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Il declino dell'impero americano PDF

97 Pages·2014·0.75 MB·Italian
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LDB Presentazione Nel 2003, con Il rischio americano, Sergio Romano affermava, nella nuova fase politica internazionale iniziata dopo gli attentati dell’11 settembre, che gli Stati Uniti, unica superpotenza mondiale, avevano agito con arroganza anche perché l’Europa era stata assente o insignificante. Poco più di dieci anni dopo, in un contesto di continua fibrillazione acuita dalla perdurante crisi economica apertasi nel 2007/2008, la domanda di fondo è sempre la stessa: cosa vuol fare l’Europa da grande? Se il declino degli Stati Uniti come impero mondiale sembra evidente, non altrettanto chiaro è il modo in cui gli americani sapranno attraversare questa fase della loro storia. La condizione imperiale è una droga da cui non è facile disintossicarsi. La parabola del declino americano sarà tanto meno rischiosa quanto più sarà accompagnata dalle scelte ragionevoli di Cina, Russia, Brasile, Iran e di altri paesi. Ma la responsabilità maggiore è dell’Unione europea, che non può assecondare l’America in ciò che rimane della sua politica imperiale, e le sarà tanto più utile quanto più diverrà, in una realtà multipolare, una sorta di Svizzera continentale. Per gli americani che ancora credono nella vocazione imperiale del loro paese, un’Europa divisa è il migliore degli alleati possibili. E l’unità europea si farà soltanto a dispetto dell’America: per garantire un ruolo all’Europa in un mondo in cui lo spazio creato dal declino americano verrebbe riempito da potenze extraeuropee. SERGIO ROMANO (Vicenza, 1929) ha iniziato la carriera diplomatica nel 1954. Dopo essere stato ambasciatore alla nato e, dal settembre 1985 al marzo 1989, a Mosca, si è dimesso. Ha insegnato a Firenze, Sassari, Pavia, Berkeley, Harvard e, per alcuni anni, all’Università Bocconi di Milano. È editorialista del Corriere della Sera e di Panorama. Tra i suoi ultimi volumi pubblicati da Longanesi, Con gli occhi dell’Islam (2007), Storia di Francia, dalla Comune a Sarkozy (2009), L’Italia disunita, con Marc Lazar e Michele Canonica (2011), La Chiesa contro, con Beda Romano (2012) e Morire di democrazia (2013). www.longanesi.it facebook.com/Longanesi @LibriLonganesi www.illibraio.it PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA Longanesi & C. © 2014 – Milano Gruppo editoriale Mauri Spagnol ISBN 978-88-304-4069-2 In copertina: foto © Shutterstock Grafica di Elisa Zampaglione/DUDOTdesign Prima edizione digitale 2014 Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore. È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata. IL DECLINO DELL’IMPERO AMERICANO PREMESSA Dal primo giorno della loro esistenza gli Stati Uniti sono una potenza imperiale. Le radici religiose, il sentimento delle proprie virtù, la convinzione che il Paese abbia un «destino manifesto», hanno instillato nella società americana la certezza della sua superiorità politica e morale. Sono stati imperiali sin da quando proclamarono la dottrina di Monroe (1823); strapparono la California e altri territori al Messico; estesero la loro frontiera sino al Pacifico; imposero al Giappone la politica della «porta aperta» e bombardarono la città di Shimonoseki (1864); accarezzarono per qualche tempo l’annessione dell’isola di Formosa; cacciarono la Spagna da Cuba e dalle Filippine; comperarono la Louisiana, l’Alaska e le Isole Vergini. Nel 1860, durante una campagna elettorale per la Casa Bianca, W.H. Seward, futuro segretario di Stato durante la presidenza di Abraham Lincoln, fece discorsi in cui, come ricordano gli autori di Rise of American Civilization, descriveva il futuro dell’impero americano. Era convinto che «gli avamposti degli Stati Uniti, un giorno, sarebbero stati spinti lungo la costa nordoccidentale verso l’oceano Artico, che il Canada sarebbe stato accolto nella nostra gloriosa Unione, che le repubbliche dell’America Latina, riorganizzate sotto la nostra benevola influenza, sarebbero divenute parte di questa magnifica Confederazione, che l’antica metropoli degli Aztechi, Città del Messico, sarebbe stata la capitale degli Stati Uniti, che l’America e la Russia avrebbero rotto la loro vecchia amicizia per affrontarsi nell’Estremo Oriente, là dove le grandi civiltà hanno fatto la loro prima apparizione». Dalla fine della seconda guerra mondiale l’America ha affrontato la sfida dell’Urss alla testa di una grande alleanza politico-militare, ha cinto il mondo di basi militari, ha creato rapporti di alleanza e sudditanza con un grande numero di paesi amici e vassalli, ha esportato il proprio modello economico e finanziario anche nei paesi che avevano fatto parte del blocco sovietico e nella Cina post-comunista. Ha promosso in alcuni casi la nascita di una giustizia mondiale, ma non è fra i paesi che hanno ratificato il Tribunale penale internazionale perché ciò che è utile e desiderabile per altri, non è né utile né desiderabile per se stessa. Quando decide di punire con sanzioni economiche uno Stato riottoso o ribelle, il Congresso degli Stati Uniti approva leggi extraterritoriali che trattano le aziende straniere come se fossero americane e le puniscono quando non si conformano alle loro norme. Può sembrare incomprensibile che questa stessa America, così fiera della sua originalità e così convinta della propria superiorità, attraversi periodi in cui la maggioranza dell’opinione pubblica considera con sospetto qualsiasi partecipazione attiva alla grande politica internazionale. Il testo sacro dell’isolazionismo americano è il «Farewell Address», l’addio alla nazione di George Washington alla fine della sua presidenza nel 1796. Disse ai suoi connazionali che l’Europa era distinta da un groviglio d’interessi estranei a quelli degli Stati Uniti e concluse: «Non è saggio quindi lasciarci coinvolgere con legami artificiosi nelle abituali vicissitudini delle sue politiche, nelle abituali collisioni e combinazioni delle sue amicizie e inimicizie». Ma in quelle parole vi era più orgoglio che prudenza. Gli Stati Uniti non avrebbero mai combattuto per cause che non fossero interamente, esclusivamente americane. Non avrebbero partecipato a una partita tra «cugini», come i monarchi europei definivano se stessi nei loro rapporti. Li avrebbero guardati dall’alto e da lontano, avrebbero costruito da soli il proprio futuro. E se fossero stati costretti a intervenire, come nella prima e nella seconda guerra mondiale, sarebbero rientrati nella tenda dopo la vittoria o avrebbero preso sin dall’inizio l’intero governo dell’operazione. La parola «isolazionismo» può essere in molti casi sinonimo di unilateralismo. Dopo essere stata costretta ad accettare per più di trent’anni le costrizioni e le servitù della Guerra fredda, l’America ha avuto dapprima qualche tentazione isolazionista, ma si è poi rapidamente considerata libera di agire contro chiunque potesse sfidare l’ordine americano e ha combattuto tre guerre: in Serbia, in Afghanistan e in Iraq. Ma le guerre non vinte, come quelle dell’Afghanistan e dell’Iraq, sono inevitabilmente, per una potenza imperiale, guerre perdute. E la crisi finanziaria del 2008 ha messo in evidenza le falle di un sistema che neppure il suo creatore riusciva più a controllare. La crisi dell’impero americano è cominciata a Kabul e a Baghdad, ma diviene ancora più evidente quando i più vecchi e fedeli alleati degli Stati Uniti – l’Arabia Saudita, Israele, la Turchia, il Giappone, alcuni paesi europei e latinoamericani – lanciano segnali di fastidio e cominciano a fare scelte politiche che danno per scontato il declino della potenza americana. Barack Obama sembra esserne consapevole e forse deciso ad accompagnare i suoi connazionali verso una diversa dimensione internazionale. Questo libro racconta le ultime fasi dell’ascesa e le prime fasi del declino sino ai nostri giorni

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