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Parla, mia paura PDF

89 Pages·2017·0.768 MB·Italian
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Simona Vinci Parla, mia paura Il libro P OCHE VOLTE COME IN QUESTO LIBRO IL DOLORE DIVENTA CARNE VIVA E incandescente, racconto sincero di un’esperienza che nasce autobiografica e si fa subito universale. Simona Vinci si immerge nella propria paura e cerca un linguaggio per confessarla. L’ansia, il panico, la depressione spesso restano muti: chi li vive si sente separato dagli altri e incapace di chiedere aiuto. Ma è solo accettando di «rifugiarsi nel mondo» e di condividere la propria esperienza che si sopravvive. La stanza protetta dell’analista e quella del chirurgo estetico, che restituisce dignità a un corpo di cui si ha vergogna, l’inquietudine della maternità, la rabbia della giovinezza, fino allo strappo iniziale da cui forse tutto ha avuto origine. Scavando dentro sé stessa, Simona Vinci ci dona uno specchio in cui rifletterci. Si affida alle parole perché «le parole non mi hanno mai tradita». Perché nella letteratura, quando la letteratura ha una voce cosí nitida e intensa, tutti noi possiamo trovare salvezza. Simona Vinci ha vinto il Premio Campiello 2016 con La prima verità. È cominciata con la paura. Paura delle automobili. Paura dei treni. Paura delle luci troppo forti. Dei luoghi troppo affollati, di quelli troppo vuoti, di quelli troppo chiusi e di quelli troppo aperti. Paura dei cinema, dei supermercati, delle poste, delle banche. Paura degli sconosciuti, paura dello sguardo degli altri, di ogni altro, paura del contatto fisico, delle telefonate. Paura di corde, lacci, cinture, scale, pozzi, coltelli. Paura di stare con gli altri e paura di restare da sola. Nel posto in cui vivevo allora arrivava il richiamo lacerante dei piccoli rapaci notturni nascosti tra i rami degli alberi. Di notte, l’inferno indossava la maschera peggiore. Di notte, quando nelle case intorno si spegnevano tutte le luci, tutte le voci, quando sulla strada il fruscio delle automobili e dei camion si assottigliava. L’autrice SIMONA VINCI è nata a Milano nel 1970 e vive a Bologna. Il suo primo romanzo, Dei bambini non si sa niente (1997), ha riscosso un grande successo: caso letterario dell’anno, è stato tradotto in numerosi Paesi, tra i quali gli Stati Uniti. Sempre per Einaudi sono usciti la raccolta di racconti In tutti i sensi come l’amore (1999) e i romanzi Come prima delle madri (2003), Brother and Sister (2004), Stanza 411 (2006), Strada Provinciale Tre (2007) e La prima verità (2016). Parla, mia paura Fu a causa della mia umana debolezza che lo spirito del profondo mi donò queste parole. Anch’esse sono superflue, perché non parlo in virtú di esse, ma perché devo. Se non parlo, lo spirito mi priva di ogni gioia e della vita; perciò io parlo. C. G. JUNG, Il libro rosso Uno È cominciata con la paura Come si può gioire del mondo se non quando ci si rifugia in esso? FRANZ KAFKA, Aforismi di Zürau1 È cominciata con la paura. Paura delle automobili. Paura dei treni. Paura delle luci troppo forti. Dei luoghi troppo affollati, di quelli troppo vuoti, di quelli troppo chiusi e di quelli troppo aperti. Paura dei cinema, dei supermercati, delle poste, delle banche. Paura degli sconosciuti, paura dello sguardo degli altri, di ogni altro, paura del contatto fisico, delle telefonate. Paura di corde, lacci, cinture, scale, pozzi, coltelli. Paura di stare con gli altri e paura di restare da sola. Nel posto in cui vivevo allora arrivava il richiamo lacerante dei piccoli rapaci notturni nascosti tra i rami degli alberi. Di notte, l’inferno indossava la maschera peggiore. Di notte, quando nelle case intorno si spegnevano tutte le luci, tutte le voci, quando sulla strada il fruscio delle automobili e dei camion si assottigliava. Di notte, il suono dei miei stessi pensieri era il piú forte di tutti: il battito del cuore fuori tempo, il sangue che raschia sordo dentro le vene ristrette. Di notte arrivava la paura cattiva. Come si fa a definire quella particolare paura – che non è la paura di qualcosa di reale, concreto, riscontrabile, evidente, ma una paura irrazionale e pervasiva che fa del corpo, del sistema cardiocircolatorio, respiratorio e vasomotorio l’onda del ciclone, il punto preciso da cui ha origine un terremoto, il cuore di un incendio spaventoso, l’abisso piú nero – che è l’attacco di ansia e peggio ancora l’attacco di panico? Impressione di cadere, di precipitare in un vuoto infinito, di esplodere, di impazzire, di essere sul punto di morire. La sensazione somiglia a quella di un infarto. Non a caso, la maggior parte delle persone colpite da attacchi d’ansia o di panico la prima cosa che cerca di fare è chiamare un’ambulanza oppure correre al pronto soccorso, convinta di avere un infarto, un ictus, o comunque problemi cardiaci. Io però non l’ho fatto. Per molto tempo non ho detto niente a nessuno. Vivevo con un’amica che lavorava fuori tutto il giorno e ognuna conduceva la sua esistenza. O meglio, io no. In quel momento ero (mi sentivo, che è la stessa cosa, a volte) condannata a una non-esistenza. O a un’esistenza eccessiva. Multipla, rifratta, allucinante. Le mie vite possibili mi si schiantavano addosso alla velocità d’impatto di un mezzo pesante che corre a 130 km/h e io esplodevo. Mi disintegravo. Cosí la mattina uscivo e andavo a camminare in mezzo ai camion. Mi sembrava piú facile rischiare davvero un urto mortale, una deflagrazione. Le definizioni per me sono paragonabili alla morte, ma questo abisso spalancato cos’era? Avevo trentatre anni e non sapevo chi ero. Mettevo la testa sul cuscino la sera e il sonno non arrivava. In fondo, mi dicevo, hai sempre avuto problemi d’insonnia, anche da ragazzina, e non te ne sei mai liberata. Il sonno è abbandono, resa, e tu non sai abbandonarti e nemmeno arrenderti. Per dormire, da una certa età in avanti, ho sempre avuto bisogno di un aiuto: goccine, melatonina, erba. Finché l’erba, in dosi modeste, sbriciolata in mezzo al tabacco, ed esclusivamente la sera, prima di dormire, non ha iniziato a farmi venire nausea, tachicardia e pensieri angoscianti. Allora ho smesso. E in quel momento è cominciata. Era astinenza? Impossibile, a quelle dosi, forse solo astinenza psicologica, tant’è che non dormivo piú. Neanche con le gocce. Il cuore mi scoppiava nel petto, mettevo la testa sotto il cuscino e pensavo: non sono niente, non riesco piú a essere niente e sto male, ma ogni volta che provo a essere qualcosa, ogni volta che sono qualcosa, che interpreto una parte, scelgo un ruolo, mi concentro per recitarlo al meglio, anzi, incarnarlo, mi sembra di morire. Me ne fregavo ormai di tutti. Pareti lisce, le persone, gli occhi, i sentimenti, le storie. La vita era faticosa. E tutta quella fatica non valeva la pena. E allora pensavo: Il buio, a un passo. Il cratere fumante, a un passo. Lo stagno torbido, a un passo. Il coltello, il sonnifero, la corda, a un passo. Certi giorni, con quanta timidezza, splendevo, ma l’ombra era lí. Piano piano, arrivare a non pensarci, a quell’ombra, a farla svaporare come un alone umido sulla stoffa. Non ci sono riuscita, ho cercato aiuto. L’ho fatto prima che fosse troppo tardi, nel momento in cui mi sono resa conto che ormai l’unica cosa alla quale pensavo davvero era il suicidio. Ci pensavo costantemente, era il mio unico sollievo: sarei morta, la sofferenza sarebbe finita. «Quando noi viviamo la morte non c’è, quando c’è lei, non ci siamo noi. Non è nulla né per i vivi né per i morti. Per i vivi non c’è, i morti non sono piú»2, scriveva Epicuro. Ed era proprio lí che volevo arrivare: a non esserci piú. Non so cosa mi abbia veramente trattenuta, poi spinta a cercare qualcuno che mi potesse aiutare, a telefonare, prendere un appuntamento e andare. Era una psicoanalista. Una donna. Non so con esattezza perché non mi sono rivolta al Centro di salute mentale del mio paese, anzi, lo so benissimo: perché come tanti, tantissimi, provavo vergogna di ciò che mi stava capitando e non volevo che qualcuno venisse a saperlo. Un campanello accanto alla porta di un appartamento privato fa meno paura di un ambulatorio medico. E poi paghi, e quel gesto ti rassicura: se paghi vuol dire che avrai diritto al servizio migliore possibile e non verrai giudicato e nessuno lo saprà. Se puoi permettertelo, certo. Ho fatto grandi sacrifici per pagarmi le sedute in quei sette anni. Nei primi mesi non succedeva niente. Continuavo a stare male. Ci vuole del tempo e a me sembrava di non averlo, quel tempo, ogni giorno pensavo che volevo morire e mi vergognavo perché non c’era un vero motivo per cui dovessi desiderarlo. Sí, era finita una storia d’amore, ne era cominciata un’altra, che si era schiantata contro l’evidenza della sua impossibilità. C’era un lutto, ormai lontano nel tempo, ma che continuava a ripetersi, per me, ogni singolo giorno, insieme al senso di colpa che ne derivava. Mangiavo una banana al giorno. E basta. Volevo essere magra. Volevo sparire. Chiesi dei farmaci alla mia dottoressa e lei, dopo molte insistenze, mi mandò da uno psichiatra con il quale collaborava. Lo psichiatra mi dedicò un’ora del suo tempo. Parlammo dell’analisi che stavo facendo, degli attacchi d’ansia, della paura. Ricordo che nel suo sguardo notai piú volte dei lampi di ironia. Alla fine della chiacchierata prese in mano il blocco delle ricette, rimase con la penna sollevata a mezz’aria e disse: «Io glieli prescrivo anche, gli psicofarmaci, ma lei davvero è pronta all’eventualità di ingrassare dieci chili in tre mesi?» La risposta mi pare evidente. Uscii da quello studio con un foglietto che prescriveva compresse di ademetionina per tre cicli di venti giorni e compresse di integratore multivitaminico. Stop. Aveva centrato il punto: stavo già facendo un percorso di psicoanalisi e il fatto che andassi a tutte le sedute senza mai saltare già diceva della mia volontà di affrontare lo stato depressivo nel quale mi trovavo. Certo, la mia era una depressione ansiosa reattiva – definizione che piú o meno strappai alla mia psicoanalista dopo anni di domande sfiancanti, perché io avevo bisogno di definirmi, di appiccicarmi un’etichetta, di sapere chi ero diventata – e quel tipo di depressione – associata a un lutto o a qualcosa che viene vissuto come tale e che non si riesce a elaborare – assomiglia un po’ alla ciclotimia: fasi alterne ravvicinate di alti e bassi e possibilità di fare scelte avventate. Ne ho fatte. Ne ho pagato il prezzo. Ho continuato ad andare alle sedute. Ho smesso, anticipando di un poco i tempi, perché è nel mio carattere chiudere quando decido di chiudere, non ho molta grazia, in questo. Sono stata fortunata? Credo di sí. A un certo punto, dopo meno di un anno e mezzo da quando era cominciata l’analisi, chiesi una pausa di tre settimane. Nel mese di giugno, un amico giornalista mi aveva invitata a New York dove stava facendo un corso alla Columbia University. Aveva preso in affitto un appartamento affacciato sull’Hudson River. Non ero mai stata a New York, soffrivo di attacchi di panico, stavo seguendo un percorso di psicoanalisi. Cosa avrebbe detto, la logica, a chiunque? Decisi il giorno, prenotai il biglietto aereo, comprai una scatola di cerotti alla nicotina e partii per gli Stati Uniti. Non ricordo nulla di quel viaggio in aereo, nulla. So solo che erano otto ore di volo diretto, che non mi persi in aeroporto, arrivai al gate puntuale, avevo con me i documenti necessari e in un modo o nell’altro giunsi a destinazione. Di sicuro mi aiutò l’iPod, fedele compagno dei miei anni peggiori, che per tutta la durata del viaggio, quando possibile, mandò in loop una playlist con le canzoni di Sam Cooke, The Man Who Invented Soul. La mattina dopo il mio arrivo accompagnai il mio amico a Union Square, doveva andare a lezione e pensavo vi avrei assistito e sarei tornata indietro assieme a lui. Invece, dopo un caffè alla Barnes & Noble, R. mi mise in mano una card per la metro, una piantina di Manhattan, una scheda telefonica per i telefoni pubblici (non avevo un cellulare adeguato alla bisogna) e un foglietto con sopra scritto l’indirizzo di casa e il suo numero di telefono. Poi mi fece ciao ciao con la mano e mi disse, «A stasera». Boom. Ero in mezzo a una città sconosciuta: La Città. I grattacieli erano infiniti, la luce accecante, l’aria condizionata a palla dappertutto, la gente era grande grossa e con un aspetto

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