sono anche quelle di tutte le persone con cui si intrecciano relazioni sebbene superficiali o casuali, se non addirittura indirettamente attraverso le storie di altri, o nelle quali il ricercatore comunque si insinua o intercetta. Tali storie nella gran parte dei casi non sono state utilizzate, rielaborate o valorizzate in quanto tali, ma per raggiungere altri obiettivi conoscitivi che coprono un arco molto variegato di inquietudini disciplinari e finalità teoriche. Le storie dei collaboratori e interlocutori erano, e sono, nella maggioranza dei casi 31 o oggetti impliciti, nascoste in enunciati di tipo più o meno generalizzante, o al edi s contrario utilizzate come testimonianze esemplari di una maggioranza silente o as o rappresentative di un agire o di un pensare minoritari rispetto alla società nella ott quale la ricerca intraprende il suo cammino. I casi in cui ciò non è avvenuto, sono à s rimasti nel passato alquanto rari (da Griaule a Casagrande fino a Crapanzano; ettivit recentemente Cuturi 1997, 2003, 2005; Fabietti 1997). g g o s e a La soggettività degli antropologi vit di L’apertura verso i paradigmi ermeneutici, è ormai assodato, ha ampliato orie la gamma delle soggettività di cui si compone il sapere accumulato durante la St ricerca e poi organizzato all’interno del testo etnografico; l’esperienza emotiva e conoscitiva dello studioso e dei suoi interlocutori ne è emersa legittimata. Ciò ha comportato una minore timidezza nell’affiancare alla soggettività del ricercatore stesso, alla quale si è concessa sempre più trasparenza e spazio, le soggettività delle persone che compongono il quadro delle relazioni in cui si muove uno studioso sul campo. Non mi sembra sia comune il passo ulteriore verso la celebrazione del sé sul campo del ricercatore antropologo, tanto da divenire un’auto-antropo- etnografia: ossia l’antropologo soggetto “primario” narra se stesso, la propria vita e non solo in relazione alla sua pratica di campo (ad es. Spindler 1970; Lapassade 1978; ed. it. 2008; Bartolomé 2002). La definizione più prossima a questo tipo di lavoro che ho trovato è quella proposta da Brandes, “autobiografia antropologica”, ossia “l’antropologo/a stesso/a è il soggetto dell’autobiografia” (1982, p.202). Il terreno delle definizioni è sempre scivoloso e finisce per inchiodare la discussione in disquisizioni classificatorie inadeguate a incasellare generi di scrittura così ibridi come questi. Un intero volume curato da Deborah Reed- Danahay (1997) dedicato all’auto/etnografia, ha messo in luce la complessità delle variabili legate alla posizionalità di chi scrive rispetto al proprio ruolo di ricerca e al terreno in cui la svolge: se l’antropologo scrive di sé e della sua esperienza di vita o di ricerca avviene in una società di cui non è parte (self-reflexive field account), o invece ne è parte (auto-biography, o auto-ethnology, o ethnobiography); in quest’ultimo caso le prospettive cambiano se la società di chi scrive è minoritaria (Pratt 19941) o corrisponde agli strati popolari (Reed-Danahay 1997, pp. 4-9). Un altro quadro di considerazioni dovrebbe, secondo me, ulteriormente aprirsi se l’attività di scrittura, condotta in prima persona, è una pratica aliena al proprio tessuto sociale o acquisita e imposta dal contatto coloniale, passato e contemporaneo che sia (Gnerre 1997, Cuturi 1997; Cuturi e Gnerre 2008). Al di là dei problemi definitori, l’antropologia postmoderna non ha di fatto impresso un cambio di rotta a favore di una “auto-antropo-etnografia” 1. Mary Louise Pratt, analizzando testi andini del diciassettesimo secolo e contemporanei scrive: “Autoethnographic text are not, then, what are usually thought of an autochtonous or “authentic” forms of self representation...Rather they involve a selective collaboration with and appropriation of idiom of the metropolis or conqueror. These merged or infiltrated to varying degrees with indi- genous idioms to create self-representations intended to intervene in metropolitan modes of under- stending” (1994, p.28, in Reed-Danahay 1997, p. 8). 32 uri ut generalizzata, se mai, come ha sostenuto Dei (1995) ha contribuito a diffondere C a un nuovo lessico e una più alta sensibilità autoriflessiva e consapevolezza nella vi Fla strategie di costruzione delle rappresentazioni etnografiche. Fino alla metà degli anni Novanta, sembra insomma che negli Stati Uniti, sostiene Dei, “l’approccio testuale resti minoritario. La gran parte dei dipartimenti di antropologia continua a lavorare su progetti di ricerca di tipo tradizionale e in un quadro di riferimento metodologici e teoretici che non rompe certo l’impianto dell’antropologia classica, pur affinandolo ed eliminandone certe ingenuità” (1995). È cambiata la situazione dal 1995 ad oggi? La riflessione e la descrizione della soggettività del ricercatore è comunque sempre più utilizzata nella forma di un doveroso tributo metodologico alla consapevolezza di come la sua presenza costruisca il dato etnografico e il sapere antropologico, insieme ai suoi collaboratori (gli autori da citare sono troppo numerosi). Questo tributo rappresenta una novità? In un saggio molto ben documentato Barbara Tedlock (1991) ha scritto anni fa sull’emergere progressivo dello spazio narrativo dedicato agli aspetti riflessivi del sé dello studioso e la ricerca sul campo. Rileggendolo, rispetto a quanto mi ricordassi, mi è sembrato di cogliere un quadro storico meno dirompente e conseguente all’affermazione dei variegati e per nulla omogenei paradigmi postmoderni. Nel corso del tempo, da circa un settantennio, la scrittura di storie di sé durante la ricerca sul campo ha una presenza continuata ed è una variegata consuetudine: sebbene la visibilità del sé del ricercatore sia stata spesso limitata o trattata in maniera indiretta, risulta essere comunque costitutiva dell’esperienza etnografica. Tanto è vero che gli studiosi, in alcuni casi, hanno riservato alla propria esperienza personale uno spazio narrativo parallelo. Barbara Tedlock analizza (le opere citate sono ben 213) l’attenzione continuativa prestata nei confronti del sé sul campo presente nelle etnografie di studiosi prevalentemente britannici e americani e solo alcuni francesi, portandoci a porre la domanda: quando gli antropologi non hanno riflettuto sulla propria soggettività durante la ricerca e narrato il sé sul campo? Dove nasce, a questo punto, la vulgata di un oggettivismo compatto e indifferente ad essa? Non propongo di negare l’esistenza di un programma oggettivista che riteneva incompatibili fini scientifici e visione soggettiva della conoscenza e che ciò abbia condotto a occultare e svalutare il vissuto esperienziale degli studiosi. Ma invito a constatare che la consapevolezza del ruolo della soggettività dello studioso durante la ricerca ha avuto vita nelle etnografie anglosassoni e francesi, sebbene e nonostante tutto: una presenza costante e diretta sia attraverso l’uso dell’io, sia dissimulata all’interno di essa o invece esplicitata in forme di scrittura “ufficiose”. Non sono più del tutto convinta che il rapporto tra soggettività ed oggettività e la loro resa nei testi etnografici fosse condizionato in particolare dalle convenzioni espositive circa l’idea di scientificità di un testo (Clifford 1997, p.37). Se si rimanesse ancorati a una visione testuale dei “risultati” dell’impresa etnografica, la dimensione retorica sarebbe quella che in maniera 33 o preminente tradurrebbe l’esperienza soggettiva, negandola o affermandola. edi s Mi sembra un punto di vista debole ed è possibile che molti studiosi da un as o lato non abbiano creduto e accettato fino in fondo che bastasse velare l’uso ott dell’io etnografico per garantire la scientificità della loro opera, ma al tempo à s stesso abbiano aderito “con sincerità” ad una convenzione retorica che ettivit assicurasse oggettività ai risultati della loro ricerca. Tanti noti antropologi, g g o citati da Barbara Tedlock, hanno scritto memorie delle loro ricerche a volte s e ricorrendo (costretti?) a pseudonimi: ad esempio Margaret Field studiosa dei a vit Gâ (Africa Occidentale), mascherata sotto lo pseudonimo di un uomo (cedendo di all’androcentrismo?) Mark Freshfield, ha scritto Stormy Dawn (1947). O Laura orie Bohannan ha descritto la propria esperienza in forma narrativa in Retourn to St Laughter (1954) con il nome di Elenore Smith Bowen; Philip Drucker pubblicò una “novella etnografica” Tropical frontier (1969) con il nome di Paul Record (in Tedlock 1991, p. 72). Colin Turnbull, John Beatty, Nigel Barley, ciascuno oltre a realizzare autorevoli monografie etnografiche di stampo oggettivista (rispettivamente tra i Pigmei 1965, Bunyoro 1960, Dowayos 1983a) ha scritto parallelamente con stili e fini diversi opere in prima persona sulla propria esperienza di ricerca (Turnbull 1961; Beattie 1965; Barley 1983b; in Tedlock 1991, pp.76-77). I casi sono molto numerosi e quelli che riporta Tedlock sono circa gli stessi analizzati da James Clifford, qualche anno prima, nella nota “Introduzione” a Writing culture (1986). Ma, secondo me, risulta “stretta” l’idea di “finzione”, di “tono”, di “occultamento”, così come quella che la problematicità tra esperienza etnografica e l’ideale dell’osservazione partecipante si affronta guardando alle diverse strategie testuali a disposizione (Clifford 1997, p.38). A breve spiegherò il perché di questa affermazione. Per ovvi motivi non posso riportare per intero le considerazioni e gli esempi di Barbara Tedlock; ho riproposto queste citazioni (le più lontane dalla “svolta ermeneutica”) non solo per invitare a rileggere questo saggio, ma per mettere in rilievo la continuità con cui la soggettività degli studiosi ha cercato e trovato spazio per “raccontare” il proprio punto di vista in una sorta di complementarietà rispetto alle monografie etnografiche piuttosto che in contrasto ad esse come invece propende Tedlock (1991, p.76). Trovare spazi narrativi per la propria storia di campo è stato solo in parte un atto compensatorio e/o liberatorio rispetto a convenzioni accademiche, o una conquista astrattamente teorico-ideologica. A me sembra invece che in ciò ci sia stata di frequente una costante dose di fiducia nella soggettività proprio come garante dell’oggettività dei risultati, nel passato un tanto neutralizzata per l’assenza di una valorizzazione in sé della soggettività. Un’assunzione di responsabilità autoriale e non solo una prova testimoniale, è sempre esistita, ma è andata crescendo con l’affermazione della soggettività tout court nella società euroamericana in genere. Gli strumenti della retorica testuale non sono autosufficienti rispetto alle rappresentazioni correnti, intellettuali o di senso comune, esistenti in ciascun momento del quotidiano e del contesto storico. Nel caso della soggettività degli etnografi, tali strumenti si attivano e disattivano a seconda delle ideologie/rappresentazioni dell’individualità 34 uri ut che sono culminate negli anni ’80 richiedendo maggiore visibilità e la C a soggettivizzazione dell’operato di ciascuno; ideologia/rappresentazione che vi Fla gli antropologi di Santa Fé hanno forse vissuto come tutti, ma che loro hanno contribuito ad alimentare andando oltre il senso comune. Alcuni aspetti delle riflessioni che Tedlock propone, sono importanti per la mia interpretazione: l’interesse per la riflessività cresce negli anni ’60 e subisce un’accelerazione durante gli anni ’80, ed è tutt’oggi in continua crescita. Come si spiega questo fenomeno? I motivi non sarebbero squisitamente solo intellettuali, ma come sostiene Tedlock tale sviluppo è legato alla notevole crescita del prestigio dell’antropologia come disciplina e nelle dimensioni dell’audience interessato alla prospettiva antropologica. […] Non solo abbiamo catturato l’attenzione del pubblico in generale, grazie a Margaret Mead e a programmi televisivi pubblici come “Nova” e “Mondo dello Smithsonian”, ma siamo diventati graditi ad ambedue le scienze umane e sociali. […] In un mercato più ampio per le idee dell’antropologia, gli etnografi sono richiesti dagli editori per le interessanti idee riguardo gli esseri umani, e le loro affascinanti storie” (1991, pp.79-80; corsivi miei). Ritradotto un po’ brutalmente in una domanda: oltre alle inquietudini metodologiche quanto televisione, personalizzazione e la curiosità per le storie dal terreno di ricerca, idee che illuminano sull’umanità, hanno creato un circuito di interesse per l’antropologia che ha alimentato se stesso, favorendo l’esposizione della soggettività degli studiosi così come stava avvenendo in tanti altri campi della vita sociale, politica e del quotidiano? In Italia che è un paese assai singolare, dove l’antropologia e gli antropologi rimangono sconosciuti ai più, questo successo mediatico non si è verificato. Tra i lavori di Nigel Barley (2008) e di Colin Turnbull (1979), ad esempio, sono stati pubblicati solo quelli autobiografici e narrativi, non le monografie in senso stretto. È evidente che l’autobiografia come sguardo soggettivo “interessa”, attrae di più, è “meno paludata” di un lavoro (da specialisti!) con scopi oggettivanti. È la soggettività che da maggiori garanzie di autorevolezza, convince di più, è più empatica, comunica più “facilmente” i contenuti delle esperienze, rende il testo più trasparente, si avvicina a un genere popolar-familiare, stuzzica la curiosità, è un po’ voyeristica, rende compartecipi le soggettività del pubblico? Il che può voler dire che il vezzo narcisistico della contemporaneità che induce all’autoesposizione ha contagiato il senso delle storie di vita rispondendo sempre più ai criteri di condivisione a cui altri mezzi di comunicazione (televisione, la rete) nel corso del tempo hanno abituato i suoi utenti? Archiviare la soggettività Date queste condizioni di crescente interesse per le soggettività che interagiscono durante la ricerca sul campo, ci si poteva attendere un’esplosione di etnografie centrate su storie di persone espressione dell’Alterità, o degli 35 o stessi “collaboratori”, qualunque fosse il contesto linguistico-culturale in cui edi s queste siano vissute. Una generalizzata esplosione non mi sembra sia avvenuta, as o ma è necessario fare un distinguo significativo, sebbene un po’ grossolano, (dal ott momento che non sto perseguendo fini ricompilativi) tra chi si è dedicato alle à s storie di persone appartenenti al proprio mondo e chi invece si è concentrato su ettivit quelle appartenenti a mondi linguistici-culturali diversi dal proprio. Il primo g g o distinguo riguarda la continuità grazie alla quale la tradizione demologica s e (Cirese 1973; Clemente 2000), storico-sociologica e letteraria italiana (Passerini a vit 1978; Portelli 2007; Triulzi 1977) ha fatto delle fonti orali, delle storie di vita uno di strumento di indagine primario cogliendole sia dalla viva voce delle persone, orie sia dalle loro produzioni scritte. Oggi questa tradizione si è riattualizzata St alla luce della critica riflessiva e infatti come sostiene Pietro Clemente le storie di vita anticipano il dibattito sugli ‘antropologi nativi’, quelli che conoscono da sé il loro mondo senza aspettare che un ‘esterno’ lo faccia, quelli che sono in parte ‘indigeni’, ma lo fanno senza credere che ci sia un solo e decisivo punto di vista” (2004, p.XIII). Questa articolata tradizione di studi nel tempo dunque ha continuato ad ampliare i suoi orizzonti, ad adeguarsi a nuovi interlocutori e soggetti come ad esempio gli immigrati presenti nel nostro paese ed altre voci “che non hanno socialmente potenza” (Clemente 2000, p.136), donne e disoccupati, ad esempio. In Europa dal secolo scorso gli archivi hanno accolto autobiografie, diari, lettere, memorie trasformandole in fonte per la costruzione e affermazione di identità collettive e nazionali. Archivi tematici si sono aperti agli eventi della guerra, alla Resistenza o alla vita pubblica come a quelli dei partiti politici e dei sindacati. Esempio di questo fermento è la Casa della Memoria e della Storia fondata a Roma grazie anche alla collaborazione delle Associazioni che rappresentano i diretti testimoni dell’esperienza antifascista e democratica della città; in molti casi tali Associazioni hanno donato i loro archivi. Anche in questo campo, a partire dagli anni ’80, incominciarono ad inaugurarsi nuovi spazi per l’archiviazione di documenti diaristici, autobiografie, memorie, e a creare istituzioni e progetti per promuovere le pratiche autobiografiche. Come sostiene Anna Iuso (questi dati le sono in parte debitori), l’oggetto d’analisi di tali archivi “non è più il contenuto della vita del testimone rispetto a una specificità sociale e evenemenziale, ma l’autore stesso, il suo rapporto con la scrittura e con il racconto biografico […]. In questi archivi l’autobiografia, o il materiale autobiografico in generale si rifiuta di essere considerato un documento da cui si possono estrarre dati […]. Ogni autobiografia (o diario) è come un monumento, è unica, intenzionale, commemorata di una storia individuale o per lo meno individualizzata. Ogni testo, come ogni vita, chiede l’eternità archivistica, che conserverebbe un’individualità piena. Non ci sono più informatori, ci sono soggetti” (2000, pp.26-27; corsivi miei). Prendo alla lettera queste parole proiettandole su un piano progettuale dove per “ogni vita” intendo “tutte le vite”, collocate su una scala temporale senza fine. Il rapporto con la propria soggettività collocata 36 uri ut su una scala di eternità, racchiusa in un archivio, mi spaventa, lo confesso, ma C a probabilmente è un problema mio. Per misurarsi con una richiesta di tale tipo, vi Fla c’è bisogno di un grande egocentrismo, assieme al desiderio di sfidare il tempo pur sapendo di affidarlo al presente con i suoi credo soggettivisti, a strumenti eurocentrici, a una storicità che guarda poco al domani. L’eternità: certo un grande sogno di molta umanità ma non so se condiviso da tutti gli esseri umani. Mi immagino l’affollamento (la lotta?) di tutte le voci che chiedono di esserci…ma per essere lette, sfogliate, studiate, conosciute da chi? Per quali fini? Una delle garanzie della vivibilità credo, ma è una convinzione del tutto personale, stia nel nostro essere transeunte fisicamente e spiritualmente. Il rapporto uno a uno tanto delle vite quanto all’interno del vissuto stesso, forse ci porterebbe a un immobilismo di tipo zenoniano. Sto interpretando liberamente la riflessioni di Anna Iuso, spero non me ne voglia, e mi domando affidandomi al paradosso, cosa sarebbe la nostra contemporaneità se tutti fossero (e si comportassero come) dei monumenti, cioè delle opere d’arte di dannunziana memoria, o dei costruttori di testimonianze di sé stessi e di ogni attimo del proprio vissuto? Di quali spazi siderali si dovrebbe avere bisogno per accumulare la documentazione di milioni di attimi della vita di miliardi di persone? O questo desiderio vale solo per chi ha mezzi per documentare memorie e attimi del vissuto, cioè noi e la nostra società grafocentrica e visualista? È ciò che in parte sta accadendo tra di noi grazie all’uso di apparati digitali in grado di memorizzare, registrare e diffondere qualsiasi cosa accada e ci investa, in un clima di autofeticismo. Temo che al fondo ci sia un processo di reificazione della soggettività di ciascuno che se non venisse riposizionata all’interno di una logica collettiva (uno tra i tanti) forse finirà effettivamente per chiudere ognuno nella prigione della propria soggettività. Saremmo ancora in grado di parlare, di ascoltare, di interrogare l’altro? La realizzazione di un archivio non più tematico ma aperto alle scritture popolari e alle autobiografie, è stata raggiunta con la fondazione dell’Archivio Diaristico Nazionale nel 1984 da Saverio Tutino (2000) a Pieve di Santo Stefano. Grazie ad un crescendo di attività, di concorsi e premi relativi, la rivista Primapersona e poi pubblicazioni, congressi, mostre e seminari, alleanze con altri Archivi di scrittura popolare, in quasi trenta anni di vita oltre a diventare un punto di riferimento per chi scrive e chi svolge attività di ricerca in questo campo, dal 1999 l’Archivio è online e nel 1998 contribuisce alla fondazione della Libera Università dell’Autobiografia (ad Anghiari), ideata da Duccio Demetrio e Saverio Tutino. L’università di Anghiari nasce come un’associazione che si prefigge di costituire “una comunità di ricerca, di formazione, di diffusione della cultura della memoria in ogni ambito”, estrinsecata in particolare attraverso l’autobiografia. La scrittura personale “rappresenta infatti un mezzo e un metodo insostituibile per la valorizzazione di se stessi, per lo sviluppo delle capacità cognitive e delle diverse forme del pensiero, per la creazione di una sensibilità volta a leggere le testimonianze degli altri, ad ascoltarne per poi scriverne la storia” (dalla pagina di presentazione del sito dell’Università). Apprendere a scrivere di sé attraversa vari campi che vanno dal letterario al 37 o filosofico, allo psicologico, ma soprattutto “un metodo auto formativo […] edi s per stimarsi di più, per prendersi cura di sé, per costruire e accompagnare lo as o sviluppo e i cambiamenti della propria identità, approfittando della pagina ott scritta (di un diario, di un memoriale, di una lettera), e quindi, per conoscersi à s meglio” (dal sito dell’Università: “Le basi teoriche del nostro progetto”). Quali le ettivit possibili applicazioni pratiche di questo progetto? g g o È difficile seguire le numerose iniziative che sono nate e sono in corso s e attorno alla formazione di scrittori di autobiografie. In un articolo recente, a vit Lucia Portis (2010) descrive il progetto “Narrazioniitineranti” (2007) nato da di una collaborazione fra la Libera Università dell’Autobiografia, di cui la studiosa orie fa parte, e il Centro Interculturale della Città di Torino incominciata nel 2002 St attivando un laboratorio permanente di scrittura autobiografica e raccolta di storie di migrazione i cui partecipanti sono cittadini italiani e stranieri. Sebbene non sia chiarito in che lingua gli stranieri siano stati introdotti alla pratica della scrittura autobiografica, uno degli scopi del progetto è “dare la possibilità all’altro, il diverso, il lontano, di narrarsi con le proprie parole, potendole controllare” (Portis 2010, p.7). La consapevolezza che ciascuno abbia modalità discorsive diverse e altri tempi per esprimersi come altri modi di interpretare sé e il proprio mondo, non limita la comunicazione ma anzi fa superare i limiti di “sterili categorizzazioni”, consente “di costruire un percorso condiviso dove potere incontrarsi alla pari e creare un mondo “terzo” dove non ci siano più nativi e migranti ma solo uomini e donne” (Portis 2010, p.7, corsivo mio). Noto una qualche ambiguità di piani sovrapposti tra scopi e metodi, per cui sembra positivo liberarsi della propria storia (di nativi o di migranti) per ritrovarsi uomini e donne però forse svuotati di un contenuto culturale di appartenenza. D’altra parte si sostiene che gli obiettivi e lo svelamento delle narrazione autobiografica sono “la descrizione della propria storia di vita nel qui e ora; l’esistenza di sentirsi situati in un tempo (storico) e in uno spazio (culturale e sociale). La descrizione della propria autenticità di esseri unici al mondo e quindi possessori di una storia unica e irripetibile” (Portis 2010, p.7). Ciò sembra in contrasto con un’altra affermazione forte riguardo i propositi del progetto: “i testi tratti dalle esperienze di ognuno e re-interpretati alla luce del presente, ci raccontano e rendono visibili le caratteristiche universali dello spirito umano; le emozioni che suscitano i racconti di un italiano o di un peruviano o di un cubano sono simili, tant’è difficile distinguere, se non per i nomi dei luoghi, qual è la narrazione di uno o dell’altro” (Portis 2010, p.3 corsivo mio). Ma perché intraprendere questo entusiasmante cammino di auto-consapevolezza, di svelamento del sé, di comprensione della propria visione del mondo, apprendere forme di scrittura prima ignote per poi ritrovarsi soggetti unici ma deculturati, con storie irripetibili ma dalle caratteristiche universali? C’è una tensione irrisolta tra particolare e universale che stento a ricomporre. In ultima analisi la differenza culturale dà l’impressione che rappresenti un limite alla propria soggettività e forse un filtro non del tutto positivo per la comprensione dell’altro. Sono convinta che queste iniziative debbano essere comunque benvenute dal 38 uri ut momento che rendono “bella” la responsabilità della propria soggettività contro C a l’imperante commercializzazione di sé stessi o la vacua auto-esposizione tipica vi Fla di chi non ha nulla da dire a nessuno. L’interessante progetto di Portis è una delle realizzazioni possibili di quel diritto all’autobiografia evocato da Luisa Passerini negli anni ’80. Di nuovo gli anni ’80! Esistono archivi specchio di tale diritto con ancora meno filtri rispetto a quello di Pieve Santo Stefano. Fondato in Francia da Philippe Lejeune e da altri studiosi dell’autobiografia, l’Association pour l’Autobiographie (APA) raccoglie qualsiasi tipo di scrittura autobiografica, senza selezione o concorsi con lo scopo di “accogliere, leggere, conservare testi e dar loro la possibilità di essere studiati” (Leroux-Hougon e Vannet 2000, p.119). Secondo Iuso “al centro dell’attività dell’archivio è l’atto autobiografico: l’individuo nella sua progressiva espressione scritta. Non esiste il problema della selezione preliminare o fattuale, né della pubblicazione. Si raccoglie tutto ciò che si scrive, man mano che lo si produce; i veri soggetti degli archivi sono i diaristi e la pratica autobiografica che li accomuna” (2000, p.29). Come sostiene Tutino “le vite fanno la storia”, quindi più numerose sono e senza filtri tematici, più le vite si impossessano del diritto “alla salvaguardia della memoria di ciascuno per consegnarla alla società civile” (2000, p.118), più rispondono positivamente al processo di democratizzazione della scrittura, più la storia dovrebbe risultarne anch’essa democratizzata e dunque arricchita di una visione “dal basso” sempre agognata ma difficilmente raggiunta. Una inquietudine quantitativa non è estranea agli storici e ai cultori della scrittura popolare perché è anche inquietudine che coinvolge la qualità delle analisi e delle interpretazioni, l’organizzazione dei documenti e la loro contestualizzazione (Gibelli 2000, p.169,174): “Il lavoro sulle testimonianze scritte dalla gente comune, dal punto di vista storiografico, è forse arrivato proprio a questo frangente complicato, a questa sensazione inquietante di una fatica che non potrà mai fermarsi a una meta definita. Più si va avanti e, per così dire, più si delinea la dimensione sterminata dell’oceano nel quale ci muoviamo” (Gibelli 2000, p.174). Se questa sensazione di spaesamento è stata provocata da alcune decine di migliaia di documenti che ogni archivio deve gestire, come dovremmo affrontare i milioni di storie di vita e di frammenti di esse che gli utenti dei social network espongono spontaneamente? Oppure queste non sono nuove forme di scritture “dal basso”? Il tabu delle storie di vita degli Altri Di fronte a questo fiorire di narrazioni diaristiche, di autobiografie dal “basso” di persone appartenenti al nostro stesso mondo, le storie di vita degli Altri quando appartengono a mondi linguisticamente diversi da quello del ricercatore, mi parrebbe invece di poter dire, sono sostanzialmente poco esplorate. La soggettività degli Altri è rimasta frammentata e opaca; le autobiografie dell’Altro latitano. Non sono del tutto convinta che alla radice di questa assenza di voci ci sia solo una sorta di “blocco etico” dovuto a corrette preoccupazioni,

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storie di vita, comprendendo tra queste anche quelle degli antropologi. aspetti possibili della relazione tra storie di vita e soggettività, in realtà
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